Il Messia del secondo millennio

Nel secolo scorso ci fu in Italia uno strambo signore che faceva di anagrammi e sciarade il caposaldo delle proprie teorie, arrivando a sostenere di essere il nuovo Messia e a pretendere obbedienza dal Papa e dai capi di stato.

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Negli ultimi anni abbiamo assistito al sorgere di strane teorie d’importazione americana, tutte basate su strampalerie sovraniste tra cui una delle più diffuse è la convinzione che avere il proprio nome scritto in tutte lettere maiuscole (come avviene ad esempio sui certificati di nascita) sia la peggiore jattura in quanto ciò starebbe a significare la schiavitù nei confronti dei Poteri Forti.
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Questa importanza estrema data ai nomi e alle parole, e al modo in cui vengono scritte, non è cosa di oggi: già nel secolo scorso ci fu in Italia uno strambo signore che faceva di anagrammi e sciarade il caposaldo delle proprie teorie.
Il curioso personaggio si chiamava Amilcare Pollini e si era autoproclamato nientemeno che Messia e Duomo (Dio + Uomo) di Milano.
Nato a Germignaga, vicino a Luino, nel 1905, si era trasferito da giovane a Milano dove ottenne un certo successo come editore stampando la Guida Pollini per gli Industriali, una sorta di “Guida Monaci” che gli diede l’agiatezza, ed altri volumi dello stesso genere: nel 1938 sposò la figlia di un filosofo rivoluzionario, tipo strambo e anarcoide, le cui strampalate teorie esoteriche lo influenzarono profondamente.
All’inizio Pollini conservava ancora una certa lucidità, ma in una notte d’incubo comprese finalmente che il suocero altri non era che il suo-cero, cioè colui che avrebbe illuminato il suo cammino: inoltre si chiamava E-u-genio (E’ un genio) Isid-oro (cioè Iside dea della sapienza e Oro dio dell’amore) A-zz-ario (Ario dall’A alla Z).
La passione del tutto innocente che Amilcare aveva sempre avuto per gli anagrammi e le sciarade degenerò quindi in una pazzesca teoria secondo cui “ogni parola rivela la sua funzione” e “la lotta tra Dio e il Demonio si nasconde nelle parole”.
Un giorno fu folgorato da una rivelazione: le iniziali del suo cognome e dei suoi tre nomi (Pollini Amilcare Pietro Angelo) formavano la parola PAPA! Esaminando poi attentamente il suo primo nome, A-mil-ca-re, comprese di abitare (A) da un millennio (mil) nella casa (ca) del Re (re). Ripensando al famoso detto Mille e non più Mille, comprese che ogni mille anni cambia scena, viene un nuovo Messia, e lui, A-mil-ca-re, non poteva essere altro che il Messia del millennio in corso.
A questo punto il Pollini prese in affitto un ufficio nella centrale Via Torino  e cominciò ad elaborare, stampare e spedire in giro per il mondo centinaia di manifestini scritti in cinque lingue, nei quali esponeva le sue teorie; inoltre cominciò a scrivere a tutti i capi di stato lettere di questo tenore: “Tu, De Ga-speri, che cosa speri? Non sai che chi vive De-Gasperando muore cantando?”, “Tu, Tru-man, sei l’uomo del trucco all’americana. Infatti, il Tru-cco c’è ma n-on si vede”.
Ad un certo punto, però, decise che il destinatario delle sue raccomandate-espresso doveva essere Papa Pacelli, Pio XII, che avrebbe dovuto, secondo lui, consegnargli nientemeno che le chiavi di San Pietro.
All’inizio si trattava di bonarie esortazioni, tipo: “Che cosa aspetti dunque, Pacelli, figlio mio diletto, a venire da me come ti ho ripetutamente ordinato? Non ascoltare i cattivi consiglieri che ti dicono di non venire, fa’ il tuo dovere, Pacelli, altrimenti va a finire che mi arrabbio”.
Visto che le buone maniere non avevano alcun effetto, Pollini lanciò un terribile ultimatum: il Papa doveva partire da Roma, per Milano, entro la mezzanotte del 31 dicembre 1949. Il mezzo di locomozione era a sua scelta: treno, aeroplano, automobile o bicicletta. Pena in caso di non-obbedienza, l’immediata distruzione della Basilica di San Pietro.
Purtroppo dicembre venne e passò, e il Papa a Milano proprio non si vedeva; Amilcare Pollini decise di concedere una proroga e scrisse in questi termini: “Bene hai fatto, Pacelli, a non venire. Hai compreso che l’umile pecorella non va dal Pastore e che il figlio non va dal Padre suo comodamente seduto in prima classe o in vagone letto. Ti concedo quindi di partire a piedi entro il 31 gennaio 1950. Non temere per la tua salute: io penso a tutto e ti ho concesso un inverno mite per agevolarti. Tu percorrerai sette chilometri al giorno e, come vedi, avrai il tempo di riposare, mangiare, dormire e dire messa ogni mattina. Arriverai a Milano il primo maggio e io della festa del lavoro profano farò anche la festa del lavoro sacro”.
La cosa si riseppe e la stampa cominciò ad occuparsi dello strambo profeta: quando un giornalista si permise di prospettargli la possibilità che il Papa non venisse, egli meditò un istante e rispose: “Se non viene il Papa, verrà Stalin… no, Sta-l-in non può venire perché lui sta là in Russia e non si può muovere. Ma non importa: scriva che se Pacelli non viene da me, io vado da Stalin”.
Evidentemente però Pollini, che aveva ormai dilapidato i milioni guadagnati in precedenza, restò a Milano, dove morì investito da un’auto nel 1956.