Nel cuore della notte, mentre gran parte del mondo dormiva e l’Iran si svegliava sotto il fragore delle bombe, l’America ha riscoperto, e avuto la conferma, di avere un presidente con la vocazione del comandante supremo… e la tentazione dell’autocrate.
Donald Trump, il presidente che aveva promesso di mettere fine a tutte le guerre, ne ha iniziata un’altra ordinando un attacco massiccio e simultaneo contro tre impianti nucleari iraniani – Fordow, Natanz e Isfahan – colpiti da bombardieri stealth B-2 che hanno rilasciato le femigerate bombe bunker buster da penetrazione mentre sottomarini nucleari lanciavano missili Tomahawk. Un’operazione chirurgica e spettacolare, senza dubbio. Ma anche un atto di forza unilaterale, condotto senza l’autorizzazione del Congresso, come previsto dalla Costituzione americana. Un dettaglio, si direbbe, se non fosse che si tratta di un atto di guerra.
Un raid da manuale
Trump non ha esitato a definirlo un “successo spettacolare”, lodando le forze armate e pubblicando messaggi trionfali su Truth Social. Non è difficile cogliere l’intento: mostrare leadership, decisione, potere.
Ma c’è una differenza tra mostrare forza e agire senza freni. Trump non ha consultato il Congresso, né ha richiesto un’autorizzazione formale. L’Unilateral War Powers Act è stato completamente bypassato. Non si tratta di un’opinione: lo denunciano apertamente diversi esponenti del Partito Democratico e, in modo sorprendente, anche alcuni membri repubblicani, tra cui il libertario Thomas Massie. Bernie Sanders ha parlato di un “pericolosissimo precedente”. Hakeem Jeffries lo ha definito “un abuso di potere presidenziale”. La democrazia americana, ancora una volta, si ritrova a inseguire gli eventi.
Fordow come Sarajevo?
L’attacco al sito di Fordow, cuore blindato del programma nucleare iraniano, è molto più che un’azione tattica. È un messaggio diretto a Teheran, ma anche a Mosca, Pechino e Tel Aviv: gli Stati Uniti non staranno a guardare. La distruzione del sito – se confermata – rappresenta un colpo durissimo al programma atomico degli Ayatollah.
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📘 Leggi la guida su AmazonTuttavia, resta la domanda che incombe su ogni azione militare preventiva: e adesso?
I proxy dell’Iran: fantasmi con coltelli arrugginiti?
Sullo scacchiere mediorientale, gli alleati dell’Iran sembrano in declino:
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Hamas è decapitata, militarmente e politicamente, dopo mesi di guerra a Gaza.
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Hezbollah ha ancora arsenali ma è logorata sul fronte libanese.
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Le milizie irachene sono più disorganizzate che efficaci.
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Gli Houthi in Yemen sono forse l’unico vero pericolo sul breve termine: capaci di bloccare rotte marittime e colpire navi nel Mar Rosso.
Ma tutti questi attori sono asimettrici, e rispondono meglio alle guerre di logoramento che agli scontri diretti. Il rischio è che, proprio per mancanza di alternative, l’Iran reagisca in modo imprevedibile, forse tramite cyber-attacchi, forse colpendo obiettivi civili lontani dai radar dell’intelligence americana.
Putin guarda, ma non gioca
Il grande spettatore di questa partita è Vladimir Putin. La Russia ha bisogno dell’Iran: per i droni, per la cooperazione anti-occidentale, per gli equilibri regionali. Ma un conflitto totale tra USA e Iran potrebbe complicargli terribilmente le cose.
Mosca ha tutto l’interesse a mantenere il caos a bassa intensità, senza perdere il proprio fornitore di Shahed-136. Un Iran devastato o sotto attacco non serve a Putin. Anzi, rischia di lasciarlo senza un cuscinetto strategico nel Golfo.
Inguaiato com’è in casa sua per via della guerra con l’Ucraina, Putin può fare poco oltre a rilasciare dichiarazioni, a meno di tornare ad agitare l’unico arsenale di cui dispone ancora intanto: quello nucleare ma non ha nessuna convenienza a risvegliare davvero la NATO.
Un precedente pericoloso per Trump
Senza l’approvazione del Congresso, senza consultazione con alleati NATO (salvo Israele), e con una motivazione che si regge su una minaccia mai davvero dimostrata in tempo reale, l’attacco a Fordow è un pericoloso scivolamento verso una politica estera guidata dallo show, non dalla strategia.
Se domani un altro leader – in Cina, in India, in Turchia – decidesse di colpire un vicino “per prevenire una minaccia”, con quale autorità morale gli Stati Uniti potranno dire “non si fa”?
La guerra come leva politica
Alla fine dei conti, resta un’amara considerazione: Trump ha lanciato l’America in un’operazione ad altissimo rischio per convenienza interna, non per emergenza globale. La democrazia viene messa da parte, il diritto internazionale ignorato, e il Medio Oriente si ritrova ancora una volta a fare da scacchiera per il potere.
Trump non ha esitato a definirlo un “successo spettacolare”, lodando le forze armate e pubblicando messaggi trionfali su Truth Social. Non è difficile cogliere l’intento: mostrare leadership assoluta e potere decisionale senza mediazioni. Da presidente rieletto, non ha più elezioni da vincere — e forse proprio per questo si sente ancora più libero di agire secondo il proprio istinto.
Conclusione
L’Iran è stato colpito, ma non domato. Il mondo osserva, ma non applaude. E la democrazia americana, già ferita da anni di polarizzazione, deve ora confrontarsi con un presidente che ha deciso di fare la guerra prima di chiedere il permesso.
E questo, al di là dei successi tattici, è il vero pericolo.