La recente conferma che i Sapiens si incrociarono con i Denisovan oltre che con i Neanderthal ed il conseguente aumento dei rami ibridi dell’albero genealogico del genere Homo, sta spingendo i ricercatori a ripensare il concetto di specie.
La definizione classica del libro di testo, noto come concetto di specie biologica, è “un gruppo di organismi che producono solo prole fertile l’uno con l’altro”. Secondo questa regola, tutti i tipi di cane domestico sono una singola specie, dal bassotto all’alano, ma un asino ed un cavallo, che pure producono prole, sono specie differenti.
Rebecca Ackermann, docente presso l’Università di Città del Capo in Sud Africa, preferisce una definizione diversa, non dipendente dal successo riproduttivo: una specie è gruppo di organismi che condividono un mix di tratti anatomici, comportamentali e genetici che li distingue da altri gruppi. Ma, aggiunge, “molti biologi evoluzionisti che conosco spesso evitano del tutto la parola specie “.
Questo perché i rami dell’albero evolutivo sono piuttosto ingarbugliati e molti organismi, pur su rami divergenti possono ancora incrociarsi. “I canidi possono, così come i maiali ed i topi, per fare alcuni esempi.”, spiega il biologo evoluzionista Michael Arnold, dell’Università della Georgia. “C’è un ibrido sotto ogni cespuglio“.
Questo include i nostri antenati. Prove genetiche hanno dimostrato che l’antico Homo sapiens si è incrociato con i Neanderthal ed i loro cugini orientali, i Denisovani, più volte tra i 100.000 ed i 40.000 anni fa. Neanderthal e Denisovan si accoppiarono l’uno con l’altro e Denisovani si unì a un lignaggio distante, non ancora noto dai fossili, che potrebbe essere stato più vicino al precedente Homo erectus .
In recenti studi sul DNA, quasi “ogni volta che un nuovo individuo viene sequenziato dalla documentazione fossile umana“, dice Ackermann, “c’è qualche nuova prova per il flusso genetico“.
L’incrocio può essere stato un tema comune nell’evoluzione umana, ma è difficile, oggi, capire fino a che punto, visto che la nostra è l’unica specie Homo ancora esistente. Per comprendere meglio il nostro passato, gli antropologi come Ackermann hanno iniziato a cercare altri animali che si accoppiano tra le classiche linee di specie biologiche.
Uno dei principali problemi è proprio con il concetto di specie biologica: non può essere applicato a organismi che si riproducono asessualmente, che include la maggior parte dei microorganismi. Il requisito del sesso rappresenta anche un problema nel caso di animali estinti perché i paleontologi non possono dire solo guardando due fossili simili se quelle creature avrebbero potuto accoppiarsi. Escludendo organismi estinti e asessuati, il concetto di specie biologica non funziona per la stragrande maggioranza della vita che esiste.
per lungo tempo, tuttavia, questa definizione è stata sostenuta dalla bioogia, in parte perché si adatta all’immagine prevalente dell’evoluzione come un albero ramificato, in cui una singola specie ancestrale diverge in distinti lignaggi di specie discendenti.
“Era l’idea classica“, dice Arnold. Invece, dobbiamo rassegnarci al fatto che, mentre nascono rami divergeni da un primitivo ramo ancestrale, “i geni vengono ancora scambiati, anche se li chiamiamo specie diverse“.
La ricerca ha rilevato che si verificano incroci nel 10% delle specie animali, percentuale che sale al 25% dei primati, compresi gli incroci tra parenti lontani come i gelada ed i babbuini, il cui ultimo comune antenato viveva circa 4 milioni di anni fa.
Riconoscendo l’ubiquità dell’interbreeding tra i primati, Arnold ha scritto un libro, una decina di anni fa, in cui sosteneva che durante l’evoluzione umana doveva esserci stata più di qualche ibridazione. All’epoca fu oggetto di alcune critiche da parte degli antropologi, molti dei quali pensavano che l’Homo sapiens non avesse avuto incroci interspecie, salvo poi ricredersi poco tempo dopo, quando il sequenziamento del genoma di Neanderthal rivelò che, effettivamente, c’erano stati incroci tra le due specie.
“Non saremo mai in grado di osservare le interazioni tra gli ominidi arcaici e il nostro lignaggio in tempo reale, ma possiamo fare qualcosa di simile con i primati non umani“, dice Jenny Tung, antropologa alla Duke University.
La Tung studia i babbuini nel bacino dell’Abuoseli in Kenya. Si tratta di una popolazione di babbuini gialli che è stata osservata per decenni, insieme, occasionalmente, ai babbuini anubis, una specie separata individuata più a nord.
I lignaggi di queste due specie di babbuini si sono divisi approssimativamente 1,4 milioni di anni fa, più del doppio del tempo che pensiamo separino gli uomini di Neanderthal e l’uomo moderno. Ebbene, nonostante la distanza temporale, le differenze fisiche e quelle genetiche, gli ibridi documentati di questi babbuini sono fertili e rigogliosi.
“Questo ha sollevato un sacco di domande su come queste due specie imparentate riescano a rimanere separate l’una dall’altra pue riuscendo a mescolarsi abbastanza liberamente“, dice la Tung.
In un recente studio, i 22 babbuini di Amboseli testati avevano un’ascendenza tra il 12 e il 72 per cento derivato da quelli anubi, compresi individui che sembravano gialli puri. Le pervasive firme genetiche degli anubi suggeriscono che le specie si sono accoppiate per centinaia, persino migliaia di generazioni.
Ulteriori analisi, anche su famiglie di babbuini situate molto lontano da queste due, hanno tuttavia dimostrato che gli ibridi esistono solo in una stretta zona di transizione tra i territori centrali degli anubi e dei babbuini gialli. È possibile, pensa Tung, che i tratti ibridi in questo particolare habitat o gruppo sociale possano non essere di beneficio altrove. Ad esempio, il pelo degli anubi più scuro che alcuni ibridi hanno potrebbe far sentire maggioremente il caldo ai babbuini ibridi nell’area popolata dai gialli puri, che ha un clima più caldo, più secco e più simile alla savana rispetto alle foreste montuose dell’area abitata dagli anubi puri. Questo suggerirebbe che l’ibridazione tra ominidi potrebbe anche essere stata utile in alcuni ambienti e società, ma non in altri.
Come individuare un ibrido
Anche Ackermann lavora sui babbuini, ma i suoi sono morti. Esperta di anatomia scheletrica, si è interessata all’ibridazione nei primi anni 2000 studiando ossa di babbuini con pedigree noti. Aveva notato che alcuni individui sembravano un po’ strani e ulteriori controlli avevano confermato che erano ibridi.
A quel punto, la Ackermann si mise a caratterizzare i suoi babbuini: sperava di trovare caratteristiche scheletriche ricorrenti derivanti dall’incrocio, che avrebbero potutto essere utilizzate per individuare gli ibridi tra i fossili umani. Era un obiettivo provocatorio, anni prima che i metodi genetici potessero confermare l’ibridazione degli ominidi. Ma il suo approccio aveva un vantaggio anche sull’analisi genetica più all’avanguardia: mentre il DNA antico può identificare in modo affidabile gli ibridi, raramente viene conservato nelle ossa più vecchie di 10.000 anni in zone particolarmente calde. Concentrandosi su tratti scheletrici visibili, la Ackermann può potenzialmente identificare ibridi fossili attraverso sei milioni di anni di storia degli ominidi.
Misurando i teschi di 169 gialli, anubi e ibridi che avevano vissuto in cattività, scoprì che gli ibridi non sono semplicemente intermedi della specie madre: presentano spesso anomalie come denti extra o non allineati. lo sviluppo degli ibridi riceve istruzioni dai genomi di entrambi i genitori, e questi potrebbero non essere sincronizzati su, ad esempio, quando alcuni denti o ossa dovrebbero formarsi. Questi piccoli difetti non influenzano l’idoneità evolutiva dell’individuo, ma possono permettere ai ricercatori di individuare un ibrido.
La Ackermann ha riscontrato le stesse stranezze evolutive in altri gruppi di mammiferi come gnu e gorilla.
Gli antropologi hanno a lungo discusso se particolari fossili di ominidi possano essere o no ibridi, ma di solito basano le loro argomentazioni sull’assunto infondato che gli ibridi assomiglino ai prodotti intermedi o alle medie dei loro genitori. In uno studio del 2010, Ackermann ha utilizzato le anomalie dello sviluppo per suggerire candidati ibridi, come i neandertaliani di 130.000 anni fa, provenienti dalla Croazia, dotati di premolari anormali e umani moderni di 100.000 fa anni provenienti da Israele con tratti come denti non allineati e una faccia asimmetrica.
Tra le proposte di possibili ibridi, incluse anche un cranio umano anatomicamente moderno di 35.000 anni fa proveniente dalla Romania. Cinque anni dopo lo studio di Ackermann, il DNA antico di un altro Homo sapiens nello stesso sito rivelò che l’individuo aveva avuto un antenato di Neanderthal tra quattro e sei generazioni indietro.
Di topi e ominidi
lo studio della Ackermann puntava a capire quanto fossero comuni queste stranezze di sviluppo tra gli ibridi e se le stesse anomalie persistono nelle generazioni successive. I suoi colleghi dell’Università di Calgary allevarono diverse generazioni di topi da tre sottospecie e due specie per il progetto. Kerryn Warren della University of Cape Town, ha analizzato le ossa.
Il progetto è in corso, ma la tesi di dottorato di Warren, intitolata “Of Mice and Hominins“, offre un’anteprima: le comunità ibride sono sorprendentemente diverse. La progenie può assomigliare a un genitore o una miscela – o assumere forme diverse da quelle dei genitori. La mescolanza permette alle specie di scambiare e mescolare i geni, e le caratteristiche originali che portano a questi “mostri speranzosi“, come Warren e altri ricercatori chiamano gli ibridi, potrebbero essere utili scorciatoie evolutive, specialmente per i nostri antenati.
Mentre l’Homo sapiens si espandeva a livello globale, si trovò a dover affrontare nuovi ambienti, cibi e malattie. I migranti avrebbero potuto evolvere adattamenti a quelle pressioni ambientali ma ci sarebbero volute molte generazioni. L’incrocio con specie di ominidi autoctoni avrebbe potuto dare origine ad ibridi in grado di affrontare le pressioi ambientali ereditandole del genitore autoctono. In pratica, l’incrocio tra specie diverse di ominidi, come per ogni altro animale in grado di incrociarsi e generare prole fertile, costituisce, dal punto di vista evolutivo, una specie di acceleratore.
Alcuni gruppi di ominidi, quindi, furono in grado di accelerare il processo di adattamento a nuove esigenze accoppiandosi con i Neanderthal e i Denisovani che incontrarono nel loro nuovo mondo. I lignaggi dell’Homo sapiens appena arrivato nell’area acquisirono geni adattativi localmente correlati al colore della pelle e dei capelli, al metabolismo e all’immunità per decenni, effettuamdo, di fatto, “un enorme salto in avanti rispetto a quello che avrebbero potuto ottenere attraverso i normali tempi della selezione naturale“, afferma la Ackermann. “L’ibridazione ha avuto un effetto serio, un grande impatto su quello che siamo oggi“.
Fonte: Discover Magazine