di Piercamillo Falasca per Strade
Saremo invasi dai prodotti canadesi?
Il Canada è il dodicesimo partner commerciale dell’Unione Europea – nel 2015 ha rappresentato l’1,8 per cento del commercio estero totale della UE – mentre la UE rappresenta il secondo partner commerciale del Canada (dopo ovviamente gli Stati Uniti), rappresentando una quota del commercio estero canadese del 9,5 per cento. Il valore dello scambio bilaterale in beni e servizi è stato nel 2015 di 90,7 miliardi di euro
Il grosso delle esportazioni europee verso il Canada è rappresentato da macchinari industriali, chimica e mezzi di trasporto. Dal Canada l’Europa compra invece molti metalli preziosi e minerali, ma non mancano macchinari e prodotti chimici. Nei servizi, prevalgono i trasporti, i viaggi, le assicurazioni e il settore delle comunicazioni. Nell’anno 2014, il valore degli investimenti diretti europei in Canada è stato di quasi 275 miliardi mentre gli investimenti canadesi nella UE cifravano 166 miliardi.
Rispetto al comparto agroalimentare, secondo le stime della Commissione Europea, il Canada è stato la destinazione di prodotti agroalimentari europei per un valore di quasi 3,5 miliardi di euro (nona destinazione dell’agri-food europeo, dopo Usa, Cina, Svizzera, Giappone, Russia, Arabia Saudita, Norvegia e Hong Kong), mentre le importazioni dal Canada sono stati pari a circa 2,2 miliardi.
Va evidenziato che ben 15 paesi esportano nell’Unione Europea più prodotti agroalimentari del Canada: Brasile (quasi 12 miliardi annui), Stati Uniti (11,2 miliardi), Argentina (5,9 miliardi), Cina (5 miliardi), Svizzera (4,7 miliardi), Turchia (4,6 miliardi), Indonesia (4,1 miliardi), Ucraina (4 miliardi), e poi tra i 2 e i 3 miliardi a testa Costa d’Avorio, India, Sud Africa, Vietnam, Thailandia, Nuova Zelanda e Cile.
Queste cifre inducono tre considerazioni: 1. Pur considerando le sue enormi potenzialità territoriali e i margini di crescita, ad oggi il Canada è un paese piccolo in termini di popolazione e di economia, certamente non in grado di “invadere” il mercato europeo, tanto meno quello agroalimentare. 2. Gettare a mare il Ceta – cioè l’accordo di libero scambio tra UE e Canada – avendo solo in mente il mercato agroalimentare significa danneggiare un interscambio non-agrifood 12 volte superiore a quello agroalimentare. 3. Limitandoci al comparto agroalimentare, è evidente la natura strumentale delle proteste anti-Ceta: ad oggi, non si registrano proteste particolari per gli ipotetici rischi sanitari connessi alle importazioni alimentari dalla Cina, dalla Turchia o dall’Indonesia, da ognuna delle quali importiamo il doppio di quel che prendiamo dal Canada, o dal Brasile, il cui import in Europa è più di 5 volte quello canadese.
Con il Ceta mettiamo a rischio i nostri prodotti tipici?
In realtà, per la prima volta in un accordo commerciale, l’Unione Europea è riuscita ad affermare e a far accettare il principio della tutela delle indicazioni geografiche. Con il Ceta, il Canada ha accettato il riconoscimento di 143 igp europee (di cui 41 italiane). Nei giorni scorsi, la protesta di Coldiretti e della CGIL contro il CETA ha puntato il dito sul fatto che l’accordo non tutelerebbe le restanti 250 igp italiane. Non spiegano però, i promotori della protesta, che, prima del CETA, nessuna delle 291 igp italiane, le 41 ora incluse nell’accordo e le 250 che restano fuori, era tutelata.
Per fare un esempio: senza il CETA, in Canada si poteva senza problema produrre un aceto balsamico e chiamarlo “Modena Balsamic”. Con l’accordo il Canada sarà tenuto a proteggere questi 143 prodotti tradizionali europei dall’imitazione, più o meno come accade in Europa. Nel mercato italiano ed europeo, comunque, non sarà possibile per il Canada vendere alcun prodotto che contrasti con tutte le igp esistenti: in altre parole, non una delle 291 igp italiane avrà nulla da temere nel grande mercato europeo.
Insomma, il CETA è un notevole passo in avanti per promuovere e tutelare davvero la tipicità italiana e per contrastare il cosiddetto “Italian sounding”. Si poteva fare di più? Probabilmente sì, ma far fallire l’accordo significherebbe non tutelare nessuno, come accaduto finora, e soprattutto far tramontare il vero successo europeo: aver per la prima volta affermato anche fuori dai nostri confini la prevalenza dell’indicazione geografica sul mero marchio commerciale, che nella mentalità nordamericana è l’unico oggetto meritevole di tutela.
Mangeremo carne con ormoni?
Sul punto, ha già risposto tempo fa Daniele Oppo su Strade. L’accordo non cambierà nulla in Europa in termini di sicurezza sanitari e fitosanitaria: la UE non accetta l’ingresso di carni contenenti residui di ormoni. I produttori canadesi potranno vendere la loro carne in Europa senza dazi, ma a condizione che la produzione segua le stringenti regole europee. C’è già un dibattito nel paese nordamericano, in particolare tra i produttori di carne, sulle condizioni e sulle strategie per attivare linee di produzione “hormone-free”.
Un dato curioso riguarda lo sbilanciamento dell’accordo: l’Europa permetterà l’ingresso di una quota di carne canadese senza dazi, crescente nel tempo fino a raggiungere in 6 anni le 75mila tonnellate; al contrario la carne europea potrà entrare in Canada libera da dazi e da quote fin da subito. Eppure, stando alle regole sanitarie canadesi, ci sono ben 83 tipologie di medicine per il trattamento dei vitelli permesse in Europa ma proibite in Canada perché favorirebbero lo sviluppo di microbi resistenti agli antibiotici.
Mangeremo mais e soia ogm?
Li mangiamo già. In Europa è vietata la coltivazione del mais e della soia geneticamente modificati, ma tali prodotti sono contenuti legalmente nei mangimi dati in pasto agli animali in Europa, anche per produrre poi prodotti dop e igp (carni, salumi e formaggi).
Il grano importato dal Canada è “peggiore” di quello italiano?
Purtroppo il grano italiano non è sufficiente al fabbisogno nazionale, tanto meno all’industria della pasta italiana, che esporta all’estero più del 45 per cento di quanto viene prodotto. Tra pesti e condizioni climatiche non sempre ottimali, ogni anno l’Italia ha bisogno di importare sempre più grano duro: erano 450 mila tonnellate nel 2013, sono diventate il doppio nel 2016. Per mantenere elevata la qualità della pasta italiana, dunque, c’è la necessità di importare il miglior grano duro disponibile nel mondo: dalla Francia, dagli Stati Uniti, dall’Australia e – appunto – dal Canada.
Le analisi svolte dagli istituti zooprofilattici di Lombardia ed Emilia Romagna, dall’Arpa Puglia e dal Centro per la ricerca in agricoltura e per l’economia agraria (Crea) attestano che il grano canadese si caratterizza per una bassa concentrazione di microtossine, circa 25 volte meno rispetto al limite indicato nella normativa comunitaria (si veda, a tal proposito, questo articolo del Fatto Alimentare, una rivista solitamente “ostica” con i prodotti importanti, ma non in questo caso).
Grazie al Ceta, i produttori italiani di pasta potranno accedere a una materia prima utile e di qualità, a un prezzo più basso di quanto sia possibile oggi. Ne beneficeranno l’industria, peraltro sempre più orientata all’esportazione, e i consumatori in termini di prezzo. Ci sarà un danno per i produttori italiani di grano, come denuncia Coldiretti? Sul punto, bisogna intendersi: nessuno pensa che il libero scambio sia un pranzo di gala o che un accordo commerciale possa essere un beneficio solo per uno dei contraenti, o che non vi siano nell’abbattimento delle barriere doganali alcuni settori che ne possono soffrire.
Ma la sfida dell’economia italiana, nel mondo globale, non potrà più essere quella di chiudersi e sperare di vivere da sé e per sé. Ci sarà un futuro, e si spera prospero, per il grano italiano se si preferirà la via degli investimenti, dell’innovazione e soprattutto della qualità.