Contro ogni previsione, un grampo, o delfino di Risso, albino è stato nuovamente avvistato. L’ultimo avvistamento di questo raro esemplare risaliva al 2015 quando era ancora cucciolo.
Questo rarissimo delfino bianco è stato avvistato nelle acque al largo della baia di Monterey, in California, la scorsa settimana, da Kate Cummings dell’organizzazione Blue Ocean Whale Watch. Una serie di contatti con i ricercatori del Marine Life Studies , che attualmente studiano le dinamiche della popolazione dei delfini di Risso, hanno confermato che si trattava dello stesso cucciolo albino con la madre documentato nel settembre di due anni fa. La coppia è stata ora catalogata per poterne tracciare gli spostamenti futuri.
Tutti gli animali di questa razza privi di pigmento hanno una vita particolarmente difficile in quanto risultano più visibili ai predatori, senza contare che il loro albinismo (o leucismo) è spesso legato a problemi di salute come disturbi della vista e della capacità di ecolocalizzazione e sono estremamente suscettibili alla luce solare. Il fatto che questo esemplare sia sopravvissuto per due anni, sia pure in compagnia della madre, riveste quiindi un carattere di eccezionalità.
“Se l’animale ha problemi con il sistema immunitario o il sistema di ecolocalizzazione compromessi è costretto ad affidarsi agli altri esemplari del branco per trovare le rpede con cui alimentarsi” Sostiene Josh McInnes, coordinatore dei ricercatori del Marine Life Studies “Non sappiamo molto circa i modelli di alimentazione del grampo. Sappiamo solo che adorano i calamari e che gruppi di questi animali sono molto collaborativi per l’alimentazione.”
Il piccolo delfino appare giallastro a causa di diatomee, alghe unicellulari cresciute sulla sua pelle. E ‘anche oggetto di discussione se si tratta di un vero e proprio albino o sia, piuttosto, “leucistic”, una condizione in cui c’è solo una perdita parziale della pigmentazione. Tuttavia, la prima immagine del delfino sembra mostrare che ha occhi rosa, indicando che questo potrebbe essere un vero animale albino.
I delfini Grampo ( Grampus griseus ) sono notoriamente timidi e possono essere incontrati nelle acque temperate e tropicali di tutto il mondo. Tipicamente cacciano di notte le creature come i calamari che risiedono nella zona scura delle profondità marine, oltre i 200 metri di profondità. Se si ha la fortuna di incontrarli, li si può facilmente riconoscere da altri delfini per la loro tipica testa bulbosa.
Il fenomeno degli Orbs è relativamente nuovo e viene rilevato quando, durante una posa fotografica, si utilizza il flash. Questi Orbs si presentano con una forma apparentemente sferica di dimensioni varie, con una corona luminosa e un nucleo più tenue che rimangono impressi sulle fotografie scattate con macchine fotografiche tradizionali o digitali. Alcuni “esperti” si sono spinti a paragonare questi globi alle sfere visibili nelle vicinanze dei cerchi nel grano. Apparentemente gli Orbs possono essere percepiti e, secondo alcune ricerche, esisterebbero foto di persone che guardano nella loro direzione al momento dello scatto. Gli Orbs risulterebbero in numero più elevato in presenza di più persone.
Sulla natura degli Orbs sono state fatte diverse ipotesi
– Sfere di plasma causate dai flash
– Particelle catturate dall’atmosfera terrestre al passaggio attraverso la coda di una cometa
– Entità extradimensionali
– eventi causati da attività tellurica
– Creature aliene
– Sonde extraterrestri
-Sonde inviate dal futuro.
Ci sono anche altre ipotesi sulla natura degli Orbs che potrebbero essere macchie di polvere poste sull’obiettivo, difetti della macchina fotografica o, se in presenza di apparati tradizionali, difetti della pellicola.
Ma cosa sono gli Orbs in realtà? E’ possibile sgombrare il campo dalle tante ipotesi e chiarire la natura del fenomeno?
Gli ORBS, secondo gli esperti, non sono altro che delle particelle di polvere miste ad acqua che vengono colpiti dal flash nelle vicinanze degli obiettivo apparendo nelle foto come degli oggetti sferici luminosi. Se vi è capitato, anche se il processo è diverso, provate a guardare una piccola stella con un binocolo e mettete l’immagine fuori fuoco, vedrete il piccolo puntino luminoso diventare una tenue sferetta, per gli Orbs è lo stesso, appaiono come sfere perché sono fuori fuoco.
Le foto degli “orb” hanno in comune alcune caratteristiche:
– essere scattate al buio
– essere scattate usando il flash
– essere scattate in presenza di polvere o particelle liquide in sospensione
La luce emessa dal flash colpisce le eventuali particelle contenute nell’aria (pulviscolo, pollini, pioggia) che, essendo microscopiche, possono essere considerate di forma sferica. La luce emessa dalla lampada del flash colpisce la superficie delle particelle dalla parte dell’apparecchio fotografico, riflettendone gran parte e allargandone l’area secondo un cono in cui ogni raggio ha un angolo di riflessione pari al doppio dell’angolo tra il raggio incidente e la normale alla superficie della particella.
Poiché si tratta, generalmente, di scatti abbastanza scuri, l’intenso riflesso generato dalle particelle colpite dal flash risalta sulle aree buie delle fotografie, comparendo nel fotogramma come un oggetto luminoso fluttuante.
Gli “orbs” hanno bordi frastagliati, perché la superficie presenta delle piccole irregolarità e, se filmati, appaiono in movimento per i naturali spostamenti dell’aria o a causa del calore emesso dalla sorgente luminosa puntata nella loro direzione.
Ottenere foto con orbs non è complicato, è sufficiente scattare fotografie con il flash all’aperto, quando inizia a piovere e cadono piccole gocce, fini e leggere. Oppure, in assenza di pioggia, basta spruzzare un po’ d’acqua davanti alla macchina fotografica.
Lontano dal suo famoso mare cristallino, l’interno della Sardegna è un labirinto di massicci impenetrabili e voragini scoscese che ospitano alcune delle tradizioni più antiche d’Europa.
I residenti parlano ancora il Sardo, la lingua vivente più vicina al latino. Le nonne guardano con diffidenza gli stranieri da sotto veli ricamati e in un modesto appartamento di Nuoro, una donna di 62 anni di nome Paola Abraini si sveglia ogni giorno alle 7 del mattino per cominciare a fare i su filindeu,la pasta più rara del mondo.
In realtà, ci sono solo altre donne che sanno ancora come farla: la nipote della Abraini e sua sorella, entrambe residenti in questa città aggrappata alle pendici del Monte Ortobene.
Nessuno può ricordare come e perché le donne di Nuoro hanno cominciato a preparare i su filindeu (nome il cui significato è “i fili di Dio”), ma per più di 300 anni, la ricetta e la tecnica sono state tramandate esclusivamente dalle donne della famiglia di Paola Abraini, che le hanno custodite gelosamente prima di insegnarle alle loro figlie.
L’anno scorso, un team di tecnici della pasta Barilla è venuto a vedere se potevano riprodurre la sua tecnica con una macchina. Non ci sono riusciti. Dopo aver sentito voci su questa pasta sarda segreta, Carlo Petrini, presidente di Slow Food Internazional, è andato a trovare Paola e, la scorsa estate, il celebre chef britannico Jamie Oliver le ha chiesto di insegnargli come preparare questo piatto. Alla fine, dopo oltre due ore di tentativi, il suo commento è stato: “Preparo pasta da 20 anni e non ho mai visto nulla di simile.”
Paola Abraini, 62 anni, si sveglia alle 7 del mattino ogni giorno per preparare la pasta (Credit: Eliot Stein)
I su filindeu si preparano tirando e ripiegando pasta di semola in 256 fili con la punta delle dita, allungando i fili in guisa di un ago sottile in un intricato modello a tre strati. La sua preparazione è così difficile e richiede tanto tempo che, negli ultimi 200 anni, questo piatto è stata servito solo ai fedeli che completavano un pellegrinaggio di 33 km, a piedi o a cavallo, da Nuoro al villaggio di Lula per la festa biennale di San Francesco.
Con cinque ore al giorno di lavoro per un mese, Paola riesce a fare circa 50 kg di pasta.
“Ci sono solo tre ingredienti: semola di grano duro, acqua e sale”, dice Paola Abraini, “la pasta va impastata vigorosamente avanti e indietro, insomma, l’ingrediente principale è l’olio di gomito”.
Il piatto è così difficile da fare che da 200 anni è stato servito solo ai pellegrini (Credit: Eliot Stein)
Paola Abraini spiega che la pasta si lavora fino a raggiungere una consistenza che ricorda plastilina, quindi si divide l’impasto in sezioni più piccole e si continua a lavorarlo in una forma cilindrica arrotolata.
Poi viene la parte più difficile, un processo che lei chiama, “capire l’impasto con le mani.” Quando si sente che ha bisogno di essere più elastica, si intingono le dita in una ciotola di acqua salata. Quando si ha bisogno di più umidità, le immerge in una ciotola a parte di acqua. “Ci possono volere anni per acquisire la necessaria sensibilità. E ‘come un gioco con le mani, una volta raggiunta la sensibilità giusta avviene la magia.”
Quando la semola ha raggiunto la giusta consistenza il filo cilindrico viene raccolto e si comincia a piegare e allungare, raddoppiando ogni volta i capi dei su filindeu premendoli nel palmo della mano. Questa sequenza di movimenti viene ripetuta otto volte e, ad ogni giro, la pasta diventa più sottile ed i fili raddoppiano di numero, fino a diventare 256 fili all’ottavo giro, arrivando a sembrare simili ai capelli d’angelo. A questo punto, si depongono i fili su una base circolare uno sopra l’altro a formare una croce, per poi tagliare le estremità troppo grosse con le dita prima di ripetere nuovamente il processo più e più volte.
Quando si arriva a tre strati sovrapposti, si pone la pasta ad asciugare al sole della Sardegna. Dopo diverse ore, gli strati si induriscono fino a somigliare a fogli delicati sottili come il filo di un rasoio. A questo punto si rompono i fogli circolari in strisce grezze e si confezionano le scatole, pronte per la festa di San Francesco. In questa occasione la pasta su filindeu viene preparata in brodo di pecora e pecorino grattugiato per essere servita ai pellegrini.
“Nessuno sa veramente come questa antica tradizione sia iniziata, ma è il cuore della festa, se non c’è il su filindeu, non c’è festa di San Francesco”.
Ma dopo più di 300 anni nello stesso albero genealogico matrilineare, questi “Fili di Dio” potrebbero essere alla fine. Le generazioni future potrebbero non vedere più questo tipo di pasta. Solo una delle figlie degli Abraini conosce la tecnica di base ma manca della passione e della pazienza delle sua antenate.
“Questo è uno degli alimenti più a rischio di estinzione, in gran parte perché è una delle paste più difficili da produrre”, sostiene Raffaella Ponzio, coordinatore capo dell’Arca del Gusto, un’iniziativa che mira a classificare e conservare le tradizioni culinarie più minacciate al mondo. Di 3.844 elementi elencati nel progetto, nessu di Slow Food Internazional. Nessun altro tipo pasta dipende da così pochi produttori come il su filindeu e questo la rende la pasta più rara e a maggior rischio di scomparsa al mondo.
Il su filindeu non è solo una forma d’arte culinaria, ma anche un pezzo di identità culturale.
Consapevole di questo, Paola Abraini si è rassegnata a tentare di insegnare alle ragazze di altre famiglie di Nuoro come preparare la pasta ma le cose non vanno bene, le autorità hanno rifiutato finanziamenti per una piccola scuola e questo ha costretto Paola a invitare in casa sua le aspiranti allieve, molte delle quali, però, una volta vista la tecnica, la pazienza e la fatica necessaria finiscono per rinunciare.
Eppure, Paola rifiuta di lasciare svanire la tradizione e sta tentando di trovare allieve disposte ad imparare in tutto il mondo. Il Gambero Rosso l’ha invitata a Roma due volte per poter filmare l’intero processo di preparazione del piatto.
Recentemente, poi, Paola ha cominciato a fare i su filindeu per tre ristoranti della zona affinché possano essere assaggiati anche da chi non ha effettuato il pellegrinaggio.
In uno di questi ristoranti, Al Ciusa, i su filindeu preparati con pasta tinta al nero di seppia ha vinto il premio Porcino d’Oro della Sardegna per il miglior piatto nel 2010.
Nel 2010, il nero di seppia su filindeu ha vinto il premio Porcino d’Oro della Sardegna per il miglior piatto (Credit: Eliot Stein)
In un altro,Il Refugio, è la voce più popolare sul menu.
Dove provare i Su Filindeu:
Se sarete in Sardegna tra l’1 ed il 9 maggio o a ottobre tra l’1 ed il 4, basterà seguire la lunga fila di pellegrini alla chiesa di San Francesco fuori Lula. In caso contrario, si può provare in questi tre ristoranti:
Agriturismo Testone, dove è possibile provare i su filindeu, la pasta di Paola Abraini, servita con il tradizionale brodo di pecora condita con il pecorino sardo.
Pakal K’inich Janaab’ (23 marzo 603 – 28 agosto 683 d.C.), conosciuto anche come Pacal il Grande è stato il più celebre Re maya di Palenque. Salì al trono nel 615 d.C. in giovanissima età, aprendo un’epoca di ricchezza e sviluppo in campo artistico, culturale, sociologico, scientifico. La tomba di Pacal fu scoperta nel 1952 dall’archeologo messicano Alberto Ruz Lhuillier. Oggi lo scheletro e la maschera di giada che ne ricopriva il volto si trovano al museo di antropologia di Città del Messico.
La lastra del suo sepolcro attirò immediatamente la fervida immaginazione degli scrittori impegnati nell’allora nascente genere dedicato all’archeologia misteriosa che vedeva nei reperti del passato, tombe, monumenti o costruzioni, l’intervento di antiche civiltà dalla tecnologia pari se non superiore alla nostra o l’intervento di esseri alieni che, nel passato, avrebbero visitato la Terra e istruito i popoli se non addirittura creandoli attraverso una presunta ibridazione mescolando il loro Dna con quello dei nostri antenati ominidi.
Come ti divinizzo un Re
Ci riuscirono Eric Von Daniken e Peter Kolosimo che interpretarono il disegno raffigurato nella lastra sepolcrale come un mezzo volante, forse un razzo, con al suo interno il Re Pacal intento a manovrare delle leve o dei pedali con un qualcosa attaccato al naso che poteva essere un respiratore o una sorta di maschera ad ossigeno. Nella parte bassa invece sembravano esserci proprio delle fiamme che, apparentemente, secondo l’interpretazione, sembravano uscire proprio dai razzi che spingevano la nave.
Questa teoria negli ambiti della nascente ufologia piacque e venne considerata una ulteriore prova che nel passato di tante civiltà umane ci fosse il ricordo non molto velato, del passaggio di antichi astronauti di provenienza forse extraterrestre. Il Re Pacal divenne da allora “l’astronauta di Palenque”.
Il Re è il razzo
Ma quello che si vede nella lastra è davvero ciò che sembra? Una macchina in sezione con all’interno un uomo intento a manovrarla?
No, non ce ne vogliano i cultori degli antichi misteri ma si tratta solo di una interpretazione di oggetti e figure ignote con oggetti e figure che ci appartengono e che ci sono note. Ciò che è raffigurato sulla lastra tombale del Re Pacal è il risultato da una composizione di geroglifici Maya distinguibili e ben catalogati.
Nel 1974, un congresso di studiosi diede un’interpretazione completamente diversa della raffigurazione della stele di Palenque attribuendogli un significato spirituale ed identificando i diversi simboli che componevano la figura apparentemente, almeno secondo scrittori del mistero e appassionati, al comando di un mezzo meccanico: la figura umana centrale viene identificata come il sovrano-sacerdote Hanab Pakal II, con sopra la maschera del dio della pioggia, da cui si dirama un’albero cruciforme, l’albero della vita con un serpente a due teste e l’uccello sacro Quetzal.
L’elaborato bassorilievo sulla lastra è in realtà la fusione di sei raffigurazioni, rinvenuti anche singolarmente in altri siti archeologici e di cui gli esperti di civiltà precolombiane hanno stabilito oltre ogni ragionevole dubbio l’esatto significato.
Il glifo 1 è l’accesso al regno dei morti, il glifo 2 rappresenta il Dio della morte, il glifo 3 rappresenta l’albero della vita, il glifo 4 rappresenta il serpente a due teste Itzannà, il glifo 5 rappresenta l’uccello sacro Quetzal.
Nel 2000 il mondo degli appassionati di ufologia subì una forte scossa che arrivò a minare le basi dell’ufologia moderna: la storia del primo crash alieno e gli studi sulla retroingegneria dovevano improvvisamente essere retrodatati dal 1947, anno del crash di Roswell, al 1933, anno in cui sarebbe avvenuto un ufo crash a Vergiate, nei pressi di Varese. La storia venne a galla grazie all’invio di alcuni fogli dattiloscritti all’allora presidente del CUN (Centro Ufologico Nazionale) Roberto Pinotti, Il materiale, ricevuto da ignoti, raccontava una vicenda che era per certi versi simile a quanto sarebbe occorso quattordici anni dopo dall’altra parte dell’oceano, il caso Roswell.
I documenti dattiloscritti raccontavano del ritrovamento, avvenuto nel 1933, di un “disco volante” con a bordo due piloti, schiantatosi nel milanese, in provincia di Varese, a Vergiate, non lontano dall’aeroporto di Malpensa. Della vicenda, raccontano i documenti, si occupò l’OVRA, la polizia segreta fascista, che informò direttamente Mussolini, il quale decise di creare un gruppo segreto di lavoro denominato gabinetto RS/33, guidato da Guglielmo Marconi, fisico e premio Nobel.
Il compito del gruppo RS/33 (Ricerche Speciali?) sarebbe stato quello di studiare la macchina volante recuperata. Era tassativo l’ordine di evitare qualsiasi fuga di notizie poichè il recupero e lo studio di quelli che sembravano chiaramente i resti di una macchina volante di origine aliena potevano dare al governo fascista un grande vantaggio tecnologico, sfruttabile anche sotto l’aspetto militare. I resti dell’Ufo, descritto come un velivolo cilindrico, con una strozzatura poco prima del fondo, con oblò sulla fiancata da cui uscivano luci bianche e rosse, vennero occultati in un hangar della Savoia-Marchetti a Vergiate insieme ai corpi dei piloti, conservati in formalina e descritti come alti un metro e ottanta con occhi e capelli chiari. Ci furono tentativi di ricostruire la navicella aliena e di utilizzarne le tecnologie attraverso la creazione di un’arma, detta “il raggio della morte”, che venne testato da Marconi alla presenza dello stesso Mussolini, nei pressi di Acilia.
Secondo alcune testimonianze, il raggio riuscì a bloccare a distanza i motori di alcuni automezzi e a distruggere piccoli modellini di aereo, inoltre incendiò e incenerì un gregge di pecore che stazionava nei pressi del luogo dell’esperimento. Secondo alcune fonti, i tentativi di retroingegneria culminarono con la realizzazione del prototipo di un aereo a getto, in particolare il Campini – caproni che venne testato dall’aeronautica militare tra il 1939 ed il 1940. Altre fonti parlano della cessione alla Germania, che aveva una maggiore capacità tecnologica ed industriale, nel 1941, degli studi ricavati dalla tecnologia aliena, che culminarono con la realizzazione delle armi V/7, armi che i nazisti stavano sviluppando in quegli anni. Per altri il mezzo alieno finì bruciato in un misterioso incendio dei capannoni della Siai Marchetti, innescato da un dipendente internato in seguito in manicomio, Presunti testimoni affermarono che alla fine della guerra i resti della navicella ed i corpi dei piloti furono presi in custodia dagli americani, dopo aver occupato gli stabilimenti italiani per la manutenzione degli aerei militari.
Questo, più o meno, il riassunto tutt’altro che chiaro di quanto accaduto all’epoca, almeno per quanto ci è dato conoscere attraverso i documenti e le illazioni lette in rete.
In realtà non abbiamo prove concrete della caduta di nessun veicolo a parte qualche segnalazione di oggetti volanti che già nei primi decenni del secolo XX° venivano segnalati in diverse parti del mondo. Non esiste prova dell’esistenza del gabinetto RS/33, dagli archivi documentali di epoca fascista non è finora mai emerso nulla in merito. Il gabinetto RS/33 dipendeva direttamente dal Duce? Essendo svincolato, secondo le testimonianze, da ogni altro ente istituzionale si era ventilata anche questa ipotesi ma un fatto del genere, non in è linea con l’organizzazione del regime fascista, governo autoritario, complesso e organicamente strutturato nelle sue articolazioni e nei suoi rapporti con le istituzioni dello Stato civili e militari.
Per quanto riguarda i documenti molti hanno sollevato dubbi sulla loro veridicità vista la mancanza di di riscontri oggettivi. Gli unici documenti pervenuti in proposito arrivano da fonte anonima e potrebbero essere falsi anche se non esiste, ad ora, nemmeno la prova definitiva della falsità di detti documenti. Il CISU (Centro Italiano Studi Ufologici) pubblicò anche un suo studio, con perizie e consultazioni, in merito dove concludeva che la vicenda fosse falsa oppure uno scherzo giocato da burloni al noto Centro Ufologico Nazionale, che però ci era cascato. Anche la rivista “UFO: la visita extraterrestre”, del contattista e stimmatizzato Giorgio Bongiovanni, concludeva che si trattava di un’abile falsificazione.
I files fascisti sembrano voler sostenere che l’Italia avesse avuto un ruolo cruciale nel ritrovamento di tecnologia aliena creando un caso simile a quello di Roswell, con tanto di comitato Majestic-12, cioè il gabinetto RS-33 con a capo uno scienziato di chiara fama. Ci sono i documenti portati come prova, inviati da un fantomatico personaggio rimasto nell’ombra, proprio come nell’ombra rimangono tanti personaggi che hanno dato vita al caso Roswell. Una storia fantasiosa dove i personaggi e le vicende si rincorrono giocando a nascondino e portando alla luce, guarda caso le solite notizie superficiali che sembrano ricalcare il solito clichè ufologico ben collaudato che ha dato alla luce dicerie, documenti e sopratutto libri.
La caduta di un veicolo spaziale alieno in Italia sarebbe stata un evento assai complicato da mantenere segreto anche durante l’epoca fascista. Risulta difficile credere che l’OVRA avrebbe nascosto il veicolo in un hangar privato invece di inviarlo, più opportunamente, verso un centro sperimentale attrezzato e, all’epoca, il posto giusto sarebbe stato il centro sperimentale di Guidonia. Ricordiamoci che era il 1933 e, anche se nel giro di pochi anni l’aeronautica italiana arrivò a sperimentare uno dei primissimi aerei a reazione (il Campini-Macchi) l’Italia entrò in guerra con i biplani CR-42, i trimotori SM-79 e come top della tecnologia il Macchi C-200 e non con avveniristiche macchine dalle armi fantascientifiche e, aggiungo, visto l’esito positivo del raggio della morte come mai non fu mai impiegato sul campo? Semplicemente perché non esisteva.
L’Italia nel periodo 1933-35 raggiunse il massimo sviluppo per quanto riguarda l’aviazione civile e militare per poi avviarsi in un lento ma costante declino. Nessuna ingegneria inversa quindi? Improbabile, se l’italia avesse avuto per le mani tecnologia aliena e non fosse riuscita a utilizzarla, probabilmente in quell’epoca nessuno ci sarebbe riuscito; l’Italia all’epoca era ancora all’avanguardia nel campo dell’aeronautica. La ridda di ipotesi si commenta da sola, tecnologia ceduta ai nazisti o sottratta agli americani o misteriosamente andata distrutta in un incendio: Insomma, ancora una volta qualcuno è riuscito a centrare il suo obbiettivo e ho il sospetto che qualche burlone dopo anni rida ancora.
In futuro, però, torneremo ancora su questa vicenda anche per le implicazioni, di cui spesso si parla, della cessione della tecnologia aliena ai tedeschi, che l’avrebbero utilizzata per sviluppare armi e mezzi che, se entrati per tempo nel ciclo produttivo, avrebbero potuto permettere un esito diverso della seconda guerra mondiale.
Nel 1988 Jacques Benveniste per spiegare il funzionamento dell’omeopatia ipotizzò che l’acqua conservasse un ricordo delle sostanze che venivano in contatto con essa. L’omeopatia è una pratica per la quale certe sostanze, se estremamente diluite e successivamente agitate con un procedimento chiamato “succussione“, sono efficaci nel trattamento di un ampio spettro di patologie grazie, appunto, alla memoria dell’acqua.
I rimedi omeopatici sono generalmente composti da acqua e zucchero, vengono preparati miscelando più volte il principio attivo in acqua a diluizioni successive talmente spinte da perdere ogni presenza di molecole del principio attivo, infatti, dal punto di vista chimico, alla fine del processo non rimane nessuna molecola della sostanza precedentemente in contatto con l’acqua.
Da un certo punto in poi non si fa altro che diluire acqua con acqua.
Benveniste pubblicò degli studi che si dimostrarono falsi e inattendibili, anche la rivista scientifica Nature illustrò la scoperta del falso pubblicando una relazione sulle proprie pagine, smentendo cosi i risultati del medico francese.
La teoria di Benveniste serviva a spiegare il paradosso per il quale il prodotto, anche se diluito fino alla scomparsa completa del principio attivo, avrebbe comunque funzionato, questo grazie alla memoria dell’acqua le cui molecole, influenzate da quelle del principio attivo con il quale era stata miscelata, si sarebbero riorientate “ricordando” il principio attivo e avendone l’effetto.
L’idea della diluizione nascerebbe dalla necessità, secondo i ricercatori omeopatici, di eliminare i pericoli di effetti indesiderati e collaterali dei principi attivi farmacologici utilizzati nella farmacologia normale. In realtà, sono ormai innumerevoli gli studi che confermano che i principi attivi, per poter svolgere efficacemente la loro azione curativa hanno bisogno di raggiungere, nell’organismo, un certo livello di concentrazione minima, senza la quale non solo non sono efficaci ma rischiano addirittura di provocare conseguenze indesiderate. Ad esempio, l’uso sconsiderato di antibiotici in autoprescrizione con dosaggi insufficienti ha favorito, nel tempo, la selezione di ceppi batterici resistenti.
Nonostante il largo impiego dell’omeopatia, nessuno studio condotto in doppio cieco ha dimostrato la veridicità delle affermazioni di Benveniste e altri ricercatori. La pratica dell’omeopatia è considerata semplicemente una pratica pseudoscientifica in genere pericolosa o, nel migliore dei casi, paragonabile all’uso di placebo e allo stesso modo è considerata pseudoscienza la teoria che vorrebbe l’acqua capace di ricordare, idea non supportata ad oggi da nessuna evidenza scientifica.
Nel 2011 una sezione della rivista scientific Journal of Phisics ha pubblicato uno studio di Luc Mountaigner dal titolo DNA waves and water. Lo studio illustra come soluzioni acquose altamente diluite di sequenze di DNA del virus HIV, di altri virus e di batteri produrrebbero segnali elettromagnetici di bassa frequenza caratteristici del DNA in soluzione. Le soluzioni acquose altamente diluite, secondo gli studiosi, avrebbero mantenuto la memoria del DNA dei virus entrati in contatto con l’acqua e successivamente diluiti fino a sparire. Secondo i sostenitori dell’omeopatia, lo studio, avrebbe potuto aprire nuovi orizzonti sulle cure alternative però il lavoro di Mountaigner è stato criticato a livello internazionale, come privo di validità scientifica, carente relativamente al protocollo sperimentale, alle apparecchiature usate, e perfino per l’incoerenza delle sue stesse basi teoriche.
Associato alla regalità scozzese fin dal medioevo, assediato almeno otto volte durante la sua storia, il castello di Stirling passò varie volte di mano tra inglesi e scozzesi. Riconquistato dagli scozzesi nel 1328, durante la prima guerra di indipendenza scozzese, vide le sue difese smantellate per ordine di re Robert the Bruce, con lo scopo di levare agli inglesi ogni utilità nel rioccuparlo.
Il castello di Stirling è particolarmente noto per il ruolo che ha giocato nella storia scozzese ma, in effetti, la sua costruzione risale a ben prima che la Scozia diventasse un concetto politico. Le prime fortificazioni dell’area, infatti, risalirebbero ad oltre 3000 anni fa. Ampliando queste prime fortificazioni la tribù celtica dei Votadini avrebbe costruito una rocca circa 2000 anni fa e, secondo la tradizione locale, i Romani fortificarono ulteriormente la rocca nel 1 ° secolo.
Si dice che Kenneth MacAlpin, noto come il ‘primo re di Scozia’, abbia assediato il castello nel 9 ° secolo ma, secondo gli storici, le storie su MacAlpin sarebbero più mito che realtà. Si tramandano, inoltre, racconti secondi i quali il castello di Stirling sarebbe stato anche la sede della corte di Re Artù.
Nonostante la demolizione delle sue difese ordinate da Robert The Bruce, il ruolo di Castello di Stirling in alcuni dei più importanti eventi storici della Scozia fu ancora determinante. Negli anni successivi, diventò una sontuosa residenza per i monarchi Stewart con Maria, Regina di Scozia e il re Giacomo; ed oggi è una delle più note attrazioni della Scozia: circa un mezzo milione di visitatori è venuto nel 2015.
Testimonianze risalenti al 1110 mostrano che in Scozia il re Alessandro I dispose un pagamento per la manutenzione di una cappella all’interno del castello, segnale che prova un collegamento già forte tra la monarchia scozzese e questo castello. Durante quel periodo, edifici e cortili furono costruiti all’interno dei vecchi bastioni e terrapieni, rendendo il castello una residenza degna di un re, visto che lo stesso re Alessandro vi morì nel 1124. Entro la metà del 12 ° secolo, il castello diventò un centro amministrativo chiave.
Tutti, dai Celti ai Romani ai re scozzesi sono stati attratti dal castello di Stirling, in gran parte a causa della sua posizione.
Il picco scosceso su cui il castello sorge risale ad una eruzione vulcanica di 350 milioni di anni fa. Nel corso dei millenni successivi, la lava è stata sepolta sotto arenaria e ghiaccio. Come gran parte del resto del paesaggio drammatico della Scozia, la roccia deve la sua forma attuale alla fine dell’ultima era glaciale circa 10.000 anni fa: il ghiaccio ritirandosi, scolpì le rocce del territorio scozzese così come ci appaiono ora.
La posizione di questa rocca si rivelò nel tempo particolarmente strategica. Posta a cavallo tra l’intersezione tra le Highlands a nord e ad ovest e Forth Valley Down, con Edimburgo a sud-est, chiunque fece costruire questo castello doveva vederlo come una roccaforte perfetta per il controllo del crocevia tra le due regioni soprattutto potendo controllare il passaggio sull’adiacente e molto frequentato ponte sul fiume Forth, un punto di passaggio chiave tra le Highlands e sud della Scozia. Proprio questa fu la ragione per cui il castello giocò un ruolo chiave in molti del conflitti successivi.
I più noti di questi conflitti furono le guerre di indipendenza scozzesi. Alla fine del 13° secolo, re Giovanni di Scozia si rivelò più rigido del previsto di fronte alle intimazioni del re inglese Edoardo I, arrivando a negoziare un trattato con la Francia contro l’Inghilterra, spingendo Edward ad invadere il territorio e a conquistare il castello di Stirling. Guidati dai leggendari combattenti William Wallace e Andrew Moray, gli scozzesi riconquistarono il castello nella famosa battaglia di Stirling Bridge. Osservando dal castello il sito di quella battaglia si può riconoscere il National Wallace Monument, la torre in pietra costruita in omaggio all’eroe di guerra scozzese.
Ma dopo una pesante sconfitta nella battaglia di Falkirk, gli scozzesi furono costretti a restituire ancora una volta il castello agli inglesi. Le forze scozzesi guidate da Robert the Bruce – futuro re di Scozia – assediarono il castello, riuscendo, infine, a riconquistarlo.
Nel 1304, il castello di Stirling era l’ultimo castello di Scozia ancora detenuto dagli scozzesi, fino a quando Edward, in quell’anno, sconfisse l’esercito scozzese e ne riprese possesso.
Alla morte di Edward, però, avvenuta nel nel 1307, il fratello di Robert the Bruce pose nuovamente assedio al castello di Stirling, con l’intento di riprenderlo per sempre.
Fu in questa occasione che, nel 1314, re Robert the Bruce intercettò i rinforzi inglesi destinati alla protezione del castello a Bannockburn. Stretto tra l’area paludosa Burn Bannock e il fiume Forth, l’esercito inglese fu travolto e distrutto. Questa battaglia è commemorato in quello che è spesso chiamato l’inno nazionale non ufficiale scozzese, Fiore di Scozia.
a pensare di nuovo.
Una statua di Robert the Bruce, insieme alla data della battaglia di Bannockburn – 24 giugno 1314 – è oggi posta nel parco del castello.
Fu a questo punto che re Robert the Bruce fece smantellare le difese del castello per eliminarne l’importanza strategica ed evitare nuove conquista da parte inglese. La guerra di indipendenza scozzese si concluse definitivamente a metà del 14 ° secolo e il primo re Stewart, Robert II, ordinò il ripristino del castello.
I monarchi scozzesi successivi continuarono a rimodellare il sito per le proprie esigenze. Costruttore appassionato fu re Giacomo III (1460-1488), che potrebbe aver posto le basi per la Sala Grande così come la possiamo vedereoggi.
Furono, però, i successori di re a dare al castello il suo aspetto attuale. Cercando di competere con contemporanei come il re d’Inghilterra Enrico VII, Re Giacomo IV fece del vecchio edificio la sua residenza. Recentemente, nel 1999, il castello è stato restaurato completamente anche se il colore il colore mandarino pallido assegnato alla Sala Grande, soprannominato ‘l’oro del re’, ha sollevato qualche controversia ma, secondo gli storici, ripristina in realtà la colorazione che la sala avrebbe avuto nel 1500 sotto James IV.
Re Giacomo V, che salì al trono a solo un anno nel 1513,costruì qui il suo sontuoso palazzo, come residenza per lui e sua moglie, la nobildonna francese Maria di Guisa – la madre di Maria, Regina di Scozia.
Oggi Stirling castle è uno dei più grandi e imponenti castelli della Scozia, è monumento nazionale ed è diretto dall’Agenzia storica nazionale. È anche il quartier generale del reggimento dell’Argyll and Southerland Higlanders, sebbene tale reggimento non sia più stanziato qui da molto tempo.
Philip J. Corso nacque il 22 maggio 1915 a Jupiter in Florida, morì il 16 luglio 1998 ed è stato un ufficiale statunitense.
Prestò servizio nell’esercito degli Stati Uniti dal 23 febbraio 1942 al 1º marzo 1963, e raggiunse il grado di Tenente colonnello.
Ha scritto un libro in cui rivela di essere stato coinvolto nella gestione dei materiali raccolti dopo l’UFO crash di Roswell.
L’otto Giugno 1998 Philip Corso denunciava il cover-up del governo americano su quanto successo a Roswell in una dichiarazione scritta e giurata davanti all’avvocato Peter Gersten, in cui confermava che le informazioni e le affermazioni contenute nel suo libro “The Day After Roswell” erano la pura verità e chiamava in giudizio il Department of the Army. Meno di un mese dopo, il 16 Luglio, il Colonnello Corso moriva stroncato da un attacco cardiaco. Aveva 83 anni.
Al Pentagono nel 1961, per ordine del suo diretto superiore, il Generale Arthur Trudeau, Corso fu chiamato a valutare quali delle industrie appaltatrici della Difesa USA fosse opportuno coinvolgere per gestire al meglio il “Roswell File”. L’obiettivo della Divisione Tecnologia Straniera che Corso diresse per un anno era ricercare e sviluppare mediante retroingegneria qualsiasi apparato appartenesse a nazioni straniere, alleate o meno degli USA.
Philip Corso dichiarava che dopo Roswell, le conoscenze scientifiche americane vennero utilizzate nel tentativo di costruire un disco volante partendo da un prodotto preesistente, l’aeroplano, cercando di realizzare un’astronave terrestre ma purtroppo il tentativo non andò oltre il miglioramento del prodotto terrestre, facendo spendere molti miliardi di dollari inutilmente. Secondo Corso i Tedeschi c’erano arrivati prima con i Foo Fighters chiaro esempio dell’utilizzazione di tecnologie extraterrestri. I foofhigters erano veicoli elettromagnetici, costruiti dai Tedeschi, i quali stavano progredendo nello studio della teoria elettromagnetica grazie ricerche e collaborazioni con scienziati italiani
Secondo Philip Corso il progresso derivato dalla tecnologia aliena fu scarso ,non superando il dieci per cento delle capacità della macchina aliena..
Non c’era un solo esperto in materia, che potesse progettare qualcosa di simile ai mezzi alieni. Le EBE, le Entità Biologiche Extraterrestri costituivano, secondo il colonnello Corso, parte integrante dei loro oggetti volanti: le EBE, il sistema propulsivo della macchina e lo spazio formano una sola cosa e non possono funzionare separatamente. Il canadese Wilbert Smith è stato l’unico a comprendere il funzionamento della macchina volante recuperata. Grazie al genio di Smith, racconta Corso, fu possibile sviluppare i transistor, i circuiti integrati e degli acceleratori di particelle. Secondo le dichiarazioni di Corso: a bordo delle navicelle non c’è cibo, acqua o altro. gli umanoidi di tipo EBE vivono attraverso pulsazioni elettromagnetiche. Philip Corso conferma l’esistenza di un tipo di alieno che raccontò di aver visto a Fort Riley. Confermò di aver letto solo un documento autoptico, alla Casa Bianca.
Cosa diede lo schianto dell’UFO di Roswell agli americani? Secondo Corso diede la possibilità di creare nuovi materiali come il kevlar, le fibre ottiche, il laser, i transistor e i circuiti integrati. Tutte queste innovazioni secondo i suoi racconti ricordiamolo, fatti sotto giuramento poco prima di morire, provenivano dal relitto extraterrestre recuperato e studiato smembrandone le parti da far analizzare a industrie locali senza raccontare la loro provenienza. Ma questo è possibile? Quanto di vero c’è nei racconti del Colonnello Corso?
Il transistor
Il transistor nasce in USA alla fine del 1947 frutto di una lunga ricerca condotta presso i Bell Laboratories da Shockley, Bardeen e Brattain, che per questo risultato guadagneranno il premio Nobel nel 1956. Negli anni precedenti la II Guerra Mondiale, alcuni ricercatori, studiando il silicio scoprirono l’esistenza di due diversi tipi di semiconduttore, “N” e “P”, a seconda di certe impurità contenute nel reticolo cristallino. Il ricercatore William Shockley dichiarò nel 1939: “Sono certo che un amplificatore che faccia uso di semiconduttori al posto dei tubi a vuoto sia in linea di principio possibile”. La guerra interruppe le ricerche, e solo nel 1945 che venne ristabilito presso i Bell Labs un gruppo di lavoro sui semiconduttori, capeggiato da Shockley. Nei due frenetici anni successivi il gruppo concentrò le sue ricerche sul germanio, invece del silicio utilizzato prima della guerra, e finalmente il 23 dicembre 1947 i tre ricercatori poterono presentare al mondo intero un dispositivo amplificatore completamente nuovo, sotto forma di un intreccio di fili montati su un supporto di plexiglas. Il nome transistor (combinazione di TRANSconductance varISTOR) fu suggerito da un altro ingegnere dei Bell.
La fibra ottica
La prima fibra ottica è stata brevettata nel 1956 per uso medico, nel processo di sviluppo di un gastroscopio. La perdita di segnale subita dalla luce all’interno della fibra ersa però molto alta, fatto che ne limitava l’utilizzo alle sole brevi distanze. La rivoluzione nel mondo delle telecomunicazioni avvenne negli anni Sessanta quando Charles Kao, ricercatore della Standard Telecommunication Laboratory (colosso inglese nella produzione di cavi telefonici), intuì che l’attenuazione delle fibre contemporanee era causata dalle impurità presenti nel vetro. La fibra ottica è un sottilissimo filo di vetro, della dimensione di un capello, nel quale viaggia la luce. Con l’invenzione della fibra ottica si è riusciti per la prima volta nella storia dell’uomo a veicolare e guidare la luce, permettendo a quest’ultima di viaggiare seguendo linee curve. Le fibre ottiche stanno sostituendo i tradizionali cavi telefonici in rame e costituiscono oggi l’infrastruttura attraverso la quale viaggiano più dell’80% delle informazioni Internet, immagini televisive e conversazioni telefoniche di tutto il mondo. Il tutto ad una velocità di poco inferiore a quella della luce (200.000 km/s).
Il kevlar
La scoperta del kevlar avviene per caso, nel 1964. Era prevista una diminuzione nella produzione globale di petrolio, il gruppo di ricerca di Stephanie Kwolek stava lavorando alla realizzazione di una fibra leggera ed elastica da utilizzare negli pneumatici delle automobili in quanto veicoli più leggeri consumano meno benzina. Durante un esperimento, due monomeri – molecole semplici in grado di combinarsi tra loro – producono una fibra dalle caratteristiche particolari. Kwolek si rende subito conto delle qualità straordinarie del nuovo materiale e convince Charles Smullen, il tecnico di laboratorio, a eseguire alcuni test. Scopre che il polimero – ovvero la macromolecola prodotta nell’esperimento è incredibilmente resistente. Negli anni successivi vengono condotte ulteriori analisi, finché, nel 1971, la DuPont la immette sul mercato col nome di kevlar. A parità di peso, il kevlar è cinque volte più resistente dell’acciaio, ha una notevole capacità di assorbimento delle vibrazioni e resiste agli impatti, al calore e alla trazione. Oltre che per la fabbricazione di giubbotti antiproiettile, il kevlar è utilizzato: per la realizzazione di elmetti militari e il rivestimento del vano motore degli aeroplani, nelle carene delle canoe e per rinforzare i veicoli blindati, nelle punte delle stecche da biliardo, per l’imbottitura dei vestiti dei motociclisti, nelle tute spaziali, nei telai e nelle carrozzerie di auto e moto da corsa, per il rivestimento di smartphone e cavi USB.
Il laser
Nel dicembre del 1953 viene realizzato il primo MASER (Molecular Amplification by Stimulated Emission of Radiation), un amplificatore di microonde. Al 1958, invece, risale l’invenzione del LASER (Light Amplification by Stimulated Emission of Radiation). Il 16 maggio del 1960 Maiman, fisico presso gli Hudghes Research Laboratories della Hughes Aircraft, diede vita al primo laser funzionante, si trattava di un dispositivo capace di emettere un fascio di luce coerente e monocromatica. Come spesso accaduto per scoperte di questa importanza, anche nel caso del laser, Maiman è riuscito a concretizzare un’idea che da tempo circolava negli ambienti scientifici, utilizzando scoperte precedenti e modificandole secondo necessità. L’invenzione del laser ha generato moltissime dicerie. Lo studente della Columbia Gordon Gould, l’inventore del termine laser, aveva depositato un brevetto nel 1959, ricercatori dei Bell Labs nel 1960, Maiman ci è arrivato nel 1961. A tutto questo hanno fatto seguito anni di contenziosi legali che hanno consentito a Gould di aggiudicarsi almeno alcuni brevetti dopo il 1977.
Conclusioni
Un affidavit giurato e firmato poco prima del decesso, dichiarazioni eclatanti e un libro che racconta la storia di un UFO crash come tanti, di navette aliene secondo gole profonde, ex militari, scienziati o presunti tali se ne contano a decine. Le dichiarazioni di Corso sono facilmente smentibili, tutte le ricadute da lui citate sono di fattura terrestre ed è tutto documentato. Quanto sarebbe possibile capire da un’eventuale tecnologia aliena? Non lo sappiamo, ma certamente pare strano che Corso citi tecnologie che in quegli anni venivano sviluppate nei laboratori, come mai non hanno replicato, ad esempio, un propulsore extraterrestre? Possibile che un’avanzata nave spaziale che presumibilmente viaggiava per decine di anni luce avesse bisogno dei transistor quando noi stessi, oggi, siamo già oltre tale tecnologia? O, ancora peggio, che dopo un viaggo attraverso gli anni luce subisca un guasto tale da precipitare al suolo?
Misteri ufologici, misteri che tali devono restare per ingolosire i molti appassionati che vogliono crederci e basta.
Nel 1938, il professore di archeologia dell’Università di Pechino, Chi Pu Tei fece una scoperta eccezionale. Durante l’esplorazione di alcune grotte nell’impervia catena montuosa di Baian Kara Ula, lungo il confine Cinese/Tibetano, scopri un sistema di gallerie artificiali e interconnesse le cui pareti erano state levigate da sembrare cristallizzate dall’azione di un calore estremo. Sulle pareti erano incisi dei segni che sembravano rappresentare il sistema solare. All’interno delle grotte furono rinvenute delle piccole tombe che contenevano i resti di creature alte circa un metro e trenta centimetri con un cranio enorme in rapporto alle dimensioni del corpo. Nei pressi delle tombe furono trovati ammassati 716 dischi di granito con diametro dai 35 ai 50 cm e con un foro al centro, spessi un centimetro. Questi dischi presentavano su un lato degli strani simboli, mentre sull’altro mostravano un’incisione a spirale che partiva dal centro e terminava sul bordo esterno.
I reperti furono portati in segreto a Pechino e per vent’anni gli scienziati cercarono di tradurre le misteriose iscrizioni dei dischi di pietra.
Fu solo nel 1962 che quando il team guidato dal professor Tsum Um Nui concluse che i manufatti risalivano a 10.000 anni prima e raccontavano la storia di creature aliene chiamate Drog-pa, provenienti da un sistema planetario lontano 12 mila anni luce. Gli indigeni della zona del ritrovamento narrano che in tempi antichi due tribù abitavano in quella zona e che strani esseri giunti dal cielo convissero tra di loro. Le autorità però decisero che il grande pubblico non doveva essere informato delle stupefacenti scoperte e tutto venne messo a tacere. La storia venne divulgata dopo due anni di assoluto silenzio. Le traduzioni dei contenuti dei dischi non furono però prese seriamente da altri luminari e solo dopo altri 25 anni gli archeologi trovarono altre conferme in alcune leggende che circolavano tra gli indigeni del luogo del ritrovamento, leggende che parlavano di piccoli esseri dalle grandi teste e dal colorito giallastro
Le ultime analisi dei Dischi, eseguite negli anni 60 da alcuni scienziati sovietici, rivelarono che i dischi facevano parte di una specie di circuito elettrico e se messi in rotazione per mezzo di uno speciale fonografo producevano delle vibrazioni e dei ronzi come se fossero stati sottoposti a un intenso campo elettrico, i dischi rivelarono un’alta concentrazioni di cobalto e altri minerali, il che ne rendeva difficile la lavorazione da parte di esseri umani di 10.000 anni fa.
Nel 1974 un ingegnere austriaco, Ernest Wegwrer fotografò uno dei dischi nel museo Bampo di Kiang a Pechino e, in seguito, un disco simile venne alla luce presumibilmente in Nepal.
il prof. Karil Robin Evansche si accorse che il disco, se posato su una bilancia, apparentemente perdeva e acquistava peso. Lo stesso Evans entrato in contatto con il capo della tribù dei Dzopa scopri che gli esseri che costruirono i dischi provenivano dal pianeta Sirio e che due missioni esplorative partirono per il pianeta Terra, una 20.000 anni fa e una 1014 anni prima di Cristo ma a causa di un incidente non riuscirono più a tornare al loro mondo, secondo la leggenda raccontata dal capo tribù, i Dzopa erano i discendenti degli alieni.
Questa è in sintesi la storia, ricercatori, scienziati, archeologi, antiche tribù, UFO crash preistorici, misteriosi manufatti, linguaggi alieni prontamente tradotti, e esseri alieni che giunti sulla Terra si confondono con popolazioni terrestri generando discendenze miste, come fosse cosi semplice tradurre un messaggio da esseri evoluti in maniera totalmente indipendente dalla nostra.
Come si può vedere, non manca nulla, nemmeno gli esseri dalla grossa testa che si schiantano sul nostro pianeta… Ma cosa c’è di vero?
I famosi dischi sono stati creati nel libro “Sungods in Exile” (1978) da Karyl Robin-Evans, che narra di una sua spedizione in Tibet del 1947 e di come venne a conoscenza dei Dropa e dei loro segreti. Nel 1995, però, venne a galla un’altra storia, lo scrittore David Gamon confessò al Fortean Times, di aver scritto Sungods in Exile per scherzo e per mettere alla berlina le teorie di Erich von Däniken, falsificando anche le prove.
Nonostante le ammissioni, Hartwig Hausdorf nel 1998 scrisse il libro “The Chinese Roswell” dove raccontava che il professor Tsum Um Nui della Beijing Academy, era riuscito a tradurre i dischi, purtroppo, però, mai nessuno ha sentito parlare di questo professore che, infatti, non esiste né in Cina né altrove. Tsum Um Nui non è altro che un cognome giapponese scritto, però, ortograficamente in maniera scorretta. I dischi di pietra sono conservati, a detta degli scrittori in vari musei in tutta la Cina, tuttavia, nessuno di questi musei, una volta contattato, sembra conoscerli.
L’area 51 è una della basi militari più segrete e del pianeta e, proprio a causa delle ipotesi e dei misteri che ne circondano l’esistenza, al pari di altre località simili, è fonte di dicerie, teorie e leggende metropolitane, in particolare, il filone dell’ufologia complottista vedrebbe in questa base la centrale operativa di una presunta agenzia governativa, il Majestic 12, che istituita nel 1947 dal presidente Truman, avrebbe ormai trasceso il suo scopo istituzionale e servirebbe un supposto governo ombra degli Stati Uniti, governo ombra impegnato in indicibili accordi con svariate razze aliene.
Questa base militare super segreta ha finito per colpire tanto la fantasia popolare da essere diventata protagonista di film hollywoodiani come, ad esempio, Indipendence day o di molte puntate di serie televisive come, ad esempio, Stargate, finendo per fornire ulteriore materiale ad appassionati e complottisti che, speculando sulle vicende di questi films e telefilms, sono riusciti ad accrescere l’aura di mistero ed incertezza intorno alla base stessa.
Secondo tanti ufologi e appassionati di misteri, in questo luogo sarebbero nascosti i resti degli UFO recuperati nei vari incidenti che, secondo la narrazione complottista, sarebbero avvenuti in varie parti degli USA, a cominciare dall’UFO crash di Roswell, dove sono a disposizione degli scienziati impegnati in progetti di retroingegneria atti a comprenderne il funzionamento per riprodurne i sistemi di produzione di energia e propulsione.
Ufficialmente, l’Area 51 è una sezione del poligono nucleare ed areonautico di Nellis, una vasta zona militare che si estende nel deserto del Nevada a circa 150 km da Las Vegas; è situata nel letto del Groom Lake, un lago asciutto da tempo, ed è conosciuta anche con altri nomi, Dreamland, Watertown, The Rach e Skunkworks.
Questo complesso viene utilizzato fin dal 1954, e l’aeronautica militare vi ha condiviso con la CIA diverse strutture sotterranee fino al 1972.
In realtà l’Area 51 è stata spesso utilizzata per sviluppare e realizzare progetti segreti, testandone poi i prototipi. In questo luogo, per esempio, hanno preso il volo, per la prima volta, i ricognitori strategici U-2 e SR-71 Blackbird, forse anche i primi prototipi dei cacciabombardieri STEALTH F-117A e, secondo alcune voci di corridoio, si starebbe ora lavorando al nuovo ricognitore chiamato “Aurora” che raggiungerebbe velocità dell’ordine di svariati Mach. Questi progetti vengono citati negli ambienti ufologici come il prodotto di ricadute tecnologiche dovute all’ingegneria inversa applicata a presunte macchine volanti extraterrestri nascoste e studiate in alcuni hangar del complesso.
l’Area 51 è raggiungibile percorrendo strade sterrate apparentemente abbandonate. Nel 1984, allo scopo di scoraggiare l’osservazione della base da parte di curiosi, i militari sequestrarono circa 89.600 acri di terreno pubblico attorno la base militare ma, nonostante l’espresso divieto di avvicinarsi, restano numerosi gli appassionati e i curiosi che si avventurano nella zona fino ad arrivare a pochi metri dalle barriere metalliche, costringendo i militari a presidiare l’area pattugliandola con gruppi armati a bordo di fuoristrada bianchi, cosa che ha colpito la fantasia dei complottisti che ne hanno attribuito l’appartenenza a qualche corpo speciale non ufficiale.
Tutta questa segretezza sarebbe la prova che l’Area 51 protegge segreti indicibili. Come al solito la realtà è ben diversa: provate ad avvicinarvi ad una qualsiasi zona militare ad accesso limitato senza averne l’autorità e poi raccontate cosa succede. Se è vero che in Area 51 vengono sviluppati e testati velivoli ultrasegretri, il minimo che può capitare è che le autorità ne scoraggino l’avvicinamento con ogni mezzo.
Se l’area 51 è un posto così segreto, come mai lo si può osservare in foto satellitari che ne mostrano l’estensione?Quando e perchè si iniziò ad attribuirgli questo mistero?
Negli anni ’80, Dave L. Dobbs, giornalista ed ufologo di Cincinnati (Ohio), ricevette una lettera da un radiotecnico, tale Mike Hunt. Egli fu tra i primi che associarono le attività dell’Area 51 e gli UFO.
Hunt sosteneva di aver lavorato nel complesso nei primi anni ’60 per conto della Commissione Atomica Statunitense e di aver saputo che un UFO vi sarebbe stato trasportato dalla base aerea di Edwards, in California. Secondo le sue fonti il progetto era denominato “Project Red Light” e doveva occuparsi dello studio della propulsione di almeno tre UFO catturati, cercando di capirne il funzionamento partendo da un prodotto finito e cercando di capire in quale modo gli UFO venivano costruiti. Inoltre dovevano studiare l’anatomia e la fisiologia degli alieni, almeno due, in possesso del governo USA. Altri fecero dichiarazioni più o meno simili ma sempre poco o per nulla credibili.
Un altro personaggio che divenne noto negli anni seguenti era Bob Lazar, un presunto fisico nucleare che raccontò di aver lavorato in una sezione dell’area 51 che si occupava di capire il funzionamento dei propulsori dei dischi volanti.
Lazar nel 1989 raccontò la sua storia in una nota trasmissione televisiva americana, dicendo una serie di cose incredibili sulle reali attività dell’Area 51, dove avrebbe lavorato dal 1988.
Dichiarò di aver studiato il modo in cui gli alieni viaggiavano nello spazio: utilizzando reattori alimentati con un elemento detto “elemento 115” dotato di caratteristiche particolari, grazie alle quali riusciva a piegare lo spazio tempo generando una sorta di curvatura che spingeva la nave a velocità superiori a quelle della luce. Teorie e racconti, però, non provati in alcun modo e che non spiegano perché le forze armate americane continuino a usare mezzi e motori convenzionali.
A forza di rivelazioni da parte dei soliti bene informati, all’inizio degli anni novanta il mondo venne a sapere, grazie alla televisione, che gli alieni erano giunti sulla Terra decenni prima ma che il loro viaggio interstellare era finito in uno schianto che fece la fortuna di chi entrò in possesso dei filmati dove rottami e corpi mutilati facevano bella mostra di sé.
Guarda caso, la possibilità di vendere a peso d’oro alla TV e ai giornali filmati e fotografie che mostravano presunte autopsie di presunti alieni fece nascere una nuova professione: quella del ricercatore indipendente impegnato a battersi per ristabilire la verità di fronte alle menzogne dei governi, figura che, con l’avvento di internet, ha cominciato a proliferare nei campi più disparati del complottismo, guadagnando con poca fatica soldi grazie alla vendita di fantasiosi ebooks, click sui banner delle pagine web, visualizzazioni di filmati su you tube e, non ultima risorsa, raccolte di fondi per finanziare questa o quella pseudoricerca ai danni di creduloni ed ignoranti.
L’Area 51 è sempre là, potete visualizzarla su google maps e su google Earth, se vi capitasse di vedervi decollare o atterrare un UFO, fateci un fischio.