Sono molte le versioni della pasta all’amatriciana che si possono trovare sui vari libri di cucina o sui tanti siti internet dedicati all’arte culinaria. È molto diffusa l’idea che la pasta adatta al sugo all’amatriciana siano i bucatini ma anche i rigatoni hanno i loro estimatori. Premesso che il sugo alla amatriciana è buonissimo di suo e che può stare bene con qualsiasi tipo di pasta, la ricetta originale, quella tutelata dal comune di Amatrice con un marchio di origine, prevede l’uso di un tipo di uno spaghetto erto, capace di rimanere al dente dopo la cottura. Nello stesso modo, molti pensano che si possa utilizzare la pancetta affumicata mentre la ricetta prevede esclusivamente guanciale.
La ricetta originale nasce bianca, senza sugo, ed è oggi nota come la “gricia” ed era utilizzata come condimento spartano dai pastori sulle montagne, durante la transumanza. In questo articolo vi proporremo sia la versione bianca che quella rossa di questa ottima ricetta, famosa in tutto il mondo.
Amatriciana bianca (gricia)
Ingredienti (per 4 persone):
500 gr di spaghetti
125 gr di guanciale di Amatrice
un pezzo di strutto o, in alternativa, un cucchiaio di olio di oliva extravergine
un goccio di vino bianco secco
100 gr di pecorino di Amatrice grattugiato
sale qb
Preparazione:
Gricia o amatriciana bianca
Mettiamo in una padella lo strutto o, se si preferisce, l’olio d’oliva. Prendiamo il guanciale e tagliamolo in lunghe listarelle mettendolo poi a rosolare nella padella dove avremo preventivamente sciolto lo strutto o versato l’olio d’oliva. Aggiungiamo al tutto, il vino bianco e pepe nero a volontà e lasciamo rosolare a fuoco basso per il tempo necessario al guanciale per dorarsi.
È importante che il guanciale resti dorato e non si cuocia troppo.
A questo punto, mettiamo in padella gli spaghetti, che avremo cotto al dente, e, mentre mescoliamo per il composto, aggiungiamo generosamente il pecorino e altro pepe nero a piacere. e aggiungiamo abbondante pecorino amatriciano più delicato e meno salato del romano e pepe nero, macinato di fresco, a piacere.
Continuiamo ad amalgamare e, infine, serviamo in piatti fondi con un’ultima spolverata di pecorino.
Amatriciana Rossa:
Ingredienti (per 4 persone):
500 gr di spaghetti
125 gr di guanciale di Amatrice
un pezzo di strutto o, in alternativa, un cucchiaio di olio di oliva extravergine
un goccio di vino bianco secco
6 o 7 pomodori San Marzano o 400 gr di pomodori pelati
un pezzetto di peperoncino
100 gr di pecorino di Amatrice grattugiato
sale qb
Preparazione:
Amatriciana
Mettiamo in una padella lo strutto o, se si preferisce, l’olio d’oliva. Prendiamo il guanciale e tagliamolo in lunghe listarelle mettendolo poi a rosolare nella padella dove avremo preventivamente sciolto lo strutto o versato l’olio d’oliva. A questo punto, sfumiamo nel vino bianco e pepe nero a volontà e lasciamo rosolare a fuoco basso per il tempo necessario al guanciale per dorarsi. Quando il guanciale è dorato aggiungiamo i pomodori, se necessario, aggiungiamo un goccio d’acqua e aspettiamo circa 10′ che il sugo si addensi. A questo punto, aggiungiamo gli spaghetti, quelli commerciali che più si avvicinano allo spaghetto ideale per l’amatriciana sono i n. 12 della De Cecco, cotti rigorosamente al dente e mescoliamo. Quando il sugo si è ben diffuso sulla pasta aggiungiamo il pecorino grattugiato in abbondanza e continuiamo ad amalgamare.
Quando tutto è pronto, servire l’amatriciana in piatti fondi, con un’altra spolverata di pecorino, senza mischiare ulteriormente.
È la notte del 3 luglio 1947, a 120 km da Roswell, quando nel New Mexico, avviene uno schianto. Un oggetto volante non identificato precipita per cause ignote in un luogo sperduto. La mattina dopo un allevatore, William Mac Brazel, trova nella sua proprietà dei rottami e decide di avvisare lo sceriffo George Wilcox, di stanza a Corona, poco distante da Roswell.
L’allevatore accompagna lo sceriffo e un militare sul luogo dello schianto: in seguito al sopralluogo, i due ufficiali presentano subito rapporto su quanto successo e sul materiale ritrovato. Le cronache ufologiche parlano chiaro: i materiali erano praticamente indistruttibili, se piegati o accartocciati tornavano alla loro forma originaria. I media incombono, la notizia è ghiotta e la gente deve sapere, e i giornali vendere.
L’8 luglio sul Roswell Daily Record esce in prima pagina un pezzo titolato “La Raaf cattura un disco volante in un ranch nella regione di Roswell“. Un titolo ad effetto, la cattura di un Disco volante, allora si chiamavano cosi e le segnalazioni di presunti ufo crescevano di giorno in giorno, gli abitanti degli altri mondi scendevano sulla Terra con le loro favolose navi spaziali, ma spesso, non facevano i conti con la nostra atmosfera e il duro suolo terrestre.
Nel testo dell’articolo compare un comunicato ufficiale della Roswell Army Airfield che spiega come, su segnalazione del proprietario del ranch, William Mac Brazel, fossero stati recuperati i resti di un “disco volante” e come questi attendessero di essere studiati. Il comunicato era stato ordinato dal colonnello William H. Blanchard, ma era stato scritto e diffuso da un giovane addetto alle relazioni esterne, il tenente Walter Haut.
Mentre i cittadini di Roswell leggevano il roboante articolo con il racconto dello schianto, i misteriosi rottami della nave spaziale venivano recapitati alla Carswell Air Force Base, in Texas.
Il giorno successivo il generale di brigata Roger Ramey convocò una conferenza stampa e spiegò che i rottami non erano altro che i resti di un pallone meteorologico. Dopo il clamore sollevato bisognava insabbiare, la notizia del ritrovamento poteva dare un grande vantaggio alla nazione americana, almeno cosi elucubrarono allora tanti ufologi di grido. Fu trovata una storia di copertura e tutto cadde nel dimenticatoio, infatti i rottami vennero analizzati dal meteorologo Irwing Newton, che lavorava alla base di Fort Worth, nel vicino Texas: in questi resti riconosce i rottami di una sonda ray wind, che veniva usata per studiare i venti ad alta quota, con tanto di foto allegate.
Caso chiuso? Magari…
Passano più di trent’anni e col libro del 1980 “The Roswell Incident” di Charles Berlitz e William L. Moore il caso Roswell torna prepotentemente alla ribalta.
Sono passate tre decadi dai fatti, e alcuni testimoni cambiano le loro versioni, compaiono particolari mai svelati prima, gli esperti autori svelano una gigantesca operazione di insabbiamento volta a proteggere il sacro graal dell’ufologia: l’esercito ha le prove che gli UFO sono navi provenienti dallo spazio, sono pilotate da esseri intelligenti ma non abbastanza da riuscire ad atterrare sul pianeta Terra.
Il progetto Mogul
La spiegazione ufficiale fornita nel 1947 era una menzogna. Il pallone c’era, ma non si trattava di un pallone meteorologico: era parte di un progetto top-secret che utilizzava microfoni a bassa frequenza in alta quota per cercare di monitorare esplosioni atomiche dei sovietici, il progetto Mogul.
Quello che venne recuperato nel ranch era il volo numero 4, lanciato dall‘Alamogordo Army Air Field, in New Mexico. Prima che le batterie si esaurissero, il dispositivo era stato localizzato ad Arabela, a solo una ventina di chilometri dal ranch di Mac Brazel.
Il progetto Mogul è solo un altro tentativo di insabbiamento da parte di militari e chissà quali altri poteri forti. Gli ufologi e i loro seguaci non potevano assolutamente bersi una storia del genere, il progetto Mogul non poteva che essere un patetico tentativo di nascondere i rottami e i corpi degli alieni al grande pubblico.
Gli americani probabilmente, almeno secondo decine, centinaia, migliaia di gole profonde, e con l’arrivo di internet siti, blog, pagine e gruppi facebook, stavano clonando gli alieni e realizzando ufo terrestri per conquistare il mondo…
Ma è possibile che con tanti mezzi e risorse a disposizione per nascondere un disco volante, nel 1947 sia stato proprio l’esercito a farsi sfuggire un comunicato che ne confermava l’esistenza?
Il primo rapporto parla di pezzi di gomma, stagnola, alluminio, nylon e altri materiali. Non viene menzionata la presenza di corpi.
Chi non conosce Berlitz e Moore? Il primo ci ha fatto conoscere il misterioso triangolo delle Bermuda che ha ingoiato di tutto, navi, aerei, forse anche dischi volanti…
Dopo decenni la memoria si confonde e, spinta da menti fantasiose e interessate a scrivere libri, le decorazioni sul nastro adesivo diventarono “geroglifici alieni“, il legno di balsa “un materiale che non brucia” e la stagnola uno straordinario materiale a “memoria di forma“. Testimonianze di seconda o terza mano, che ingarbugliano la storia dando però spunti ai due.
I ricordi, dopo trent’anni riaffiorano prepotenti, saltano fuori strani geroglifici, materiali a memoria di forma, tute indistruttibili senza cuciture, corpi alieni dalle grosse teste, con quattro dita a ventosa, le versioni si sprecano, saltano fuori anche delle autopsie pagate a peso d’oro…
Non c’è nessuna prova che i rottami recuperati avessero qualcosa di extraterrestre, eppure furono più che sufficienti, dopo più di trent’anni, a riaprire il caso Roswell e a farne una fonte di guadagno per molti ufologi e non solo.
Nel 1994 un’interrogazione parlamentare fa nascere una commissione di inchiesta, nel quale si parla di un pallone sonda non più per studi meteorologici, ma per rilevare test nucleari sovietici. Quindi sì, i militari avevano (comprensibilmente) omesso diversi particolari riguardo ai rottami, ma non stavano nascondendo nessuna astronave.
Ah, un’ultima cosa, il tenente Haut non fece leggere al Colonnello Blanchard quanto da lui redatto e fatto pubblicare sul giornale. Nel 1947 la spiegazione ufficiale che venne fornita fu sufficiente a smontare il caso e, anzi, l’incauto ufficiale fu sbeffeggiato anche dai giornali.
NiKola Tesla nacque il 10 luglio 1856, a Smiljan oggi situata in Croazia. Inventore eccentrico, diede un notevole contributo allo sviluppo delle conoscenze nel campo dell’allora nascente settore elettrico. A lui vengono attribuite invenzioni fantascientifiche che riguardano armi o sistemi di propulsione avveniristici. Non c’è però nessuna traccia delle opere a lui attribuite anche se, proprio a causa di queste presunte invenzioni, notoriamente, è uno dei personaggi maggiormente abusati dal mondo complottista, su di lui si raccontano storie fantasiose e prive di ogni fondamento.
Poco prima di morire lavorò in solitudine, a diversi progetti, lasciando documentazioni scarse sui risultati ottenuti. Forse, anche per questo, spesso gli viene attribuita la paternità di invenzioni che avrebbero affrancato il mondo dal giogo della dipendenza energetica, soppresse dalla “scienza ufficiale” per evitare che gruppi di potere potessero perdere il controllo sui popoli.
Non ci sono prove alla base delle invenzioni attribuite a Tesla e spesso i ciarlatani che abusano della credulità popolare usano il solito giochetto collaudato mischiando invenzioni che non hanno nulla di scientificamente dimostrabile alla fantapolitica.e, purtroppo, nonostante la buona volontà di chi fa informazione seria c’è sempre chi abbocca.
Una delle tante leggende racconta che Tesla avesse costruito una nave in miniatura che era in grado di pilotare a distanza.
Immaginò anche di realizzare un’arma, il “raggio della morte”, una invenzione, questa atribuita anche ai nostri Marconi e Maiorana, che non riuscì a portare a termine, nonostante il tentativo di ottenere collaborazione e finanziamenti dal Governo USA e da vari governi europei. Probabilmente per questo gli si attribuisce anche la leggenda della scoperta del laser. C’è chi racconta che Tesla fosse riuscito ad abbattere un aereo con questa arma a raggi. Storia simile al fantomatico raggio che avrebbe sperimentato Marconi per i fascisti con il quale riusciva a paralizzare i motori dei veicoli. Spesso Tesla viene citato dagli ambienti ufologici che gli attribuiscono lo sviluppo di sistemi capaci di levarsi dal suolo simili a “dischi volanti”. Alcuni hanno attribuito a lui la paternità degli UFO.
C’è una storia su Tesla che ancora oggi fa presa su tanti: si racconta che riuscisse a ricavare energia dall’etere, alimentando motori e trasmettendola a distanza, bufale che la ricerca scientifica ha facilmente sbugiardato ma che resiste imperterrita nell’immaginario complottaro. Le misteriose scoperte di Tesla fanno presa e gola soprattutto nel mondo dell’occultismo, qualcuno a raccontare storie senza uno straccio di prova ci guadagna sempre.
All’epoca di Tesla c’era ancora chi credeva possibile sviluppare energia gratuita, o free energy, in modo fantasioso ed artigianale, nulla di strano che Tesla stesso ci abbia provato, ovviamente fallendo perché l’energia dal nulla è scientificamente impossibile da ottenere, ma forse Tesla con “free energy” intendeva energia per tutti, per migliorare le condizioni di vita di ogni individuo….
Se fosse possibile ottenere anche solo una delle supposte invenzioni a lui ascritte sarebbe bastato che uno dei tanti pionieri della Free energy la realizzasse e all’epoca di persone che provavano strani esperimenti ce n’era parecchia.
A intorbidire le acque già torbide ci si misero anche i cospirazionisti che accusarono il Governo USA di come, subito dopo la sua morte, degli agenti governativi avessero fatto sparire 85 bauli con le macchine create da Tesla. Storielle accolte dai “complottisti” come prova del fatto che delle fantastiche scoperte non sia rimasto nulla. I militari soprattutto, sempre secondo il filone complottista, avevano lo scopo di entrare in possesso delle invenzioni del Genio Serbo naturalizzato americano. Qualcuno vocifera che anche i russi tentarono di riprodurre il raggio della morte di Tesla durante la guerra fredda…
In sostanza, tutte queste dicerie hanno minato alla base la credibilità di Tesla, il quale realizzò davvero delle ben note invenzioni che sono state sfruttate dal mondo scientifico.
Forse a causa della sua personalità eccentrica e delle sue incredibili affermazioni, negli ultimi anni della sua vita Tesla venne considerato uno “scienziato pazzo” attribuendogli nel tempo curiose anticipazioni di sviluppi scientifici successivi. Molto del suo lavoro è stato usato per appoggiare le teorie sugli UFO e occultismo New Age, ma nonostante questo, Tesla è stato indubbiamente in fisico e un inventore di grande importanza per il mondo scientifico.
Tesla secondo alcuni fu “suicidato” alla veneranda età di 86 anni per evitare che regalasse al mondo le sue fantastiche macchine, l’energia gratuita in barba a chi estraeva petrolio o costruiva dighe. In realtà morì a causa di un attacco cardiaco, ormai solo e dimenticato, nel New Yorker Hotel, tra il 5 e l’8 gennaio del 1943(Quindi, alla faccia di chi ci crede, non prese parte al famoso Philadelphia experiment) in una camera (n. 3327) ancora oggi utilizzata.
Dal 1980, anno in cui è stato identificato ed isolato il virus, il trattamento dell’infezione da HIV è andato evolvendosi rapidamente fino ad arrivare a trattamenti in grado di cronicizzare la patologia rallentandone, se non fermandone, l’evoluzione, pur senza debellarla definitivamente dall’organismo. La diagnosi di infezione da HIV, che fino all’inizio del secolo era praticamente una sentenza di condanna a morte, non è più un evento così drammatico ma una situazione abbastanza gestibile dalla medicina moderna. A conferma di questa asserzione, un nuovo studio ha determinato che l’aspettativa di vita attuale dei giovani contagiati dal virus è ormai “pressochè normale”.
Lo studio, pubblicato su The Lancet , ha esaminato i tassi di sopravvivenza di oltre 88.000 persone cui era stato diagnosticata l’infezione da HIV tra gli anni 1996 e il 2010 in Europa e Nord America. L’analisi dei dati ha reso evidente che, i giovani che hanno iniziato le terapie a base dei moderni farmaci antiretrovirali negli anni 2000, hanno una proiezione dell’aspettativa di vita di almeno dieci anni maggiore di chi ha cominciato ad assumere i primi farmaci di quel tipo nel 1996. Significa che la loro speranza di vita non è lontana da quella media della popolazione mondiale che si aggira intorno ai 78 anni.
Gli scienziati hanno iniziato la loro ricerca dal 1996, perché questo è l’anno in cui i primi farmaci antiretrovirali entrarono nei protocolli terapeutici. La terapia antiretrovirale comporta l’assunzione di un cocktail di farmaci che agiscono in combinazione bloccando la replicazione la replicazione del virus. Da allora, i farmaci sono stati raffinati e la modalità di uso e assunzione è stata migliorata grazie alla prova sui pazienti che ha permesso di testare le dicerse combinazioni eliminando progressivamente effetti collaterali e l’insorgenza di fenomeni di resistenza.
Grazie al miglioramento delle terapie, le persone sieropositive, oggi, assumono meno farmaci poiché l’inibizione della riproduzione dell’HIV permette un normale funzionamento del sistema immunitario e, quindi, non si sviluppano le malattie opportuniste che obbligavano i primi malati di AIDS ad assumere quantità enormi di farmaci potenti dai potenziali effetti collaterali dannosi.
A questo bisogna aggiungere anche la migliorata diagnosi precoce della malattia che permette di intervenire, rispetto ad un tempo, in un momento molto precedente alla diffusione organica ella malattia.
Tuttavia, la ricerca ha anche dimostrato che la migliorata aspettativa di vita per questi malati non vale per tutti. Infatti le statistiche dimostrano che i tossicodipendenti infettatisi attraverso l’uso promiscuo di siringhe non evidenziano tale miglioramento di aspettativa di vita. Non è ancora ben chiaro quale sia il motivo ma si sospetta che vi sia una correlazione con, oltre che con la modalità di infezione, anche con lo stile di vita precario che spesso viene condotta da questi tossicodipendenti.
“Questa ricerca dimostra che il miglioramento delle terapie anti HIV, associati con corretti screening per la prevenzione ed il trattamento dei problemi di salute associati all’infezione da HIV, può estendere la durata della vita di persone con diagnosi di HIV”, spiega l’autore Adam Trickey in una dichiarazione . “Tuttavia, sono necessari ulteriori sforzi per migliorare le terapie allo scopo di normalizzare completamente la qualità della vita di queste persone.”
Nonostante queste notizie positive sono ancora molti, troppi, i decessi causati dall’infezione da HIV. Questo continua a dipendere, spesso, da un non corretto stile di vita, da diagnosi tardiva e dall’uso scorretto dei farmaci o il loro non uso. La maggior parte dei decessi in malati di AIDS continuano a verificarsi tra le persone non trattate con le terapie antiretrovirali.
Purtroppo, negli ultimi anni, si sono diffuse a macchia d’olio idee sbagliate causate dalle teorie complottiste che tanto vanno di moda, secondo le quali l’AIDS non esiste o è curabile attraverso diete particolari o l’assunzione di farmaci improbabili o non testati, secondo protocolli inesistenti o, comunque, non riconosciuti dalla medicina ufficiale. Una persona che scoprisse di essere affetta da infezione da HIV, non dovrebbe perdere tempo a pensare che esiste un complotto che vuole costringerlo ad assumere farmaci al solo scopo di ingrassare “BIG PHARMA” ma correre da uno specialista qualificatop ed iniziare al più presto un adeguato trattamento antiretrovirale per fermare la replicazione del virus all’interno del proprio organismo.
Un gruppo di scienziati avrebbe individuato un enorme cratere da impatto nascosto sotto le acque dell’oceano al largo delle isole Falklands. Stando alle notizie riportate, si tratterebbe del secondo più grande cratere da impatto mai individuato sulla Terra e, probabilmente, sarebbe legato alla più grande estinzione di forme di vita accaduta sul nostro pianeta.
Il team che ha effettuato la scoperta era guidato da Max Rocca dell’Argentina’s Planetary Society. I ricercatori stimano che il cratere dovrebbe avere un diametro di 250 chilometri di larghezza e dovrebbe risalire a dai 270 ai 250 milioni di anni fa. I risultati della ricerca sono stati pubblicati sulla rivista Terra Nova.
L’esistenza del cratere è stata dedotta misurando una diminuzione della forza di gravità della Terra in quella parte di oceano Atlantico. Tali misurazioni si giustificherebbero con la minore densità, rispetto all’ambiente circostante, del materiale che ha riempito nel tempo il cratere.
Le misurazione effettuate hanno anche rilevato un aumento del magnetismo terrestre nell’area, caratteristica questa, tipica della grandi strutture derivanti da impatto, come il cratere da impatto Chicxulub, in Messico, risalente a 66 milioni di anni fa.
Se si avrà la conferma che si tratta di un cratere da impatto risalente al tardo paleozoico, potrebbe essere collegato al più grande evento di estinzione nella storia della Terra, la Grande Morte, avvenuta circa 252 milioni di anni fa.
Più del 90 per cento delle specie presenti sulla Terra si estinsero contemporaneamente in quell’epoca. Fin’ora le ipotesi sulle possibili cause comprendevano un periodo di massiccia attività vulcanica capace di oscurare il sole e avviare una specie di inverno nucleare, rilascio di grandissime quantità di metano nell’atmosfera, drenaggio dell’ossigeno da parte degli oceani e cambiamenti climatici estremi indotti da cause non ancora accertate. Qualcuno ha anche suggerito l’ipotesi di un grande impatto meteoritico ma, finora, non erano state trovate prove che potessero suffragare questa ipotesi.
Il più grande cratere conosciuto sulla Terra è il cratere Vredefort in Sud Africa, che misura circa 300 chilometri di diametro e risale 2,02 miliardi di anni. Questo cratere scoperto nella Falklands si contenderebbe il secondo posto con il cratere di Sudbury in Ontario, Canada, che misura 250 chilometri di diametro e risale a circa 1,85 miliardi di anni fa.
Formalmente si chiama Felis silvestris grampia ma gli scozzesi lo chiamano Highland tiger. Il motivo per cui il gatto selvatico scozzese sta assurgendo alla notorietà è perché, secondo l’organizzazione non governativa “Wildcat haven”, ne sono rimasti in circolazione solo 35 esemplari, facendo di lui il gatto più raro del mondo, ancora più raro del quasi estinto “Leopardo di Amur”. Il Felis silve3stris grampia è grande, più o meno, come un comune gatto domestico ma può arrivare a pesare più del doppio.
Questo gatto selvatico giunto in Gran Bretagna tramite una enorme distesa di paludi e tundra, conosciuta come doggerland, che collegava la Gran Bretagna al continente europeo al culmine dell’ultima era glaciale circa 12.000 anni fa.
I gatti selvatici scozzesi, nel corso delle generazioni, si sono evoluti isolatamente dai loro parenti continentali, sviluppando spesse strisce grigie che corrono lungo i fianchi e circondano la loro ampia coda, adattare a camuffare la loro presenza nelle grandi foreste di pini scozzesi.
Nelle Highlands scozzesi questi gatti sono venerati come icone.
I gatti selvatici scozzesi sono più pesanti dei gatti domestici (Credit: Peter Cairns / naturepl.com)
La natura selvaggia di questo elegante animale è stata celebrata da molti gruppi celtici. Per esempio, il sigillo del Clan Macpherson è un gatto selvatico scozzese ringhioso, e il loro motto, “Non toccate il gatto [senza] il guanto,” è allo stesso tempo un avvertimento e una raccomandazione.
Un gatto selvatico scozzese (Felis silvestris Grampia) (Credit: Adrian Davies / naturepl.com)
La più grande minaccia per il gatto selvatico scozzese è la sua controparte domestica. I gatti domestici sono stati introdotti in Gran Bretagna dai romani e poi dai Normanni. In Scozia si contano circa 200.000 gatti domestici randagi gatti sono più numerosi rispetto a qualsiasi altra specie di gatto. Sono stati introdotti in Gran Bretagna dai Normanni nel 11 ° secolo, e forse dai Romani molto prima. In Scozia, ci sono quasi 200.000 gatti domestici randagi, che, oltre ad occupare più o meno la stessa nicchia ecologica in competizione con il gatto selvatico scozzese e, cosa ancora peggiore, hanno finito per accoppiarsi generando incroci sempre più simili al gatto domestico che a quello selvatico.
Secondo molti ricercatori questa ibridazione è iniziata 2000 anni fa con i primi gatti domestici importati dai romani ed è andata talmente avanti che ormai nessun gatto selvatico è più veramente tale. Questa ipotesi è stata avvalorata anche da molti test genetici che hanno potuto individuare sequenze di DNA del gatto domestico in qualsiasi esemplare di gatto selvatico analizzato.
Esistono però ancora alcuni esemplari di gatto selvatico scozzese che ostentano orgogliosamente le proprie strisce da tigre, che evitano qualsiasi contatto con l’uomo e vivono cacciando lepri, conigli e altri piccoli mammiferi in larghe aree delle Highlands scozzesi.
Questi sono i gatti che Wildcat haven vuole preservare. Per farlo, li lasciano in pace. Non toccare il gatto.
Per salvaguardare la quello che resta della specie selvatica questa organizzazione si occupa di catturare e sterilizzare tutti i gatti randagi, onde evitare ulteriori contaminazioni ai 35 esemplari puri che ancora restano. La speranza è che questi gatti possano tornare ad incrociarsi tra loro ripopolando la specie.
Loch Ness è parte della Great Glen (Credit: Scotland Viaggi / Paul White / Alamy)
Un trio di profondi laghi – Loch Ness, Loch Oich e Loch Lochy – divide la terraferma scozzese in due, separando 7.000 miglia quadrate (18.100 kmq) di deserto degli altipiani del nord dalle città dense e terreni agricoli del sud. Questa linea diagonale di acqua si trova lungo un’antica Rift Valley chiamata il Great Glen. Ci sono solo tre piccoli ponti di terra che uniscono i due lati della Scozia. Uno di questi si trova nei pressi di Inverness, la “capitale delle Highlands”.
Il Great Glen è il confine naturale del territorio che si estende a nord-ovest della Scozia e che costituisce un rifugio privilegiato per il gatto selvatico scozzese. Con ogni randagio che viene castrato al di sopra di questa linea, il futuro del gatto selvatico scozzese diventa un po ‘più sicuro.
Un gatto selvatico scozzese (Credit: Ann & Steve Toon / naturepl.com)
Nel 2013, sono state designate cinque “aree prioritarie” – Angus Glens, Strathbogie, Strathpeffer, Strathavon e Cairngorms del Nord – in cui le popolazioni selvaggi scozzesi sembrano essere in buona salute. Proprio in quest’area è in corso una campagna tesa a catturare esemplari maschi per raccoglierne il seme ed utilizzarlo per la riproduzione in cattività, rendendo più diversificato il patrimonio genetico.
Tratto da: “Vita da pokerista” di Daniele Rielli, pubblicato su “Internazionale“
Il poker, nella versione Texas Hold’em ha conosciuto negli anni scorsi momenti di grande popolarità, soprattutto nella sua declinazione online che ha permesso a moltissime persone di sognare, per un po’, di diventare uno dei grandi giocatori resi popolari dalle trasmissioni televisive che, per un lungo periodo, hanno spopolato sulle televisioni di tutta la penisola. Oggi, complici la crisi che ha reso tanti giocatori più prudenti e la consapevolezza che non si tratta poi di un gioco così facile, il poker online sta conoscendo un notevole calo di popolarità mentre, al contrario, casinò e circoli privati organizzano con discreto successo tornei ed eventi cash game ottenendo un discreto successo.
Sono molti i professionisti dell’online che, negli ultimi tempi, si sono convertiti al live e sono partiti alla ricerca di luoghi, in Italia e all’estero, dove si trovino ancora giocatori dilettanti e presuntuosi “che non conoscano la matematica del gioco ma possiedano in parti uguali liquidità e controproducente testosterone”. La fortuna non guasta di certo ma, quello che serve per vincere a Texas hold’em, è soprattutto la conoscenza della teoria dei giochi e la possibilità di affrontare avversari con nessuna o una limitata e facilmente individuabile conoscenza della disciplina.
L’hold’em è un gioco a strategia interattiva e informazione incompleta. Definizione, questa, oscura ai più, e che significa un discreto numero di cose, per il momento basti dire che dove l’immaginario popolare vorrebbe vincessero il genio, i bluff, le compagnie di bari con il cavallo legato fuori del saloon, la realtà dei professionisti è fatta di pazienza, capacità di gestire il denaro, attendere, lavorare con le statistiche, osservare e applicare strategie a geometria variabile a seconda di chi ci si trova di fronte.
Piuttosto che un revolver, torna utile aver fatto qualche esame universitario di matematica. Tutte cose che diventano ancora più vere quando si passa al cash game – i tavoli collaterali al torneo dove per tutta la notte si giocano soldi veri – e nel poker online – dove l’importanza della varianza raggiunge i livelli più alti, fino a farsi la legge sovrana che distingue l’attivo economico dal passivo: la differenza tra il poker come professione o come costante prelievo di sangue.
Nei casinò e nei circoli sparsi un po’ in tutta la penisola, tra i giocatori ai tavoli, alcuni sono persone giovani o di mezza età con una conoscenza di nozioni matematiche di buon livello pronti ad alleggerire imprenditori, sognatori e illusi, ancora convinti che il poker sia un gioco di coraggio e istinto e per questo del tutto ignari di essere diventati il pezzo di pane che il resto branco non ha ancora visto.
Per i corsi e i ricorsi storici, la categoria di giocatori che ritiene il poker un fatto da saloon o di sola fortuna – ed è per questo destinata a subire uno scientifico espianto di euro dal portafogli – si chiama proprio fish. Anche il pesce fresco del poker ha le sue rotte privilegiate: per anni l’Italia è stato un paese molto pescoso, ma oggi per gettare le reti servono viaggi a Cipro, Malta, Montenegro o, se giocate pesante, Macao.
Il poker, come tutte le discipline dove il denaro gira sui risultati e non sulle gerarchie e sulle incrostazioni di potere, cambia e si sposta in fretta. È il lato ipercinetico della meritocrazia.
L’avvento del poker online
La maggior parte dei giocatori online della prima ondata, alla domanda “Come hai iniziato?” hanno finito per citare in una maniera o nell’altra Rounders, il film del 1998 di John Dahl dove un giovane Matt Damon, studente alla facoltà di legge e talentuoso pokerista, si fa strada nel sottobosco delle bische newyorkesi, rischiando tutto per guadagnare i soldi necessari all’iscrizione ai tavoli delle World series di Las Vegas.
Il film, a detta dei professionisti, è una discreta ricostruzione dell’ambiente pokeristico, utile per entrare in confidenza con alcuni concetti come quello di grinder (macinatore), il giocatore di poker professionista che non gioca tutte le mani, rischia il meno possibile, paziente e inesorabile come una macina che finisce sempre per portarsi a casa i tuoi soldi. Nella memorabile scena finale di Rounders è esplicitato anche il concetto di tell, ovvero l’indicazione fisica o verbale involontaria con cui i giocatori forniscono indizi sulle carte che hanno in mano.
Un altro momento topico e noto quasi quanto il grossolano tell del biscotto, è il litigio tra Mike, il personaggio interpretato da Matt Damon, e la sua fidanzata che lo accusa di giocare d’azzardo: “Why do you think the same five guys make it to the final table at the world series of poker, every-single-year?” (Come credi che arrivino ogni anno al tavolo finale delle world series sempre le stesse cinque persone?).
La verità è in questo caso un po’ più complessa, dato che in un certo senso hanno ragione entrambi, sia Mike sia la sua fidanzata. Il poker è effettivamente uno skill game, un gioco di abilità in cui però il caso ha un ruolo ineliminabile. Le due cose convivono nella misura in cui anche rapportarsi alla varianza presuppone un’abilità, anzi è l’abilità primaria del pokerista: gestire il caso per appianarne le asprezze e uscire con un segno positivo sul bankroll, la parte del proprio patrimonio che il giocatore dedica al poker.
Non è un caso che nella lingua del poker, che è di stretta derivazione inglese (rinforzare il mindset per uscire dal downswing ed evitare di andare broke è una frase che potreste tranquillamente sentire in un’intervista), il solo termine di slang autenticamente autarchico che sembra sopravvivere a qualsiasi forma di contaminazione sia: sculare. Si intende ovviamente to be lucky, espressione che forse in originale suonava poco volgare.
Quello che oggi non torna più della battuta di Rounders è piuttosto l’esempio portato a sostegno della tesi: nel 2015 è forse ancora possibile provare a individuare i cinque giocatori più forti del mondo, ma non si può più essere certi che se tutti e cinque partecipano allo stesso torneo delle World series saranno loro a sedere al tavolo finale. Non si può più dire perché poco dopo l’uscita di Rounders il mondo del poker è cambiato radicalmente a causa dell’avvento del gioco online.
Effetto Moneymaker
Il momento di svolta, universalmente riconosciuto, è la vittoria di 2,5 milioni di dollari al main event delle World series 2003 di Las Vegas ottenuta da Chris Moneymaker, un pokerista amatoriale che aveva vinto l’iscrizione al tavolo più importante del mondo (costo: diecimila dollari) grazie a un torneo di poker online da 40 dollari di buy in.
Al tempo della vittoria, Chris faceva il contabile a Nashville, Tennessee, e questo finì per mettere l’acquolina in bocca a un sacco di non professionisti, player occasionali pronti ad andare a lavorare di giorno in un’assicurazione, in banca o in un autolavaggio e a sperare di diventare i nuovi Chris Moneymaker di notte. Non li spaventava il fatto che, nella maggior parte dei casi, non potessero sicuramente contare su un cognome tanto profetico. Moneymaker infatti non è un soprannome ma il suo cognome vero, il che fornisce al detto latino nomen omen un nuovo, scintillante e molto telegenico, senso.
I fatti successivi rivelarono che Moneymaker non era un genio del poker ma un giocatore mediocre a cui era capitata una sequenza sorprendente di ottime carte che gestì con mosse a cui i pro non erano abituati, e proprio perché non erano particolarmente buone. Ricordate la geometria variabile di cui sopra? In altri termini significa che oltre al motto delfico “conosci te stesso” a un tavolo di Texas hold’em è necessario conoscere anche gli avversari, e in quel contesto nessuno era pronto ad affrontare un giocatore mediocre.
Sam Farha, il pro libanese che per ultimo rimase al tavolo a fronteggiare Moneymaker aveva confessato prima del torneo di temere i giocatori di basso livello più di quelli bravi e, purtroppo per lui, i fatti gli diedero ragione.
L’amatore del Tennessee fu la famosa anomalia, un piccolo cigno nero spuntato con le sue penne di colore scuro dentro il tempio mondiale del poker per fare un’allegra strage di più blasonati pennuti bianchi. Moneymaker fu qualcosa che nessuno dei pro aveva visto arrivare, proprio perché nessuno in cuor suo la riteneva possibile.
Sulla realtà dei fatti s’innestò presto la storia, inesorabile, mitologica, coerente, eroica, americana. I media descrissero al grande pubblico ogni sostanziale colpo di culo di Moneymaker al tavolo come la mossa geniale e imprevedibile del grande talento nascosto del poker, magnificando l’abilità tecnica e la ponderata spregiudicatezza di Chris, l’uomo medio che potresti essere proprio tu amico telespettatore.
Le cose non stavano così, ma non era certo la prima volta che la propensione del cervello umano a legare gli eventi in storie la cui coerenza appare sensata solo a posteriori, finiva per occultare le inappellabili e silenziose leggi dei numeri. Numeri in grado di certificare come scellerate anche le scelte che si dimostrarono vincenti nel caso specifico. Nel poker non esistono infatti mosse giuste in assoluto, così come mosse sbagliate possono rivelarsi vincenti al river, l’ultima carta comune che viene scoperta. Il massimo a cui si può ambire sono mosse che puntino alla maggior percentuale possibile di vittoria in una data situazione dove alcune variabili (le carte dell’avversario e quelle in comune ancora da scoprire) rimangono sconosciute fino alla fine.
Questo è il limitato concetto di giusto a cui tende il giocatore professionista e già la differenza di complessità e lunghezza tra questo e “Ommioddio Moneymaker è un genio del poker!” vi fa capire verso quale tipo di approccio narrativo tenderà una telecronaca.
Tutto ciò forse non è d’immediata comprensione ma ci torneremo sopra più avanti. Quello che conta per il momento è capire che le dimensioni del racconto delle World series del 2003 furono globali tanto che, per descrivere le conseguenze della vittoria dell’uomo venuto dal nulla fu coniata un’espressione passata agli annali della disciplina: “Moneymaker effect”. L’ondata planetaria e senza precedenti d’interesse per il Texas hold’em era cominciata.
Las Vegas rimaneva però pur sempre nel mezzo del deserto del Nevada, raggiungere i suoi casinò e le sue per nulla kitsch finte ricostruzioni di Venezia per giocare ai tavoli continuava a costare cifre importanti. Il vero boom fu quindi quello dell’online, il poker comodamente disponibile nelle camerette di ogni località provvista di una connessione a internet e in grado di offrire tornei con buy in di pochi euro e cash game per tutte le tasche, più o meno a qualsiasi ora del giorno e della notte. Questo, e il legame di alcuni tornei online a quelli live, ha portato le room virtuali a un rapidissimo incremento del numero di utenti.
La conseguenza più importante, oltre all’aumentare del giro d’affari, fu un cambio radicale del modo di giocare. Se Chris Moneymaker era stato espressione soprattutto della componente di azzardo insita nel poker, tra le schiere di nuovi giocatori dell’online ne emersero in fretta invece di molto bravi, perfettamente in grado di porre l’accento sulla componente di abilità del gioco. Il cambiamento fu particolarmente evidente anche perché questi nuovi professionisti erano fisicamente più simili ad anonimi nerd che ai personaggi a cavallo tra mistero, delinquenza e folclore del poker old school.
I migliori della nuova leva, dopo aver spennato tutti neofiti che al contrario di loro si erano affacciati online senza prendersi la briga di studiare, sul medio periodo avrebbero spazzato via anche buona parte della precedente aristocrazia del gioco.
L’irriducibile tendenza alla disruption che internet porta con se qualsiasi cosa tocchi, ampliò esponenzialmente la platea dei giocatori permettendo a chiunque di sedersi al tavolo da qualsiasi luogo del mondo e questo – fosse anche solo per una mera questione statistica di distribuzione del talento – elevò il livello del gioco fornendo le stesse possibilità di accesso alla disciplina a uno nato a Castenedolo (in provincia di Brescia) piuttosto che a Las Vegas.
Un altro fattore che contribuì in modo fondamentale ad alzare la barra come mai prima di allora furono i siti, i forum e le lezioni online che resero possibile una diffusione senza precedenti del sapere attorno alle tecniche del gioco, tecniche che venivano, e vengono tuttora, discusse e affinate senza sosta.
Tra i professionisti dell’online oggi è diffusa la consapevolezza di essere giocatori migliori di quelli del passato e, al tempo stesso, quella che nel futuro, anche solo tra dieci anni, la conoscenza del gioco avrà raggiunto un livello che oggi non è nemmeno possibile immaginare.
Era cambiata la concezione stessa del tempo in cui il gioco è inserito: era finito il presente perpetuo in cui la disciplina aveva vissuto fino a quel momento ed era nata una progressione. L’accelerazione era stata brutale e non se ne vedeva la fine. Il poker si era già fatto più complicato, remunerativo e al tempo stesso interessante.
Non tutti i nuovi arrivi a ogni modo erano dei geni del gioco, ma anche questo era quello che serviva a sviluppare la disciplina apportando denaro fresco nel sistema. Durante il boom, chiunque avesse anche un livello minimo di competenze statistiche e si fosse messo a studiare come si applicavano al gioco poteva fare un sacco di soldi.
È a questo periodo che si riferisce la maggior parte delle storie mirabolanti sui giocatori online che se avete meno di quarant’anni sentite ancora ogni tanto sotto forma di echi di seconda e terza mano nelle discussioni alle cene tra amici, alle feste o nei bar.
L’attribuzione di un fondamento oggettivo a leggende di questo tipo mai particolarmente agevole, una simile età dell’oro del poker online è effettivamente esistita e a beneficiarne sono stati i pochi che conoscevano bene il gioco in un momento in cui decine di migliaia di nuovi fish sostanzialmente sprovveduti si affacciavano nelle room, i siti dove si gioca a poker online.
A ben guardare, i tempi gloriosi della disciplina in Italia sono stati quindi una mattanza ma come sempre la storia la raccontano i vincitori: un gruppo relativamente piccolo di persone per le quali quella fu realmente l’età dell’oro.
Il giocatore dell’online
Scrittore (Apocalisse da camera, Einaudi) e sceneggiatore (LaCapaGira, Mio cognato e altri), Andrea Piva a un certo punto della sua vita ha deciso che ne aveva abbastanza del mondo del cinema romano e di quel genere di persone per cui un giorno sei una divintà atzeca da sfamare a oro e vergini sacrificali per via della tua visionarietà artistica e il giorno dopo tutto quello che ti offrono di scrivere sono storie di preti, medici e suore eroiche che salvano cani pastore.
“L’ultimo ingaggio che mi proposero era un progetto per la tv che si chiamava Morte di un artista. Lo presi come un segno del destino e decisi di cambiare vita”. Solitamente però è qualcosa sempre più facile a dirsi che a farsi, come mi spiega una volta seduti ai tavolini di un bar di piazza del Ferrarese, da dove si vede proprio il ristorante delle sequenze iniziali di Mio cognato.
“Tu non ci crederai ma proprio non sapevo cos’altro fare” e, qui mi sento in dovere di giurarvelo, Andrea Piva (persona di noto e comprovato ingegno e invidiabile cultura e titolare tra l’altro di un’incongrua laurea in giurisprudenza) dice esattamente: “Allora ho cercato come fare soldi su Google”.
“Su Google?”, ho replicato, quasi uccidendomi con la brioche al cioccolato.
“Sì, come fare soldi. Una delle cose che ho trovato è stata il poker online”.
Andrea aveva già una certa confidenza con il gioco d’azzardo: prima di tutto in famiglia. Al sud sono molto diffusi giochi di carte, soprattutto il poker all’italiana, che poi italiano non è, un gioco molto più limitato del Texas hold’em. È anche abbastanza assurdo perché si levano le carte più basse per avere la sensazione di fare punti più importanti. Il giocatore di poker all’italiana se potesse vorrebbe fare non poker, ma super-mega-poker. Da adolescente Andrea vive anche un certo periodo di assuefazione per le macchinette, allora illegali, nei retrobottega di alcuni bar di Bari, una fase che poco tempo dopo gli fornirà il background per scrivere la sceneggiatura di LaCapaGira. Il Texas hold’em però è un’altra faccenda, e arriva molti anni dopo la conclusione di quell’esperienza di azzardo in cui il banco vince sempre. Tutto nasce, come spesso accade nelle storie di giocatori, con una vittoria più o meno frutto del caso assoluto.
Dopo il verdetto dell’aruspice di Mountain View, Andrea compra il buy in per un torneo da due euro online di Tesax hold’em, lo vince e incassa 1.200 euro.
Rigioca lo stesso torneo la settimana seguente e ne vince altri 1.200. È nato un amore.
Subito dopo però incominciano le sconfitte e Andrea decide di mettersi a studiare seriamente il gioco, perché vincere è bello, giocare è divertente, ma perdere mica tanto, specie se non ti va di scrivere Morte di un artista. La formazione si può fare in molti modi, prima di tutto esiste una letteratura grosso modo sterminata sull’argomento, poi ci sono i forum, ma non solo.
“Io ho fatto anche molto coaching online, ovvero ho preso lezioni via skype da giocatori professionisti stranieri. Ti possono assistere live durante il gioco oppure si può fare dell’hand review a partita finita. Si riguardano e si commentano assieme le mani più importanti o quelle più complesse, basta salvarle con un software”.
Che sia fatta con l’aiuto di un coach o da soli, la revisione delle mani e dei dati statistici della sessione appena conclusa è un’attività imprescindibile nella routine quotidiana di un giocatore di poker professionista. Unendo tutte le forme di studio disponibili Andrea in breve ricomincia a vincere, e all’arrivo delle room nazionali dopo la messa al bando dall’Italia di quelle internazionali, diventerà uno di quelli che passeranno momenti molti felici.
A quel punto anche grazie alla notorietà acquisita giocando i tornei sui .com, diventerà membro del team Sisal Poker, la squadra sponsorizzata dalla room della Sisal. Qualche anno e una discreta carriera dopo lascerà la squadra per tornare a giocare da solo e avere il tempo di lavorare a un nuovo romanzo. Nel frattempo però ha imparato parecchie cose sul gioco.
Le regole
Per giocare una mano di Texas hold’em no limit due dei giocatori a rotazione devono mettere un buio (blind), ovvero un piccolo quantitativo delle proprie chips, e in cambio si ricevono due carte che rimangono coperte.
Ci sono inoltre cinque carte in comune che vengono girate in tre fasi diverse: le prime tre vengono rese pubbliche assieme (flop) la quarta da sola (turn) così come la quinta (river).
In ognuna delle fasi di gioco è possibile abbandonare il gioco (fold), starci senza puntare (check), puntare (raise), pareggiare la puntata degli avversari per continuare a giocare la mano (call).
Se due o più giocatori arrivano alla fine dell’ultima fase, vince chi ha la migliore combinazione di cinque carte, considerando sia quelle che ha in mano sia quelle in comune. I punti sono quelli del poker classico, cambia solo lievemente la gerarchia. Nel no limit è possibile puntare tutto quello che si ha in una sola mano, il che rende la specialità estremamente spettacolare e aggressiva, oltre che molto complicata dal punto di vista matematico.
“Il Texas hold’em no limit è ancora un gioco non risolto. All’università di Alberta, in Canada, hanno un gruppo di ricerca sul poker che lavora da anni su dei bot, intelligenze artificiali che giocano a poker, e che ha risolto il Texas hold’em heads up (uno contro uno, ndr) limit, ovvero con un massimale fissato per ogni puntata. Risolvere il no limit però è un obiettivo ancora molto lontano.
Il set up del professionista
Andrea abita con la sua ragazza e due gatti in una casa a schiera poco lontana dalla litoranea a sud di Bari. Il condominio ha una grande piscina il cui azzurro chiaro contrasta con la terra arsa tutto attorno, sull’altro lato, verso occidente, il sole scende sopra i convogli regionali che sferragliano diretti a Lecce.
In casa, sul soppalco sopra il salotto, oltre a un tavolo con tutti gli strumenti per produrre infinite varianti di sigarette elettroniche, c’è la postazione di lavoro di Andrea. Una sedia comoda, due computer, tre schermi, e un impianto audio con un subwoofer che diffonde musica retrofuture a volume alto, costante e sferico. Produttori dai suoni cupi e ambientali come Perturbator, Lazerhawk, Stellar Dreams, accompagnano l’andamento regolare, quasi altrettanto ritmico del gioco sui tavoli virtuali.
Andrea può giocare contemporaneamente anche su 14 tavoli se in cash game, 20 se in tornei. I tavoli si illuminano a turno quando è il momento di prendere una decisione (una ogni pochi secondi) e sono tutti sullo schermo centrale, su quello a destra scorrono le statistiche complessive delle partite in corso e su quello di sinistra girano i video YouTube delle canzoni.
Quando tutto è in funzione, il soppalco è come un mondo a parte, ben presto il giocatore sembra perdersi nel flow di un processo decisionale la cui cadenza è dettata dalla macchina, in un’unione quasi mistica e meditativa fra tecnologia e uomo, un po’ come nei dipinti di Simon Stalenhag che occupano gli sfondi dei suoi schermi.
Per giocare in modo più efficiente e su più tavoli, molti pro dell’online utilizzano una serie di software che permettono di sfruttare i big data per prendere decisioni migliori e più rapide, programmi il cui uso per altro è autorizzato da tutte le maggiori poker room.
Sullo schermo centrale, quello con i tavoli, alla base dell’icona che rappresenta ognuno degli opponenti è sovrapposto un heads-up display, una mascherina che fornisce alcuni valori statistici fondamentali sul gioco del concorrente, il più immancabile dei quali per esempio riguarda il suo range di apertura, il punto minimo cioè con cui quello specifico giocatore decide di solito di giocare la mano.
Non è l’unico valore, altri stimano l’aggressività o la prudenza degli opponenti in ognuna delle fasi del gioco e in relazione alle carte in comune rivelate fino a quel momento, oltre che ovviamente le percentuali di successo delle carte in mano al giocatore.
Dato che però una stima di questo tipo può avvenire solo in rapporto al range di punti che presupponiamo si trovino in mano i nostri avversari sulla base del loro gioco precedente, si tratta di un dato ben diverso da quello che vediamo in sovraimpressione durante le partite in tv dove i commentatori conoscono le carte di tutti i giocatori: una condizione di onniscienza in cui tutto diventa di colpo molto più facile e la saggezza è decisamente più a buon mercato.
Ogni griglia dell’heads up display si può comporre utilizzando le statistiche che si ritengono più utili, e se queste non sono contenute di default nel programma è possibile farsele scrivere su misura.
“Io mi sono fatto scrivere alcune formule da alcuni programmatori indiani”, dice Andrea spipacchiando dal suo calumet color argento. Costo per algoritmo: qualche centinaio di euro, a seconda della complessità.
Online è possibile giocare molte più mani all’ora rispetto ai tavoli live e questo fornisce la possibilità di produrre grandi quantità di dati, immagazzinarli e studiarli con l’uso di software. La produzione e l’analisi dei dati è il motivo principale per cui, anche quando non hanno l’ausilio dell’heads up display e degli altri software (ovvero nelle partite dal vivo), i giocatori di alto livello dell’online sono generalmente più competitivi di quelli che si limitano al gioco dal vivo.
I software possono attingere a banche dati di un milione di mani per ogni singolo opponente, se si tratta di avversari ricorrenti. Tutto viene archiviato e numeri così ampi incominciano a fornire indicazioni statistiche utili. Le grandi masse di dati, se studiate adeguatamente, sono in grado di generare una conoscenza del gioco senza precedenti.
Nel poker esistono soluzioni giuste, ma che non sempre si rivelano vincenti. Com’è possibile?
Più tardi io e Andrea beviamo un caffè in un bar di Torre a Mare. Seduto al tavolino
osservo il tranquillo scorrere sulla litoranea di una famiglia di tre persone su una vespa, respiro aria di mare e levantina impunità per il codice della strada e ripenso alla sessione di gioco a cui ho assistito e della quale, sul momento, non ho capito molto.
“Le tecniche di gioco sono molte e complesse, impadronirsene costa tempo, studio e lunghi periodi di pratica al tavolo”, spiega allora Andrea, “ma ci sono due aspetti fondamentali da capire in tutta la faccenda: la teoria dei giochi e la varianza: rapportarsi razionalmente alla varianza è forse il compito più difficile per un giocatore professionista”.
È arrivato il momento di provare a fornire alcune brevi spiegazioni di questi concetti.
Una prima introduzione alla teoria dei giochi è contenuta in questo video in cui Russell Crowe nei panni del matematico John Nash spiega che sotto determinate circostanze sia più logico non andare troppo per il sottile e sacrificare una biondona da ululati per una più sicura e abbordabile moretta media ed evitare il conflitto con gli altri contendenti.
Crowe/Nash insegna alcune cose: la prima è che la mia idea adolescenziale di un sindacato maschi in grado di mettere le donne in una situazione di oggettivo bisogno controllando l’offerta, non era poi così campata in aria da un punto di vista scientifico; la seconda, più prosaica, è che per fare una scelta efficiente in un ambiente complesso è necessario provare a prevedere il comportamento degli altri soggetti in campo.
Ora questo tipo di previsione si scontra con delle oggettive situazioni d’ignoranza, prima di tutto perché noi non siamo gli altri e possiamo solo fare ipotesi su quelle che saranno le loro decisioni, e in secondo luogo perché le scelte future si svolgono appunto nel futuro.
Questa è una mancanza d’informazioni a cui possiamo rapportarci solo attraverso lo strumento del calcolo delle probabilità.
Allo stesso modo, poiché il poker è un gioco in cui non conosciamo le carte in mano ai nostri avversari è necessario creare una strategia che tenendo conto del passato e del presente offra una visione probabilistica del futuro. Non una soluzione certa, sempre vincente cioè, ma ragionevolmente vincente in un certo numero di situazioni.
Le variabili da incrociare sono molte, non solo le carte che presupponiamo in mano al nostro avversario, ma anche l’ampiezza del pot (i soldi che sono in gioco), il nostro chips count (il patrimonio che ci rimane), il punto della partita in cui si svolge questo scontro, e la situazione degli avversari che magari hanno deciso di non giocare quella mano specifica e potrebbero rivelarsi, dal punto di vista probabilistico, i veri vincitori di una contesa a due, e questo semplicemente astenendosi. Stessero così le cose, comunque vada a finire la mano, questo farebbe della nostra scelta una pessima scelta.
Entrare più nello specifico è impossibile in questa sede, quello che però è importante capire è che alla base della scelta di un buon giocatore di poker c’è la capacità di tessere un’efficace strategia basata sul concetto di probabilità, non di fare la mossa vincente in qualsiasi circostanza, perché egli è il campione, anzi, a dire il vero una simile assunzione di base è quasi sempre una via abbastanza sicura per la sconfitta.
Per vincere a questo gioco è perciò talvolta richiesto anche di saper perdere, e per questo il poker è l’unico sport che, anche se venite dal nulla, vi permette di sedervi al tavolo con il giocatore più forte del mondo e avere una qualche, seppur minima, possibilità di vincere una mano, possibilità che non si presenterebbe invece marcando a uomo LeBron James, a meno che, ovviamente, non gli sparaste.
Il judo del poker
Tutti i giocatori di alto livello raccolgono informazioni sugli avversari, attraverso i dati o attraverso l’osservazione del loro gioco dal vivo, e, combinandoli con la loro esperienza, elaborano strategie dinamiche, in grado cioè di essere adattive in tempo reale.
Una strategia deve contemplare però anche la capacità di difendersi da quelle altrui e uno dei modi migliori di farlo è inserire irregolarità nei propri pattern di gioco, per esempio aprendo talvolta con un punto molto più basso del solito.
Si badi bene che questo non significa necessariamente bluffare perché alla fine della mano, quando le cinque carte in comune sono state rese pubbliche, una combinazione inizialmente debole potrebbe essere diventata quella più forte, il che però era statisticamente molto poco probabile all’inizio della mano, motivo per cui nessuno poteva ragionevolmente attendersi che l’avreste giocata. Il punto quindi non è tanto fingere o meno, quanto radere al suolo la capacità di predizione dell’avversario con lo scopo di mandarlo in bancarotta spirituale. Il che, se proprio vogliamo essere sinceri, suona anche molto più divertente.
In gergo questo si chiama soulown, e vuol dire arrivare a dominare l’anima dell’avversario, distruggendo il suo modo di vedere il gioco in quel momento, in altre parole compromettere il suo essere al tavolo come essere pensante e dotato di una visione di insieme attraverso la quale governare il rischio.
Perdere una mano dove si avevano delle buone probabilità di vittoria ci può stare se la sconfitta viene dallo spazio di rischio che si era messo in conto, ma perdere contro un punto che non si era visto arrivare, be’ questo è essere stati dominati mentalmente, e da lì in poi la partita si fa in salita. Il bene più importante del pokerista, più ancora del denaro di cui dispone, è il suo mindset, termine che indica l’armonioso insieme d’intelligenza, talento, competenze tecniche e tranquillità interiore necessario a coltivare speranze di vittoria.
Il colpo inoltre è tanto più forte e doloroso quanto più è alto e complesso il meccanismo di pianificazione mentale che si è dimostrato inefficace. Prendiamo un dibattito politico medio a Porta a Porta: il livello di complessità della discussione è solitamente talmente basso, gli skills argomentativi così poveri, che è molto improbabile che uno dei contendenti a un certo punto taccia senza sapere più che dire. Questo perché la dialettica è talmente terra terra che nell’improbabile eventualità che insorgano delle difficoltà è sufficiente continuare a rifugiarsi nelle routine collaudate e tutto sommato insignificanti del dibattito politico contemporaneo. Prendiamo invece un tipo di oratoria pubblica molto diversa: una finale di una gara di freestyle hip hop di alto livello. Un luogo dove le sinapsi sfrigolano alla ricerca d’incastri metrici al fulmicotone e di messaggi che siano a un tempo sia brillanti sia capaci di delivery, siano cioè in grado di articolare un concetto per farlo arrivare in fretta ma in maniera cristallina e deflagrante, all’ascoltatore.
Se uno dei due contendenti riesce a individuare un punto veramente debole del mindset del suo avversario, può potenzialmente metterlo a tacere o quantomeno rendere il suo segmento successivo assolutamente irrilevante. Questo perché gli skills coinvolti nella battaglia sono tali e tanti che il loro collassare travolge il soggetto che li aveva messi in campo.
Soulown
Una dinamica di questo tipo è simile a una mossa di arti marziali che rivolta la forza dell’avversario contro di lui, in questo senso, per assurdo, non è nemmeno sempre necessario essere più forti; un colpo, anche casuale, ma fortunosamente ben assestato, può mettere in difficoltà avversari più forti e preparati di noi, che proprio perché sono migliori si interrogheranno a lungo su dove hanno sbagliato, con il rischio di andare in tilt.
I tentativi di depistaggio strategico sono la conseguenza dell’innalzarsi del livello del gioco seguito al boom dell’online e l’effetto più evidente di questa maggiore consapevolezza tecnica è stato l’aumentare costante dell’aggressività delle strategie.
Dario Minieri, romano, classe 1985, è stato sin da giovanissimo uno dei giocatori più aggressivi del periodo d’oro del poker italiano, raggiungendo una lunga serie di successi e la sponsorizzazione del portale Pokerstars.it.
Il problema di uno stile molto aggressivo, come si può intuire istintivamente pensando alla teoria dei giochi, è che se si diffonde all’interno dell’ambiente, il vantaggio competitivo che è in grado di procurare inizialmente diminuisce e al tempo stesso espone maggiormente chi lo pratica alla varianza. Il secondo dei temi centrali per Andrea.
“Proprio in virtù della componente probabilistica del gioco, sulla singola giornata anche il più forte giocatore del mondo può perdere. Ed è esattamente quello che accade. È sul lungo periodo che il giocatore migliore si rivela migliore”.
La varianza è, detta più in soldoni possibile, l’eventualità ineliminabile che ti capitino carte pessime o, peggio ancora, buone ma comunque inferiori a quelle dell’avversario, tali che anche giocando al meglio non sia possibile vincere; rischio che diventa ancora più concreto se il livello della platea di giocatori con cui ci si confronta è alto.
E non è affatto detto che il periodo si riveli breve, perché, nonostante le persone che scommettono sui ritardi dei numeri al lotto (come se Galileo non fosse mai nato), una moneta lanciata una volta al giorno ha ogni giorno le stesse probabilità di far uscire testa o croce, indipendentemente da quello che è successo il giorno prima.
Per lo stesso principio aver avuto due settimane di carte pessime, non significa che non ve ne capiteranno altre due.
O altri sei mesi.
“Questo porta prima o poi ogni giocatore a quello che viene definito downswing, una fase negativa in cui tutto va male. E, in un senso a cui non è semplice abituarsi, è giusto così; perché in questo tipo di gioco la strategia necessariamente vincente su ogni mano non esiste, si può ambire solamente a quella vincente sul lungo periodo”.
Il problema è che nessuno può sapere quanto deve essere lungo questo “lungo periodo” per rivelarsi vincente. “I downswing quando sei un professionista creano perciò due tipi problemi: il primo è psicologico, nel senso che una parte di te incomincia inevitabilmente a pensare che forse non è tutta colpa della varianza, forse non sei poi così forte come credevi, forse hai solo avuto culo fino a quel momento, forse la festa è finita ed è ora di andare a lavorare in banca. Il secondo è che ci posso essere giorni in cui perdi delle finanziarie, e alla lunga questo può diventare un grosso problema per il tuo bankroll, il rischio è quello di andare broke”.
Tradotto in italiano: rischi di finire sul lastrico, a un pro può capitare spesso. Ma non sempre questo significa la fine, esistono, infatti, delle vie di uscita.
Strategie di riduzione del rischio, solidarietà di specie e aggressioni premeditate
L’Enada è la più grossa fiera del gioco degli operatori del gioco d’azzardo in Italia, e ha due edizioni, una autunnale a Roma e una primaverile a Rimini. Quando arrivo a quella in Romagna parcheggio vicino a una Bmw serie 7 con cerchi da venti pollici targata Caserta, sul parabrezza un adesivo che ringrazia san Francesco per la protezione.
Dentro i padiglioni c’è il solito clima da fiera professionale, un misto di testosterone da agente commerciale diviso equamente tra ragazze immagine e vaghe possibilità di nuovi affari, il tutto con contorno di cibo da aperitivo a tutte le ore.
Camminare per una mezz’oretta tra gli stand è sufficiente per capire che il poker non sta al centro del futuro dell’azzardo italiano, la novità sono i virtual, i simulatori di eventi sportivi (calcio e corse di cani e cavalli, principalmente) che consentono di abbattere i costi di realizzazione degli eventi e soprattutto di dare la possibilità di puntare ogni 5 minuti, in modo da tenere lo scommettitore dentro l’ininterrotto flow psicofisico del gioco, senza dargli il tempo di raffreddarsi.
Unica novità in cui incappo per il poker è una azienda online dell’est Europa che offre come dealer delle giovani ragazze in collegamento streaming da paesi come la Romania.
Per il resto sono i giochi da casinò a farla da padrone, con le slot e le vlt (video lottery) caratterizzate con temi a cui nessuno bada davvero: leggenda del Nilo, la spada nella roccia, Poseidone, vecchio West, Indiana Jones, chiromanti.
In un certo contrasto con il clima complessivo è un ex giocatore di poker professionista con cui ho appuntamento e che ora realizza software di gioco e preferisce non dire il suo nome. Sulla quarantina, una sciarpetta viola da intellettuale al collo, occhi che guizzano qua e là lasciando intuire scaltrezza.
“Non ti confondere, qui vogliono sembrare tutti più ricchi e importanti di quello che sono in realtà, i veri affari non si fanno in posti come questo”, si presenta. Il motivo per cui ci incontriamo è la sua passione per il poker che oggi l’ha fatto approdare al ruolo di finanziatore. “Ormai preferisco stakare giocatori più giovani, ovvero finanziarli in cambio di una parte dei ricavi. È meno stressante”.
Per chi maneggia la teoria dei giochi è normale vedere il mondo in termini di probabilità, e lo staking è la soluzione che diversi pokeristi si danno per rispondere alla varianza; e spesso questo avviene quando incominciano a invecchiare.
In pratica si tratta di fornire i soldi per giocare in cambio di una percentuale variabile tra il 30 e il 50 per cento delle vincite. Non si tratta di un prestito visto che in caso di perdita il giocatore non deve restituire i soldi. Ai tempi dell’abbondanza i professionisti vincenti si conoscevano tutti e stakavano i giovani talenti per massimizzare i guadagni. Ora sembra un meccanismo più rischioso, ma a saperci fare offre ancora rendimenti elevati, senza considerare che gli stakatori in genere non finanziano mai un solo giocatore bensì ripartiscono il rischio su una serie di giocatori che ritengono validi.
Altrettanto spesso lo staking non è gestito a sensazione ma sulla base di calcoli matematici che tengono in considerazione la rendita che si vuole ottenere e la gestione del rischio correlato. Anche se lo staking non sempre diventa di dominio pubblico, nell’ambiente sono note parecchie storie di giocatori famosi, anche italiani, che dopo un anno in cui erano andati praticamente broke, si sono ripresi grazie al provvidenziale intervento dei colleghi.
Lo staking offre una seconda possibilità ai giocatori in difficoltà, divisione del rischio e un’opportunità a chi non se la sente più di continuare a sostenere i ritmi elevati e gli stress pazzeschi del gioco professionistico, che sono fisiologicamente più adatti a un ventenne con corpo e mente al massimo della rapidità, che a un quarantenne.
Un altro metodo di finanziamento simile allo staking è quello dei giocatori che si siedono al tavolo pagati dai gestori di casinò o nei circoli illegali che abbondano anche nelle città d’Italia.
Sandro (ovviamente non è il suo vero nome) oggi è impiegato in un’azienda del bolognese, ma per alcuni anni il suo lavoro è stato sedersi ai tavoli di alcuni circoli cittadini e spennare dei malcapitati per conto dei gestori, che erano gli stessi che mettevano i soldi.
La maggior parte delle volte costruivamo intere partite attorno a un singolo fish coi soldi. Ogni tanto erano cinesi, altre volte italiani, quasi sempre comunque sembrava che non gli interessasse vincere o perdere: avevano il demone, semplicemente. Andavano in bagno e lasciavano le fiches sul tavolo, per dirti. Tolta la parte del circolo mi rimanevano anche 1300 euro al giorno, era un bell’andare anche se ogni tanto gli organizzatori cercavano di fregare anche noi sui soldi. A ogni modo non poteva durare
Il fish con molti soldi che sostanzialmente gioca per perdere nel gergo ha il nome, perfettamente conseguenziale, di whale. Al livello mondiale i whale sono i milionari (a volte miliardari) imprenditori, produttori cinematografici, gestori di fondi di investimento, banchieri di Wall Street che a intervalli regolari decidono di sedersi con i migliori giocatori del mondo e farsi mungere.
La balena più nota del mondo è Guy Laliberté, amministratore delegato del Cirque de Soleil che, secondo Pokerkingblog, ha perso online 17 milioni di dollari. Solo nel 2008.
La più ambita delle forme di riduzione del rischio per un giocatore rimane comunque la sponsorizzazione di una poker room, accordi che in genere prevedono oltre a un fisso annuale, alle volte decisamente cospicuo, anche i buy in e le spese per la partecipazione ai tornei più importanti.
La vita del torneista è possibile quasi esclusivamente grazie a sponsorizzazioni, dato che, anche se i premi sono spesso alti, la possibilità di vincerli o quella di andare a premio è statisticamente molto bassa, i costi, al contrario, sempre certi. D’altro canto i tornei sono fondamentali per le room per far parlare del poker e dei singoli player, creare mitologia attorno a certi giocatori e portare nuovi utenti sui loro siti.
Come funziona il sistema poker online
Le room di poker online sono siti che offrono tavoli virtuali per giocare a poker, di solito divisi per tre tipi di specialità: cash game (in Italia è possibile solo da luglio 2011); tornei sit’n go, che partono cioè al riempimento dei posti disponibili al tavolo; e tornei veri e propri. Ognuna delle specialità è offerta con diversi livelli di costi, a cui naturalmente sono commisurati i possibili guadagni.
Nei tornei si paga un buy in fisso e si gioca finché non si viene eliminati, nei cash game il sito incassa una rake, cioè una percentuale di ogni vincita fino a un certo massimale, per una media effettiva attorno al 3 per cento del giocato, percentuale solitamente più bassa di quelle dei casinò del mondo reale.
Questo è possibile grazie al fatto che i costi di un sito fatto di pixel su uno schermo sono molto più bassi rispetto a quelli di un casinò fatto di mattoni sulla terra, e che il digitale permette di giocare un numero più alto di mani in meno tempo; la platea potenziale è molto più ampia e i giocatori possono sedere a più tavoli contemporaneamente.
Il business online è più grande, efficiente e molto meno costoso.
La prima room ad avere una netta egemonia sul mercato mondiale fu Party Poker, sito che al momento della quotazione in borsa a Londra nel 2005 raggiunse un valore di 8,5 miliardi di dollari, più di quanto in quel momento valeva British Airways.
Party Poker si ritirò però dal mercato americano, perdendo in poche ore il 65 per cento del suo valore, dopo che Bill Frist, un senatore repubblicano che cercava un tema per lanciare la sua campagna per la Casa Bianca, riuscì a fare inserire in un decreto per la sicurezza portuale alcune misure che consegnavano il poker online a una zona legislativa quanto meno grigia.
La sua candidatura fallì, ma la legge rimase, se ne avvantaggiarono i portali che rimasero sul mercato decidendo di continuare a operare all’interno di un quadro legislativo potenzialmente rischioso. Tra questi ci fu Full tilt, la room che riuniva la maggior parte delle star del gioco come soci e testimonial, e fu tra i maggiori promotori dello star system del poker: gente di ogni tipo unita dal minimo comune denominatore di aver fatto un sacco di soldi giocando a carte.
Quest’epoca finì nell’aprile del 2011 quando, con il cosiddetto venerdì nero, il gioco fu definitivamente chiuso negli Stati uniti, le room furono messe offline e molti giocatori trovarono i loro fondi congelati. Solo alcuni, dopo parecchio tempo, riuscirono a recuperarli. Attualmente il gioco online è legale in alcuni stati americani, ma solo a livello locale.
L’Italia, dal canto suo, è stata invece uno dei primi paesi a creare una legislazione nazionale sull’argomento rilasciando dal 2008 in poi licenze per poker room nazionali, le cui vincite sono già tassate alla fonte.
Le grandi room internazionali, molte delle quali hanno sede in paradisi fiscali e sono chiamate comunemente .com dai giocatori per distinguerle da quelle nazionali (.it), non sono più accessibili dal nostro paese.
Spesso non basta nemmeno usare un semplice proxy per evitare il blocco perché le più grosse room internazionali non accettano l’iscrizione di giocatori con documenti italiani.
Con qualche escamatoge tecnico è possibile giocare fuori dal circuito .it, illegalmente, sugli oscuri portali chiamati in gergo “.retard” sia per la qualità dei giocatori ai tavoli sia perché non offrono alcuna trasparenza né sulla correttezza del gioco né sulle speranze di vedere arrivare i propri soldi nel caso si dovesse vincere.
Oggi l’emigrazione in room straniere è una tentazione per due categorie di pro: quelli in cerca di ambienti meno competitivi e quelli che giocano gli hi-stakes (le partite a poste altissime) dato che il sistema italiano ha dei limiti molto stringenti: una soglia di 250 euro per i tornei e di mille per il cash game.
Per questo molti top player italiani si sono trasferiti in luoghi come Malta, la Slovenia o l’Inghilterra. Le room nazionali che hanno sostituito i .com, spesso sono semplicemente le versioni italiane delle room mondiali diventate inaccessibili.
Sicurezza delle room e giocatori da bonus
Giulio Astarita è un poker manager che ha lavorato nel team originale di Gioco Digitale, per poi passare a Pokerstars, il dominatore assoluto del mercato, e infine approdare a Pokerclub, la room di Lottomatica, marchio di Gtech, la società italiana che si è fusa di recente con la statunitense Igt, dando vita a un colosso globale del settore giochi.
Incontro Astarita in uno di quegli anonimi palazzi dirigenziali romani dove bisogna lasciare un documento all’ingresso e i corridoi asettici ricordano un po’ quelli degli ospedali ma senza nessuno abbandonato in corsia a lamentarsi del governo.
Mentre parliamo, Astarita, trentacinque anni, barba corta, camicia azzurra dirigenziale, manipola soprappensiero un mazzo di carte da poker facendo sfoggio di un’abilità da prestigiatore.
Il suo lavoro è l’equivalente del responsabile della parte del saloon in cui si gioca a poker, e uno dei suoi compiti è rendere impossibili o quanto meno molto difficili le infiltrazioni dei bari.
La sua storia è cominciata come pokerista amatoriale e blogger appassionato del gioco, quando ancora studiava economia e poi come pokerista via via più capace fino all’ingresso in ruoli gestionali in tre delle più grosse room sul mercato. “Di questo gioco mi ha sempre affascinato l’ambiente competitivo, indipendentemente dal livello o dalla room dove si svolge”, continua a spiegare mentre le carte passano veloci da una mano all’altra, con un’affermazione che suona retorica solo fino a un certo punto. “Tra giocatori ci sono spesso rivalità anche aspre, ma a me piace l’idea che questo sia uno sport in cui tutti possono avere una chance, uno sport romantico. Poi ovviamente devi meritartelo, il poker è meritocratico”. Perché questo sia possibile però bisogna garantire condizioni uguali per tutti “evitare le pastette e furbetti del quartierino. Nessuna poker room può fare a meno dei giocatori quindi deve offrirgli un ambiente sicuro”.
Le poker room devono perciò gestire i giocatori che tentano una partita in collusion sui tavoli o al più del softplay concordato, cioè giocare, a varie intensità, in combutta contro gli altri. Due giocatori segretamente d’accordo possono prendersi un grande vantaggio sugli avversari, gruppi più ampi possono praticamente pilotare l’esito di una partita, e questo è illegale.
Lo stesso risultato si può ottenere con il multiaccounting, una pratica che consiste nell’aprire più acconti fraudolenti, gestiti in contemporanea dalla stessa persona, magari usando le identità di amici, nonni, zie e nipoti.
Garantire l’equità del gioco attraverso la sorveglianza è fondamentale anche per non seguire l’esempio di alcune room, diffuse in modo particolare in alcune zone del paese, che in passato hanno perso rapidamente mercato fino a scomparire, quando tra i giocatori si è diffusa la voce che il gestore non sorvegliava efficacemente questo tipo di rischi.
“Teniamo sempre in considerazione le segnalazioni dei giocatori di cui conosciamo l’affidabilità”, spiega Astarita, “inoltre sorvegliamo gli ip e abbiamo un team di matematici ed ex giocatori che usano software di analisi delle mani per individuare quelle sospette. A dire il vero c’è anche gente che si fa gli accordi sulle chat e allora lì prenderli è proprio facile. Purtroppo però in base alla legislazione attuale non possiamo sequestrargli i soldi, quello può farlo solo un giudice”.
Oggi, però, affinati i software di controllo, non è più questo il problema principale. Con il livello che si alza, l’ambiente che si fa competitivo e i margini di guadagno che si assottigliano è nata una nuova classe di player, i cosiddetti rakeback pro. “Un giocatore che gioca moltissime mani, può ricevere indietro fino al 70 per cento dei soldi di rake, quelli cioè prelevati dalla room come commissione per il servizio”, continua Astarita, “e questo può fare la differenza. Un giocatore che sarebbe in positivo di poco o in pari, recuperando una parte della rake può andare in positivo anche di molto, perché il numero di mani giocate da questo tipo di pokeristi è elevatissimo”.
Il rakeback può fare la differenza tra l’essere un professionista o meno e la competizione tra le room nell’offerta di questo tipo di bonus sempre più ampi ha assottigliato parecchio i margini.
“Oltre a ciò bisogna mettere in conto anche i disastri fatti dalle scuole di poker, che hanno rovinato il field rendendolo troppo competitivo”.
Da bravo giocatore Astarita vede chiaramente come alla diffusione del sapere sul poker, che prevede ampie dosi di teoria dei giochi, sia mancata proprio la capacità di applicare questo approccio a se stessa. “Ci sono giocatori molto forti che invece di sfruttare la loro conoscenza sul lungo periodo per guadagnare poco, ma moltissime volte, hanno preferito guadagnare di più ma una volta sola. Gli orizzonti attesi erano assolutamente chiari e svantaggiosi”.
Le scuole di poker online hanno sostanzialmente permesso un’accelerazione senza precedenti ai nuovi giocatori.
“È stato come superare di colpo dieci livelli, senza imparare le cose sul campo, si sono potuti risparmiare anni e anni di esperienza”. Da questa considerazione partono i piani per il futuro della sua room. Deve diventare una room divertente, frequentata cioè da tutti i tipi di giocatori, compresi quelli – con tutto il rispetto – scarsi: un luogo dove si può ancora vincere.
“Se sono tutti fortissimi, la room può anche chiudere, è come un ecosistema: senza pesci piccoli finiscono per estinguersi anche quelli grandi”.
Nonostante tutto quando ci salutiamo Astarita si dice ottimista, o meglio probabilisticamente ottimista: “Credo che si possa fare meglio, se non altro perché oggi il mercato ha sicuramente molte inefficienze dovute a tutti – operatori, giocatori, regolamentazione – ed è demonizzato spesso senza motivo. Bisognerebbe almeno non dimenticare che il poker è un bello sport”.
Portare gente dentro il gioco
Fino a oggi i metodi per portare gente dentro il gioco sono stati più o meno sempre gli stessi: grandi campagne mediatiche con testimonial che con il mondo del poker avevano poco a che fare –Totti, Ronaldo e Neymar, per citarne alcuni. Altre strategie di promozione prevedono grossi eventi con primi premi molto alti, la creazione di uno star system di giocatori nostrano, un canale digitale dedicato interamente al poker, un reality show come La casa degli assi, realizzato da Mediaset in partnership con Pokerstars, nel quale si entra per casting o vincendo un torneo.
Il rapporto tra room e tornei dal vivo è simbiotico, nel senso che le room li sponsorizzano e il torneo, con il suo gotha di giocatori seduti al tavolo finale, rappresenta l’olimpo che i giocatori da cameretta sperano prima o poi di raggiungere.
L’ambiente pokeristico della crisi spiegato matematicamente
Alla base del calo di redditività del gioco c’è il principio illustrato da Nate Silver, ex analista finanziario ed ex giocatore di poker, oggi fondatore e direttore di fivethirtyeight.com, sito che applica il calcolo di probabilità a ogni tipo di attività, realisticamente anche a quante siano le probabilità che un altro gatto di proprietà di pokeristi sia morto mentre leggevate questo pezzo.
Secondo Silver, nel poker il rapporto tra conoscenza del gioco e redditività segue la ben nota, in altri campi, curva di Pareto. Questo significa che al primo 20 per cento di studio del gioco corrisponde l’acquisizione dell’80 per cento dell’abilità, mentre il restante 80 per cento di conoscenza produce un incremento di solo il 20 per cento, sostanzialmente un perfezionamento.
In una prima fase quindi, un mercato pieno di neofiti offre un vantaggio competitivo enorme a chi ha anche solo un 20 per cento di conoscenza del gioco. Traduzione: si fanno un sacco di soldi facili. La differenza competitiva in questa fase è molto maggiore della discrepanza che c’è tra due giocatori di cui uno ha una conoscenza del 40 per cento e uno del 100 per cento, sempre tenendo conto che il concetto di “conoscenza del gioco” è ovviamente un’astrazione e non essendo il poker un gioco risolto matematicamente, nessuno ha una conoscenza pari al 100 per cento.
Ora, questi livelli di conoscenza modificano, secondo Silver, anche i rendimenti attesi dei giocatori al tavolo. A un tavolo di dieci persone con almeno un fish i giocatori che possono ragionevolmente attendersi di andare in attivo sono cinque, con un sesto che andrà in pari. Questa è quella che tutti, tranne probabilmente il fish, chiamerebbero una redistribuzione efficace.
Se a questa situazione levate il giocatore peggiore del tavolo, le cose cambiano bruscamente: da cinque che erano, solo uno sarà il giocatore ad andare in positivo; un altro potrà ambire ad andare in pari e ben sette giocatori andranno in negativo.
Con un vincente su nove, all’improvviso il poker non sembra più un gioco così interessante.
Torniamo per un momento alla frase iniziale tratta da Rounders. “Se non individui il pollo nella prima mezz’ora al tavolo, allora tu sei il pollo”. Questo è sempre vero, ma non per le stesse ragioni, potrebbe anche darsi che al tavolo di polli non ce ne siano proprio, ma questo rappresenta comunque un problema, perché come abbiamo visto a un tavolo del genere non dovremmo sederci.
In gergo questo è il processo chiamato “ispessimento del field”.
Assieme alle ben note peculiarità italiane come crisi economica, legislazione incompleta, valore molto irregolare del management, declino della moda dell’hold’em ed emigrazione di molti pro nei paesi dove è possibile giocare sui .com, questo è il fenomeno che ha portato alla situazione di oggi.
Non è andata sempre così: nei primi due anni del poker legale la raccolta fu di 4,6 miliardi (2009-2010) e continuò a crescere fino alla metà del 2011. Il numero non rappresenta l’utile dei gestori (come talvolta fanno intendere alcuni giornalisti con il generatore automatico di marcio di sistema), bensì i soldi giocati, che in larga maggioranza, come si può vedere dalle tabelle qui sotto, tornano ai giocatori stessi. Tra giocato e utili esiste comunque una correlazione ineliminabile, e la flessione drammatica che negli ultimi tre anni ha portato via circa la metà del mercato ha quindi colpito entrambi.
La crisi devastante del mercato ha inoltre rafforzato la room egemone Pokestars.it che alla fine del 2014 ha raggiunto il 50 per cento del mercato dei cash game e il 60 per cento di quello dei tornei.
Come sopravvivere al nuovo ambiente
Gianpaolo Eramo mi raggiunge in un bar in una piazza del quartiere Isola, a Milano, poco lontano da casa sua. È quasi mezzogiorno ma mi confessa di essersi svegliato da poco, il che me lo fa sentire istintivamente affine. Gianpaolo, 32 anni, laurea alla Bocconi e passato da analista in un fondo di venture capital, ha lasciato tutto per diventare, come Andrea Piva, uno dei primissimi giocatori dell’online in Italia.
“All’inizio quando perdevo pensavo che le room fossero truccate, poi sono finito sul forum 2plus2 e ho scoperto che per giocare a carte si doveva studiare, mi si è aperto un mondo, era un’idea che non mi era mai passata per la testa. Era il 2004. Tempo dopo facevo tranquillamente diecimila euro al mese con il poker e licenziarmi dal lavoro era diventato un obbligo”.
Con il cambiare del mercato e la riduzione dei profitti, piuttosto che diventare un rakeback player ha scelto un’altra via:
Per avere il livello più alto di rimborso devi spendere circa dodicimila euro al mese di rake. Ora, se riesci ad avere questo livello, l’anno seguente puoi rientrare del 66 per cento della tua rake, contro il 35 per cento del livello precedente. Questo significa anche 50mila euro in più a fine anno. Ci sono giocatori che vanno in perdita un anno con l’idea di passare di livello l’anno successivo, a quel punto possono guadagnare anche 60-70mila euro, già tassati, di rakeback, praticamente essendo andati in pari o quasi ai tavoli. L’obiettivo quindi diventa non perdere. Per me è follia, in pratica vivi di quello che il sito ti restituisce di commissione. È vero che conta quanti soldi fai alla fine, però a quel punto piuttosto torno in ufficio perché comunque devi giocare otto ore al giorno tutti i giorni tutto l’anno per fare un numero sufficiente di mani, e il poker l’ho scelto anche per la libertà. Se guadagni uno status così alto poi per non perderlo diventi quasi come un dipendente del sito, sei virtualmente condannato a giocare a vita su quel sito.
Gianpaolo in ufficio non ci è tornato, e non è nemmeno diventato uno schiavo da commissione di un sito, ha scelto una via un po’ più complicata. “Mi sono buttato sul live, gioco di media 3-4 volte alla settimana, tra periodi da due partite alla settimana e periodi in cui gioco undici ore di seguito per quattro giorni”.
Gioca nei casinò statali, in case private e nei circoli, dove la situazione è ancora in un limbo legislativo, perché è stata fatta una legge per la loro legalizzazione nel 2009 ma non il suo regolamento attuativo e le mille licenze promesse sono rimaste pendenti.
Se volete giocare a poker a soldi con i vostri amici in Italia e volete essere assolutamente sicuri di farlo legalmente è bene che abbiate con voi dei computer, perché online è sicuramente legale, mentre se vi guardate in faccia dipende dalle interpretazioni e da che tipo di partita giocate.
Le world series
La sua storia comincia con la partita più famosa del secolo che si svolse al casinò Horseshoe della famiglia Binion nel 1949, tra Nick “il Greco” Dandalos, arrivato in città dalla east coast in cerca di una sfida, e Johnny Moss, chiamato da Dallas proprio dal tenutario Benny Binion per accettarla.
Il match durò cinque mesi, con intervalli per dormire ogni quattro giorni, pause che spesso Dandalos passava a giocare a dadi in un’altra ala del casinò. Alla fine delle venti settimane di gioco, il Greco si alzò e con un sorriso disse che poteva bastare così. Aveva perso due milioni di dollari.
Poco dopo Benny Binion perse per un periodo la proprietà del casinò per poi riconquistarla anni dopo e organizzare un’altra epica partita pubblica.
Era il 1970 e gli iscritti erano sette: fu la prima edizione delle World series. Nell’edizione del 2006, spostata al Rio, i partecipanti erano diventati 8.773, un numero che si era impennato a partire dal 2003 in virtù del Moneymaker effect. Nel 2014 si sono ridotti a 6.683, ma il numero di eventi spalmato lungo un mese è arrivato, dalla singola specialità del 1970, alla folle cifra di 65.
Vincere un evento delle World series dà diritto al famigerato “braccialetto”, un onore che in Italia possono vantare in sette: Valter Farina, Dario Alioto, Dario Minieri, Rocco Palumbo, Andrea Suriano e, unico ad averne vinti due, Max Pescatori, detto il Pirata o il Pesca, il veterano dei giocatori italiani che avevo chiamato in vista della discesa in Montenegro.
Il Pesca, milanese, è arrivato la prima volta a Las Vegas all’età di 23 anni come turista, un mese più tardi viveva lì, dopo essere tornato in Italia per vendere l’automobile. A Las Vegas ha cominciato come croupier nei casinò Gold coast prima e Texas station poi: “Non mi pareva vero che mi pagassero per giocare”, dice con un accento milanese che resiste senza problemi agli anni negli Stati Uniti.
Ai tavoli che frequentava dopo il lavoro ha imparato il mestiere dai pro americani, assimilando trucchi, esperienza, fiuto che gli hanno permesso di rimanere sulla cresta dell’onda nonostante l’arrivo negli anni di almeno tre ondate di giocatori più giovani.
Pur essendo un veterano in un ambiente pieno di giovani barracuda, Pescatori è ancora un cattivissimo cliente pieno di mestiere da trovarsi al tavolo e continua a fare risultati importanti. La costanza di rendimento gli ha permesso di essere interrottamente sponsorizzato dall’avvento del poker online in Italia fino a oggi.
Quando gli ho chiesto quanto ha contato in questo la costruzione del personaggio, cose come la bandana tricolore che usava nei primi tempi, mi ha risposto: “Quella me la mettevano in America perché dicevano che avevo l’accento di New York, e io invece volevo si sapesse che ero italiano. Anni dopo quando tornavo in Italia c’era gente che diceva che ero americano, uè ma quale americano?”.
E la differenza tra online e live? “La differenza più grossa è che online si è più aggressivi, è più facile andare in all in perché tanto dopo cinque minuti parte un altro torneo, e in generale c’è più gente che non sa cosa sta facendo ma al tempo stesso molta più matematica. Il profiling live, la schedatura dell’avversario, nel live si fa invece prima di tutto osservando le apparenze: una ragazza giovane al tavolo sarà probabilmente la fidanzata di un altro giocatore, quindi una giocatrice più o meno amatoriale, un uomo di 75 anni sarà un amante del poker ma è improbabile che il suo gioco sia particolarmente aggressivo. I tell comunque in genere si guardano sugli amatori, non sui professionisti, sui professionisti si guardano altre cose”.
Ne parlo la sera a cena, nel porto di Budva, con Gianpaolo, che è un po’ provato da tavoli notturni e torneo, mentre io, dal canto mio, sono abbastanza soddisfatto della mia abbronzatura.
Be’ nel live vedi le persone in faccia e ci sono tante cose che ti segnalano un amatore, per esempio la dimensione delle scommesse dei pro è grosso modo standard, ci sono delle progressioni in base alle chips, alla fase della partita, eccetera lo scopo è rendere difficile all’avversario capire cosa hai in mano. Uno che scommette cifre a caso è chiaramente un amatore. Il bluff dal vivo è molto raro, anche perché, nonostante quello che si dice, non è mai facile da fare nemmeno per un pro. È più probabile che sia un amatore a metterti in difficoltà con un bluff perché se è uno con i soldi, di una mano da tremila euro può non fregargliene niente, mentre per te non è mai proprio indifferente. Per quanto riguarda il travaso tra online e live bisogna distinguere tra fenomeni e gente brava. I fenomeni possono venire dall’online e spaccare tutto anche ai live, ma sono pochi. La maggior parte dei giocatori online deve maturare con il tempo. Sotto i trenta sono pochi i giocatori online veramente pericolosi dal vivo.
Uno di questi è sicuramente Mustafa Kanit, detto Mustacchione, nickname online Lasagnamm, 23 anni, di Novara, residente a Londra per giocare sui .com, e 4° a livello mondiale nella classifica dei best poker player del 2014.
The ballad of the small player è un libro di Lawrence Osborne su un giocatore inglese di baccarat disperso fisicamente e spiritualmente a Macao, in Cina. Lord Doyle, così si chiama il protagonista che non è veramente un nobile ma un truffatore, è un giocatore d’azzardo terminale, di quelli che ormai non giocano più per vincere e nemmeno per giocare, ma per perdere, e nel suo percorso di perdizione finisce per somigliare a un preta, il fantasma affamato che contraddistingue uno dei sei regni dell’aldilà buddista.
Questi spiriti della tradizione sono animati da fame e sete insaziabili e vivono in un eterno stato d’inestinguibile bisogno, il che li rende un’allegoria esatta dell’azzardo che ha rotto ogni limite e si è impossessato di un uomo fino a renderlo una marionetta nelle sue mani.
Il giocatore di poker è l’azzimato professionista che abita nella casa di fianco a quella del fantasma affamato. Ogni tanto, quando nessuno lo vede, non riesce a trattenersi e prova a scrutare tra le tende del vicino dalla sua finestra, in cerca di qualche movimento, di un’ombra di quel mondo condannato eppure in qualche modo attraente. Sa bene che si tratta di una pulsione pericolosa, potenzialmente mortale, e sa altrettanto bene che se anche nella sua vita non lo incontrerà mai, non potrà mai dimenticarsi che lui e lo spirito abitano a pochi passi. Dominare la sete e la fame insaziabili dell’alea è l’abilità centrale di un giocatore, per non passare nell’altra parte del casinò, il quartiere Disperazione dove luccicano le slot e il banco vince sempre.
Marco Materazz e l’operazione All in
Una pratica diffusa tra i torneisti professionisti per ridurre il ruolo della varianza è quella di scambiarsi quote minoritarie di buy in, in modo che, male che vada, se uno dei due dovesse vincere o andare a premi, si riuscirebbe a coprire quanto meno le spese dell’altro.
Questo meccanismo diventa sostanzialmente inevitabile nei grandi tornei con buy in mostruosi, come il Big one for one drop, in cui il biglietto d’ingresso costa un milione di dollari e il primo premio è di 15 milioni.
I giocatori professionisti non pagano mai interamente buy in del genere, che sarebbero letali per il loro bankroll e assolutamente ingiustificati da un punto di vista probabilistico, ma vendono le quote, talvolta anche su Twitter come fa il canadese Daniel Negreau, uno dei più forti giocatori del mondo.
Alcuni giocatori cercano di iscriversi ai tornei con un nome falso, si tratta di una contromossa compiuta da un giocatore italiano sull’onda dell’operazione “All in” della guardia di finanza, che nel 2011 ha indagato per evasione fiscale molti giocatori di poker italiani che avevano vinto o erano andati a premio in tornei all’estero, spesso in paesi della comunità europea.
Molti però sono stati i punti controversi dell’operazione secondo i giocatori e secondo Massimiliano Rosa, legale di alcuni di loro e portabandiera della lotta all’operazione.
In primis ci sarebbe la questione della violazione del principio di non discriminazione, previsto dall’articolo 56 del trattato Ue, per cui sarebbe illegittima la pretesa italiana di assoggettare a imposizione le vincite provenienti dall’estero dal momento che quelle conseguite in patria sono esenti da tassazione. Diversamente, sostiene il legale, si disincentiverebbero i cittadini italiani che vogliano andare in case da gioco straniere, violando così il principio di libera circolazione di persone, servizi e capitali all’interno del mercato comune.
Sempre secondo Rosa “la questione non si limita però alle vincite all’interno della comunità europea, ma riguarda anche quelle ottenute al di fuori dell’Ue, se il paese in questione ha stipulato con l’Italia un accordo bilaterale contro le doppie imposizioni, modello Osce, conformemente al divieto di doppia imposizione, nell’ipotesi in cui la vincita abbia già scontato una tassazione alla fonte presso il paese estero di provenienza”.
A questo si aggiunga anche che quella di giocatore di poker non è una professione riconosciuta dal fisco italiano, per cui non è possibile per i pro scaricare le spese di spostamento, alloggio e buy in dei tornei; e infine, la cosa forse più clamorosa di tutte: secondo la difesa dei giocatori, la guardia di finanza potrebbe avere usato all’inizio come fonte il database pokeristico Hendonmob, che però per stessa ammissione dei gestori non fa alcun controllo sull’accuratezza dei dati trasmessi dagli organizzatori, come si può peraltro intuire da questa classifica di un torneo disputato a Brno nel 2009.
C’è da aggiungere che questi dati non tengono nemmeno conto dei giocatori che si scambiano quote o vengono stakati e quindi in caso di risultato positivo devono dividere gli utili.
Nell’ottobre del 2014 la corte di giustizia europea si è espressa duramente sull’operazione, con la sentenza sul caso Blanco-Fabretti, dichiarando che l’assoggettamento a imposizione delle vincite realizzate dai giocatori italiani nei casinò europei costituisce infrazione del diritto comunitario. La sentenza europea dovrebbe aver posto la parola fine, sul lato comunitario, a un’operazione che per due anni ha tolto il sonno a moltissimi pro italiani mettendoli di fronte ad accertamenti fiscali pesantissimi. Rimane invece aperto il fronte delle vincite fuori dell’Ue.
Filosofia del poker
Il fascino principale che offre il poker è la capacità di fottere il sistema, espressione che, nonostante tutte le accezioni da occupazione liceale che può avere, descrive con efficacia quello di cui stiamo parlando. È poco meno di un tabù, ma è fatto noto a tutti gli esseri dotati di autocoscienza che sono molto poche le persone a cui piace davvero alzarsi alle sette di mattina per trascinarsi a prendere ordini dentro un ufficio.
Il circuito del poker professionistico riunisce un ampio numero di persone che avrebbero potuto ambire, o avevano effettivamente, a posti ben retribuiti nel mondo “regolare”, ma che a un certo punto ne hanno percepito l’insensatezza e hanno preferito cimentarsi con un gioco che fondamentalmente è una sorta di sfida al controllo mentale con l’ausilio di supporti plastificati.
Un gioco che è in grado di fornire libertà, non la libertà assoluta, questa sì aspirazione sostenibile solo in un contesto liceale, ma un tipo di libertà anarcoide in cui è il soggetto a trattare autonomamente le condizioni della sua resa con tre interlocutori: i numeri, le carte e l’industria del gioco.
Non è come svolazzare nell’empireo in attesa che la dea della fortuna svuoti su di voi una cornucopia di soffice e gloriosa nullafacenza, ma comunque è molto più di quello che è concesso alla maggior parte delle persone.
I giocatori di poker non hanno stima per il banco e in generale si attaccano molto alle regole del gioco perché sanno che sono l’unica garanzia a loro disposizione in un ambiente ostile. Il caso di Phil Ivey, considerato da alcuni il giocatore di poker più forte del mondo, che dopo aver sbancato due casinò giocando a baccarat ha dovuto affrontare lunghi processi per avere usato a suo favore le condizioni che gli stessi casinò gli avevano concesso per iscritto con la speranza di prendere i suoi soldi, è una di quelle storie che fanno incazzare parecchio i pokeristi, che si vedono solitamente come gli unici uomini liberi nell’ambiente dei casinò. E non senza qualche ragione.
C’è infatti un certo raccoglimento e un elevato grado di onestà nel cuore della disciplina perché il poker con le sue regole e la sua circostanziata accettazione dell’alea è un ambiente molto più pulito e trasparente di tanti altri. Le variabili sono complesse, ma le incognite dichiarate, l’ambito della sfida delimitato, e c’è davvero la possibilità di vincere – cosa che non si può sempre dire del mondo in cui ci muoviamo tutti i giorni.
Peculiarità d’origine geografica tipica
Il poker professionistico fa parte di quella società del rischio che in un paese tendente alla tradizione e all’immobilismo come l’Italia non è mai vista bene e deve superare una certa dose di ostacoli aggiuntivi per il solo fatto di promuovere novità, e, nei momenti di difficoltà, deve tenersi pronta a subire più svantaggi di altri settori.
Ciononostante soprattutto nel primo periodo della sua storia, il poker online ha offerto grandi opportunità a molte persone, quasi tutte giovanissime, sulla base il più delle volte della loro intelligenza e abilità, non solo al tavolo ma anche nell’indotto, una situazione fluida e piena di potenziale. Non una cosa che capiti spesso dalle nostre parti.
Il poker però è anche un gioco spietato. La caccia al fish da questo punto di vista è inesorabile. Basta farsi un giro sui forum specializzati per vedere che questo è l’argomento principale su cui tutti si scervellano.
L’ultimo ritrovato allo scopo è un nuovo tipo di tornei online, i cosiddetti spin & go che per pochi soldi di buy in offrono minitornei con un montepremi soggetto all’alea, che può quindi essere di pochi euro come seimila volte l’ingresso.
Per i pro abituati a calcolare le probabilità è un tipo di gioco svantaggioso visto che il moltiplicatore seimila (ovvero una posta in gioco seimila volte più alta del buy in) capita una volta ogni 200mila tornei, e non ci vuole molto per capire che con la nuova specialità a vincere davvero è il banco che migliora la sua redditività.
Al tempo stesso però questo è un tipo di torneo gradito dai fish perché per pochi euro possono rischiare di trovarsi a giocare per quelle cifre importanti che sono sempre le migliori esche per il pesce fresco, notoriamente alla ricerca del colpo grosso.
Prendersi i propri rischi
Al poker per sopravvivere servono i fish, ma al tempo stesso è sempre vero che nessuno nel gioco è destinato a rimanere pollo per sempre se non lo desidera, può sempre provare a migliorare o smettere di giocare. Il dibattito etico andrebbe posto piuttosto nei termini di un dibattito di merito e volontarietà tra persone adulte.
Chi si siede al tavolo sa che potrà vincere i soldi degli altri e per questo accetta di poter perdere i suoi. Per vincere bisogna essere più bravi e fortunati degli altri, e ancora: pesato in un ambiente sterile il ruolo della fortuna nel poker sembra essere minore rispetto a quello che svolge nella vita fuori del tavolo. Basti pensare che il più forte dei player possiede una piccolissima frazione del patrimonio di una whale ereditiera, ma può impartirle una seria lezione in quella simulazione semplificata della vita che è il gioco del poker, fuori del tavolo verde la cosa si farebbe decisamente più complicata.
I numeri anarchici non durano a lungo
C’è di più. Confrontando le tante storie affascinanti contenute in The biggest game in town, il bel reportage di Al Alvarez sugli anni del poker prima dell’online e quelle del dopo Moneymaker, ciò che si nota è un grande cambiamento dell’approccio. Frasi del tipo “Come altri dei migliori pokeristi, Jack Straus valuta i suoi avversari non in base alle loro abilità matematiche, ma per quello che nell’ambiente pokeristico si chiama cuore”, oggi farebbero sorridere un professionista. Certo ai tavoli dal vivo contano ancora molto il mestiere, l’esperienza, la capacità di leggere le persone, ma lo studio dei numeri legati al gioco ha fatto passi da gigante ed è diventato imprescindibile.
I giocatori nati sull’online, che scappavano spesso da ambienti di lavoro dove il calcolo avanzato era l’utensile di base, hanno portato con sé questa capacità e l’hanno utilizzata per costruirsi una via alla libertà. Hanno usato il numero per emanciparsi dalla burocrazia aziendale, e questo non poteva non avere conseguenze sul lungo periodo.
La specialità è mutata in fretta: spinti dalla competizione i giocatori sono diventati troppo forti e il panorama è cambiato completamente. L’andamento è stato quello tipico dei fenomeni legati a internet, che con la sua universalizzazione dell’accesso distrugge le classi medie e polarizza la società in poche eccellenze che prendono tutta la posta e una coda lunga di dilettanti che prima o poi si stufano di perdere. Che la democrazia totale fosse strettamente legata alla tirannia era una cosa che sapevano già benissimo gli antichi greci e internet oggi restituisce le stesse dinamiche piramidali con picchi di distribuzione alti e sottilissimi, ma in maniera più astuta gli dà il nome di “opportunità”.
Nel nuovo scenario mutato, lo spettacolo dell’industria del poker si è fatto sempre più aggressivo: bisogna inserire persone nel sistema perché continui a essere profittevole, e la necessità diventa suonare la grancassa. In realtà però i guadagni milionari che si possono leggere sui database online sono dati che presi da soli non sono in grado di dire molto.
Qualche milione di euro di vinto, come dato isolato, non ci dice quanti soldi sono stati spesi per raggiungere quel risultato, né tra quante persone sia stata ripartita quella cifra. Per questi motivi i guadagni mitologici del poker sono normalmente sovrastimati. Ciò non significa che i migliori professionisti non guadagnino, e molto, ma che, per capire le reali dimensioni del business, bisogna grattare sotto la facciata, svitare qualche lampadina dalle abbaglianti insegne luminose dei casinò e vedere cosa c’è davvero scritto nei bilanci, non tanto degli operatori quanto dei giocatori.
Daniel Colman, dopo aver vinto 15 milioni (dei quali gli era per altro rimasta una quota del 10 per cento) al Big one for big drop, ha messo su la faccia cupa di quello a cui hanno appena rubato lo scooter e ha detto ai media che il poker “è un gioco oscuro”.
Molti l’hanno attaccato – “ma come vinci 15 milioni di dollari, devi essere l’uomo più felice della terra, devi essere l’esempio, colui che gli altri vogliono diventare”. Era però proprio questo che Colman non voleva essere: quel qualcuno che migliaia e migliaia di persone vorrebbero essere. Eppure quello era il suo ruolo nell’industria perché i sogni sono necessari all’economia del gioco. I top player guadagnano dalla fabbrica di speranze probabilmente tanto quanto dai tavoli, se non di più, considerate sempre le spese e la divisione delle quote.
La corsa alla libertà si è trasformata in celebrazione della libertà e buona parte della capacità di raggiungerla si è basata sulla capacità di dire che la si è già raggiunta, in quello che conosciamo meglio come il “paradosso del gangsta rapper” che fa i soldi dicendo nelle canzoni di averli fatti.
Quello che è successo, da un’altra prospettiva, è che i numeri hanno raggiunto ogni angolo del gioco e l’hanno ingabbiato riducendo gli spazi di manovra, regolarizzando e appiattendo le storie epiche del poker old school, finendo con il rendere il casinò più simile a un ufficio dove l’imperativo è seguire le regole. Con l’online sono nati i professionisti ragionati del poker, ma con l’ispessimento del field sono arrivati i rateback player, figura con cui i pro in fuga per la libertà sono stati quasi riassorbiti dall’incessante macchina aziendale. D’altronde erano stati i giocatori a portare i numeri nella casa dell’azzardo e ora i numeri hanno preso il controllo. Ironico proprio perché già contenuto nelle premesse.
Eppure c’era qualcosa di più nel poker oltre alla parabola della libertà che lotta per non rientrare nei ranghi, qualcosa di più profondo ed essenziale e sfuggente.
Il Texas hold’em arriva alla fine di questa storia e può essere disciplina “assai nobile” proprio perché si pone per sua natura all’incrocio tra il caso e l’istinto umano alla narrazione coerente. Se fosse solo questione di numeri non sarebbe una disciplina per uomini ma un affare per macchine o impiegati.
C’è un senso di pulizia, di eleganza, di leggerezza nel modo con cui il giocatore di poker convive con il concetto di probabilità, lasciando larghe parti della vita indefinite, perché ne riconosce l’irriducibile oscurità, senza per questo rinunciare a prendere su di sé l’onere della scelta.
È quello il momento in cui tutto sembra ancora possibile, compreso il fatto di essere umani, a patto di accettare il rischio dell’irreversibile e spietata sconfitta.
Per molto tempo, la medicina medievale è stata liquidata come irrilevante. Questo periodo di tempo è comunemente indicato come i “secoli bui”, alcuni storici medievalisti e ricercatori, però, stanno ora guardando a ritroso nella storia alla ricerca di nuovi antibiotici.
I batteri, come tutti gli esseri viventi, si evolvono e, a volte, sviluppano resistenza agli antibiotici rendendo necessario trovare nuovi farmaci per combatterli. Purtroppo, però, non è facile trovare nuovi principi attivi in grado di uccidere i germi patogeni senza danneggiare l’ospite, requisito fondamentale di una cura efficace. Si stima che circa 700.000 persone in tutto il mondo muoiono ogni anno per infezioni resistenti ai farmaci e le proiezioni indicano che saranno oltre 10 milioni entro il 2050 le morti causate da batteri resistenti agli antibiotici.
Un squadra di ricercatori composta da storici medievali, microbiologi, biochimici, parassitologi, farmacisti e analizzatori di dati stanno effettuando studi sulle antiche ricette utilizzate dai medici medievali per curare le infezioni e verificare se in esse vi fosse qualcosa di efficace.
A tal fine, stano compilando un database di ricette mediche medievali he permetterà di classificare tutte le sostanze utilizzate dalal farmacopea antica.
Uno studio pilota effettuato su una ricetta vecchia 1.000 anni chiamata collirio di Calvo tratta da un antico testo medico inglese. Questa terapia era usata contro un’infezione dei follicoli ciliari, provocata da batteri quali lo Staphylococcus aureus, di cui molti ceppi risultano resistenti alla meticillina. Gli stafilococchi sono responsabili anche di una varietà di altre infezioni gravi e croniche, sepsi e polmonite.
Questo collirio di Calvo contiene vino, aglio, una specie Allium (come porri o cipolla) e oxgall. La ricetta prevede che, dopo la miscelazione degli ingredienti, la mistura deve riposare in un recipiente di ottone per nove notti prima dell’uso.
Lo studio condotto u questa ricetta ha dimostrato, in vitro ed in vivo su topi, importanti effetti antistafilococco, efficace, in particolare, contro lo stafilococco aureo. Il potenziale clinico della medicina europea premoderna è poco conosciuto e studiato.
recentemente, il chimico cinese Tu Youyou è stato insignito del Premio Nobel per la medicina per la scoperta di una nuova terapia per la malaria dopo avere effettuato uno studio su oltre 2.000 ricette dell’antica letteratura cinese sulla medicina a base di erbe.
Certo, ci sono superstizioni medievali e trattamenti che non avremmo replicare oggi, quali lo spurgo corpo di un paziente di umori patogeni.
Molte ricerche in questa direzione hanno, però, dimostrato che molti dei farmaci usati nel medioevo avevano soprattutto effetto di placebo o palliativo e che, in molti casi, erano frutto soprattutto di superstizioni. Ciò non toglie che, come nel caso del collirio di Calvo, possano essere rinvenute altre terapie efficaci.
Un antico testo, ristampato continuamente fino al 1800, il “Lilium Medicinae” contiene 360 ricette e migliaia di ingredienti. Tutte queste informazioni sono state caricate in un database che ne permetterà un’analisi comparativa alla ricerca di antichi principi attivi di cui sia provata l’efficacia.
La ricerca di nuovi antibiotici è oggi fondamentale affinché le infezioni batteriche moderne, fino ad ora controllate con gli antibiotici, non tornino ad essere n flagello come in passato. Ad aiutarci in questo difficile compito potrebbe essere proprio la storia della medicina e l’utilizzo appropriato dell’antica sapienza derivata dall’esperienza di medici che non avevano gli strumenti attuali.
La ricerca procede in disparate direzioni: i biochimici cercano nuove molecole di sintesi per elaborare nuovi principi attivi, altri ricercatori fanno ricerche sulla peculiare resistenza ia batteri del drago di Komodo, il cui sangue potrebbe essere dotato di un antibiotico naturale, altri ancora si rivolgono alla tradizione e alla saggezza antica.
L’importante è che emergano risultati positivi, non importa da quale direzione arriveranno.
Diamo un’occhiata all’interno del poco conosciuto Royston Cave, una caverna sotterranea che, secondo alcuni, potrebbe essere stata usata come rifugio dai Cavalieri Templari intorno al 14° secolo, periodo in cui l’ordine si dissolse sotto i colpi della chiesa e di Filippo IV° di Francia, detto “il bello“.
Le Grotte di Royston giacciono sotto un incrocio anonimo nella città di Royston nell’Hertfordshire, Regno Unito. Le grotte risalgono ad almeno 800 anni fa e sono sospettate di essere state una specie di deposito sotterraneo per un edificio non più distinguibile.
Alle grotte si accede per un lungo e stretto corridoio, alla fine del quale si apre la caverna principale, una camera molto ampia in cui è ben visibile un intrico di disegni scolpiti nelle pareti di gesso. Le sculture raffigurano tutti i tipi di immagini religiose e militari, tra cui la crocifissione di Cristo, la Vergine Maria, Giovanni Battista, le figure della Bibbia, e numerosi cavalieri con scudi e armi.
A causa di questo simbolismo, alcuni storici ritengono che potrebbe essere stata un nascondiglio per i Cavalieri Templari. Questo ordine era composto da monaci guerrieri d’elite che operarono soprattutto durante le crociate, contribuendo in modo decisivo alla conquista e al mantenimento dei territori d’oltremare, in Tera Santa. In breve, l’ordine divenne così potente e ricco da fare ombra al re di Francia e allo stesso Papa Clemente V° che, nel 1313, decise di sciogliere l’ordine demandando a Filippo il bello di eseguire la sentenza, scatenando una feroce campagna di arresti e persecuzioni, condita da torture ed esecuzioni, che coinvolse fino ai più alti gradi della gerarchia dell’ordine del Tempio.
La suggestiva vicenda dei Templari è rimasta per secoli nell’immaginario popolare, recentemente anche rinforzata dalle tesi espresse nel romanzo di Dan Brown “il codice D Vinci“, che hanno fortemente colpito l’immaginazione del pubblico dando anche la stura a numerose teorie della cospirazione.
Il reale collegamento tra i Cavalieri Templari e questa grotta è, tuttavia, oggetto di discussione, anche se molto suggestivo.L’England Historic fa notare che “la funzione della grotta ha sollevato moltissime speculazioni […] data la completa mancanza di prove documentali per la sua esistenza.” Anche se la difficoltà di accesso e la decorazione elaborata suggerisce che avesse una funzione rituale, è piuttosto insolito che non esista documentazione relativamente ad un edificio con funzioni religiose. Questo potrebbe suggerire che il la caverna è stata tenuta segreta e che, anche nell’edificio che doveva sovrastarla, non era svolta alcuna attività ufficiale in form ufficiale.
England Historic riporta anche che, secondo alcune tradizioni locali, “un gruppo di cavalieri dell’ordine, che era ben rappresentato nella località, nella località, avrebbe usato la grotta come luogo di culto e, forse, come rifugio er evitare la persecuzione durante la repressione seguita l’editto di Papa Clemente V°.”
È anche da notare che le incisioni hanno una forte somiglianza con altre opere d’arte presenti nella Tour du Coudray, nel castello di Chinon, dove molti Templari furono confinati confinati dopo 1307.
Quale che sia la verità, questa gotta è suggestiva e rappresenta affascinante, res ancora più interessante dai retroscena relativi alla fine dei “Pauperes commilitones Christi templique Salomonis“
A Roma non ci vivo solamente, io Roma la vivo ogni giorno, da cittadina e da pendolare. Con l’affanno di chi sa cosa significa spostarsi con i mezzi pubblici di questa città che, da Capitale, si sta trasformando sempre più a periferia dell’impero.
A Roma corri e ti indigni.
Corri perché se perdi il treno sai che il prossimo vale, minimo, dai trenta ai quaranta minuti di attesa.
Corri perché, se sul tuo tragitto hai bisogno del bus numero 53 – l’autobus fantasma, così lo chiamano – e per una manciata di minuti lo perdi, serve un bel segno della croce e una buona dose di pazienza prima di vederne un altro.
Si corre a Roma, ci si indigna, anche per acquistare il biglietto alle macchinette automatiche, dove infili i tuoi due euro e, puntualmente, non funzionano e ti rubano i soldi e allora corri dagli addetti al controllo e: “Signorì, che je potemo fa, chiami il servizio clienti” ( a cui non risponde nessuno ) e riprendi la tua corsa, con due euro in meno nelle tasche. Correndo, con lo sguardo doppio tipico di ogni romano, che sta attento alla strada, agli incroci, al suv che sbuca a cento all’ora da una rampa e così attraversi una babilonia dal cielo azzurro.
Arrivi alla prima stazione della metropolitana e quello che c’è da fare sono scale e scalini, e non mi riferisco a quelle di Regina Coeli, un tempo dimostrazione di verace romanità per ogni malandrino, né a quelle che ci portano fin sopra la cupola di San Pietro. Parlo degli scalini delle scale mobili che, in due stazioni su tre, non sono funzionanti e quando finalmente raggiungi le seggiole arancioni della linea A ti accorgi di quanto questa città sia lontana dal famoso “panem et circenses”- Addio panem ma, addio pure circenses, direi – perché, oltre ai mezzi pubblici fantasma e mal funzionanti, oltre l’indignazione quotidiana, oltre le tristezze dell’ultimo Natale (ricordate l’albero comatoso di Piazza Venezia e piazza Navona vuota?) basta fare una passeggiata a Ponte Milvio.
Basta scendere alla fermata Flaminio e prendere il tram 2, per trovarsi davanti Piazza di ponte Milvio, la famosa piazza del libro di Moccia, dove sono spariti all’improvviso i tavolini, tutti. Persino le modeste e casuali sedie del bar Pallotta senza obbligo di consumazione. E’ un caso piccolo ma molto simbolico per chi in città ci vive. E’ il racconto di come si può trasformare la Capitale (in peggio) pur seguendo alla lettera le regole. Si, a Ponte Milvio sedie e tavolini sono scomparsi perché il municipio ha fatto il nuovo piano di occupabilità del suolo, e in attesa che i bar aggiornino le domande e gli uffici rispondano, invece di prorogare le vecchie autorizzazioni ha deciso di fare tabula rasa. In punta di diritto, nulla da eccepire. E’ un modo come un altro di agire, un modo super legale. Però, sicuri che migliori le cose togliendo alla città anche lo sfizio di un aperitivo seduti?
Lo stesso è stato fatto a Capocotta ( il “mare gratis” dei romani) con i chioschi ritenuti fuori norma, tutto sigillato in attesa di nuovi bandi, che però non sono mai arrivati.
Star senza panem e senza circenses è senza dubbio una novità per Roma, dove il lavoro ha stentato sempre ma la qualità della vita, il divertimento e il relax con pochi spicci, interclassista e casuale, non è mai mancato.
Se ne va Sky, chiude Almaviva, scappano quelli del progetto Torri, tornano le voci di un trasloco Mediaset dalla storica sede del Palatino, è in dubbio la costruzione del nuovo stadio. Cose che capitano all’improvviso, tutte insieme, senza un minimo comune denominatore, ma che trasmettono ai romani lo stesso messaggio: Roma sta perdendo gli ultimi brandelli di fascino e prestigio.
Quel che mi domando è se l’invocazione delle regole in questa città si sta trasformando nell’ideologia dell’immobilismo, del non fare per non sbagliare.
Con questa domanda continuo il mio tour sui mezzi ATAC, che per colpa di manager o semplici autisti, hanno contribuito con i loro comportamenti a diffondere il credo che “ATAC” non sia un acronimo, ma la prima parte dell’espressione tutta romana “attaccatevearcazzo”. E sono tanti i retroscena da raccontare e i luoghi in cui il degrado e l’immobilismo fanno da padroni, così tanti che bisogna scegliere un luogo simbolico da dove cominciare:
Via Libero Leonardi-Cinecittà Est, ad esempio. Due fermate di bus oltre il capolinea della metro. Estrema periferia. Cemento popolare e borghesia impoverita, parcheggi arroventati, tre parchetti di erbacce secche e panchine arrugginite.
I figli della periferia corrono tra aiuole sterrate e altalene sbilenche. Tra cestini stracolmi e cespugli pieni di rifiuti.
Nessun privilegio, tutta Roma è così.
E’ così la stazione Termini, che di sera si trasforma in un dormitorio a cielo aperto, una città dentro la città. Un doppio volto. Se di giorno è il crocevia di viaggiatori e pendolari, al tramonto attraversare Via Marsala, Via Giolitti, Piazza dei Cinquecento, Via Amendola vuol dire essere catapultati in una realtà da terzo mondo.
Io continuo a correre, a vivere e amare questa città, a cui cerco di dare un’immagine fortemente rappresentativa ogni volta che mi trovo davanti a situazioni e disagi quotidiani. Provo con il Colosseo, così da comprendere in un baleno tutta la storia di Roma imperiale, potenza e crudeltà, magnificenza e sangue. Con la Cupola di San Pietro, che con le sue curve armoniose ci racconta la Roma papale e rinascimentale, arte, solennità, spiritualità e opulenza. Ma nessuna di queste immagini riesce ad annodare in un attimo i fili sparsi e spezzati di questo preciso periodo.
A mio avviso, la torre trasparente delle Smart che si erge sul bordo del Raccordo ha la giusta potenza simbolica e imbattibile per la Roma di oggi. Ogni volta che passo davanti a quella vetrina verticale, a quei sette piani di cristallo dove come giocattoli stanno esposte le celebri micro vetture, mi sembra di sentire il soffio dei nostri giorni.
Vanità e leggerezza, superbia e tecnologia, infantilismo e edonismo, ansia e paralisi, ricchezza e dure scadenze rateali, speranza e depressione: tutto si concentra in quella torre di Babele che sfida l’azzurro del cielo.
E’ il monumento della nostra epoca ambiziosa e fragile, che vorrebbe andare lontano ma resta bloccato dietro un vetro.