venerdì, Gennaio 31, 2025
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Forse scoperto il gemello binario perduto del Sole

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Sappiamo che nella nostra galassia è abbastanza normale che una stelle nasca con una gemella o addirittura con due. Più inusuale è che una stella, come sembra essere il caso del nostro Sole, nasca da sola e viva una sua vita solitaria. Adesso sembra che gli astronomi abbiano individuato una stella quasi gemella del nostro Sole, non solo quasi uguale del punto di vista fisico ma, probabilmente, nata dalla stessa nebulosa che ha dato origine al nostro Sole. Una compagna binaria della nostra stella, insomma.

Si tratta di un sole situato a circa 184 anni luce di distanza da noi, si chiama HD 186302 ed è, quasi certamente, un fratello perduto da tempo della nostra stella.

La maggior parte delle stelle nascono in gruppi che possono essere anche piuttosto numerosi, in quelli che sono conosciuti come vivai stellari, delle enormi nubi di gas e polvere che, lentamente collassano in gruppi di condensazione, formando i primi stadi di vita delle stelle. Si pensa che la vita del Sole sia iniziata in questo modo, 4,57 miliardi di anni fa.

Alla fine di questo processo di condensazione all’interno di queste vere e proprie nursery, le stelle si spargono per la galassia, ma la maggior parte di esse ha almeno una compagna. Si stima che fino all’85 per cento delle stelle potrebbero esistere come coppie binarie, ma sono noti anche sistemi tripli o quadrupli; inoltre, più del 50 percento di tutte le stelle simili al Sole vivono in coppie binarie.

Il nostro Sole è una stella solitaria, una cosa non del tutto insolito ma abbastanza rara da indurre gli astronomi e gli astrofisici a chiedersi come mai. Da studi effettuati sono emerse alcune prove che suggeriscono che il nostro Sole un tempo avesse un gemello binario. Ricerche recenti suggeriscono che lmaggior parte, se non tutte, le stelle nascono con almeno un gemello binario.

Siamo ormai abbastanza certi che il nostro sistema solare, se non unico, è certamente un luogo abbastanza insolito nella galassia: la posizione dei pianeti sembra  anomala rispetto ad altri sistemi, e non c’è quello che sembra essere il pianeta più comune nella galassia, la super-Terra (In astronomia si definisce super Terra un pianeta extrasolare di tipo roccioso che abbia una massa compresa tra 1,9–5 e 10 masse terrestri).

Quello che sappiamo è che, da qualche parte, esistono sicuramente dei fratelli del Sole. Sono davvero difficili da individuare, dato che in quasi 5 miliardi di anni si possono essere allontanati moltissimo e la galassia è piena di stelle.

Finora, erano stati identificati solo alcuni possibili fratelli del nostro Sole. Ma un team di ricercatori dell’Istituto di Astrofisica e Ciências do Espaço (IA) in Portogallo ha effettuato uno studio prendendo in considerazione una gamma di dati molto più ampia rispetto agli studi effettuati in precedenza: una campione di stelle molto più ampio, la composizione chimica considerando un maggior numero di elementi e dati astrometrici più precisi, tutto questo grazie a Gaia.

solar twin hd186302

Eccolo, proprio lì nel mezzo! Non è bello nostro zio? (Portale CDS / Simbad)

E hanno trovato HD186302, secondo loro non solo un fratello stellare, ma uno proprio “speciale”: è incredibilmente simile al Sole.

HD186302 è una stella della sequenza principale di tipo G, appena più piccola del Sole ma che esibisce all’incirca la stessa temperatura e luminosità di superficie. Ha anche composizione chimica estremamente simile a quella del nostro Sole ed ha circa la stessa età, più o meno 4,5 miliardi di anni.

HD186302 è molto più simile al nostro Sole di della stella di tipo F HD162826, identificata come una sorella stellare nel 2014.

In realtà, non sappiamo ancora dove sia nato il Sole, quindi ogni membro della sua famiglia cosmica identificato è un altro indizio che ci aiuta a svelare la storia del nostro Sistema Solare. “Poiché non ci sono molte informazioni sul passato del Sole, studiare queste stelle può aiutarci a capire dove si trovava, originariamente, nella Galassia e in quali condizioni si è formato“, ha dichiarato l’astronomo Vardan Adibekyan della IA.

E c’è di più. L’unico posto nell’Universo in cui sappiamo con certezza che si è formata la vita è il nostro sistema solare. Ciò, dal nostro punto di vista, significa che le dimensioni, l’età, la temperatura, la luminosità e la composizione chimica del Sole sono compatibili con la vita così come la conosciamo, quindi sembra plausibile che i pianeti in orbita attorno ad altre stelle con le stesse qualità, i fratelli stellari, possano aver sviluppato la vita più probabilmente che altri.

E un gemello stellare rappresenta un’opzione ancora più promettente.

Alcuni calcoli teorici dimostrano che esiste una probabilità non trascurabile che la vita possa essersi diffusa dalla Terra ad altri pianeti o sistemi esoplanetari, durante l’ultima fase del periodo di bombardamento pesante del nostro pianeta“, ha detto Adibekyan.

Se siamo fortunati, e il nostro candidato fratello ha un pianeta, e il pianeta è un tipo roccioso, nella zona abitabile, e infine se questo pianeta è stato ‘contaminato’ dai semi della vita dalla Terra, allora abbiamo quello che si potrebbe definire il candidato perfetto: una Terra 2.0, in orbita attorno ad un Sole 2.0.

Ovviamente ci sono un sacco di “se” dentro questa ipotesi… Ma, per quanto minima sia la possibilità, tutte queste cose potrebbero essere plausibilmente avvenute. Gli astronomi della IA stanno ora pianificando di esaminare con la massima attenzione HD186302, per tentare di identificare eventuali pianeti in orbita intorno ad esso.

Resta anche da capire cosa sia successo, miliardi di anni fa, per rompere il rapporto binario tra il Sole ed il suo gemello.

Fonte: Astronomy & Astrophysics

PTScientists e Team Indus, due dei team che parteciparono al Google Lunar X Prize, lanceranno un lander sulla Luna a fine 2019

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Due ex concorrenti del Google Lunar X Prize continuano a lavorare sui loro landers lunari commerciali, che contano di poter lanciare alla fine del 2019.

Nel corso di due presentazioni separate svoltesi all’International Moon Village Workshop & Symposium che si è tenuto il 5 novembre a Los Angeles, i rappresentanti di PTScientists e Team Indus hanno affermato che stanno aggiornando le versioni dei landers originariamente concepite per competere al premio bandito da Google e ormai scaduto.

Il Team Indus, uno dei finalisti del concorso terminato senza vincitore, sostiene di aver terminato il suo lander e di star lavorando lavorando ad una versione molto più grande. Quel lander, originariamente progettato per il Google Lunar X Prize, è in grado di posizionare 50 chilogrammi sulla superficie della luna.

Secondo Rahul Narayan, fondatore del Team Indus, la capacità di carico attuale, progettata sulle indicazioni per partecipare al concorso di Google, è probabilmente troppo piccola per la maggior parte degli scopi commerciali, per cui l’azienda sta ora lavorando su un lander molto più grande, chiamato Z-02, in grado di posizionare 500 chilogrammi sulla superficie lunare. Questo nuovo lander, sarebbe compatibile con vari veicoli di lancio, compresi quelli gestiti da Arianespace, SpaceX e United Launch Alliance.

PTScientists progetta di atterrare vicino al sito di atterraggio dell’Apollo 17 per la sua prima missione. – Credit: PTScientists

Narayan non ha fornito tempistiche per la costruzione o il lancio del nuovo lander ma ha precisato che Team Indus conta ancora di poter lanciare il primo lander, dopo aver apportato delle modifiche per aumentare la sua capacità di carico utile da 60 a 70 chilogrammi.

Stiamo modificando il nostro progetto secondo nuove modalità perché passeremo dall’essere operatori ad essere fornitori o partner di altre aziende interessate a svolgere determinate missioni sulla Luna.“, ha affermato. “Ci vediamo come un’azienda che fornirà la tecnologia, il design, otterrà le qualifiche e fornirà servizi a clienti internazionali“.

Narayan ha anche auspicato che Team Indus possa trovare un modo di partecipare al programma CLS (Commercial Lunar Payload Services) della NASA, nel quale l’agenzia spaziale americana acquisterà spazio per  carichi utili su lander commerciali. 

Il programma CLPS richiede ai contraenti primari e alle società che costruiscono “veicoli per il trasporto spaziale” di operare negli Stati Uniti, tuttavia, le aziende straniere possono collaborare con team guidati da aziende degli Stati Uniti, come ha fatto la giapponese Ispace per una proposta CLPS guidata da Draper. Narayan ha riferito che Team Indus è socio di una società sul CLPS, ma non ha potuto rivelare dettagli su quel progetto.

intanto, PTScientists, una squadra tedesca che non è a qualificarsi come finalista dell’X Prize Foundation sta ancora lavorando al suo primo lander, di cui ha in programma il lancio per la fine del 2019.

Quest’anno la società ha avuto un notevole sviluppo, ha riferito Torsten Kriening, responsabile commerciale di PTScientists. La compagnia, inizialmente era composta di una decina di persone ma è arrivata ora ad avere 65 dipendenti.

Questa prima missione, che, come Kriening ha riconosciuto, potrebbe slittare al 2020, viaggerà verso la regione della luna Taurus-Littrownelle vicinanze del sito di atterraggio dell’Apollo 17. Il lander trasporterà due rover che esploreranno la regione, inoltre è previsto che vadano a dare un’occhiata al rover lunare abbandonato alla fine della missione Apollo 17, per vedere in quali condizioni si trova il veicolo dopo quasi 50 anni.

PTScientists prevede di svolgere altre missioni, circa ogni 18 – 24 mesi. La seconda missione si svolgerà al polo sud lunare, seguiranno poi altre missioni scientifiche relative a esperimenti di utilizzo delle risorse in situ.

PTScientists è supportato da numerosi partner “blue chip“, tra cui Audi, Vodaphone e Red Bull. “Non possiamo farlo da soli, siamo una piccola azienda“, ha spiegato Kriening.

I rover lunari sono veicoli “Audi Lunar Quattro” e Audi ha già utilizzato i rover nella pubblicità. “Avremo l’Audi più veloce sulla luna con una velocità massima di tre chilometri e mezzo all’ora“.

Un sistema stellare a forma di serpente, potrebbe generare la prima emissione di raggi gamma osservabile nella via Lattea

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Per la prima volta, gli astronomi hanno individuato nella nostra galassia un sistema stellare che potrebbe produrre un’emissione di raggi gamma, uno degli eventi più brillanti e più energetici che si verificano nell’universo.

Il sistema stellare è catalogato come 2XMM J160050.7-514245, ma i ricercatori lo hanno soprannominato “Apep” il nome della divinità egiziana a forma di serpente  che presiede al caos. Un nome appropriato per questo sistema stellare circondato da lunghe girandole di materia infuocata proiettate gettate nello spazio, come mostrato nell’immagine di copertina ripresa dal Very Large Telescope.

Quelle girandole provengono da una coppia di stelle binarie “Wolf-Rayet” in orbita attorno al centro del sistema. (Sono abbastanza vicine l’una all’altra da sembrare una singola luce luminosa al di sotto della terza stella più debole e più lontana del sistema, anch’essa mostrata nell’immagine.)

Le stelle di Wolf-Rayet sono dei soli ultramassivi che hanno raggiunto la fine della loro vita  e bruciano tutto il loro idrogeno. Quindi fondono elementi più pesanti, ruotano rapidamente ed espellono materiale nello spazio. Sono così luminosi che gli astronomi possono rilevare la loro presenza anche quando risiedono in altre galassie. E quando i loro nuclei collassano, creando le supernove, gli astronomi ritengono che possano generare le potenti esplosioni di raggi gamma a volte rilevate in arrivo dallo spazio profondo.

In un articolo pubblicato sulla rivista Nature Astronomy, i ricercatori riportano che Apep dovrebbe essere un buon candidato per generare un’esplosione di questo tipo, rendendolo il primo sistema stellare di questo genere scoperto nella Via Lattea.

Quelle lunghe girandole che partono dalla coppia di stelle, scrivono i ricercatori, derivano da venti stellari che si allontanano dal sistema binario a circa 3.400 km/s.

Le stelle Wolf-Rayet devono ruotare in modo straordinariamente veloce per espellere tutto quel materiale nello spazio, quasi abbastanza velocemente da potersi liberare della reciproca attrazione, spega lo studio. Non è chiaro esattamente cosa porti le stelle di questo tipo a girare così velocemente, ma quella velocità giocherà un ruolo chiave nella produzione della raffica di raggi gamma quando alla fine si trasformeranno in una supernova.

L’esplosione che trasformerà le due stelle in supernova potrebbe accadere abbastanza presto, in termini cosmici. Le stelle di Wolf-Rayet possono resistere in questo stato di rotazione veloce per poche centinaia di migliaia di anni. Solo alcune di loro hanno le proprietà necessarie per produrre esplosioni di raggi gamma, il che è, probabilmente, il motivo per cui queste raffiche sono così rare.

I misteriosi Tjipetir

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di Oliver Melis

Cosa sono questi strani “cuscinetti” di gomma e che cosa significa la parola “Tjipetir”?
I primi ritrovamenti delle strane piastre di gomma risalgono al 2012, quando una donna inglese, Tracey Williams, durante una passeggiata con il suo cane lungo una spiaggia di Newquay, in Cornovaglia, trovò un blocco nero portato a riva dalle onde.

Dopo alcune settimane, Tracey trovò un altro blocco su un’altra spiaggia e, ormai incuriosita dall’ennesimo strano ritrovamento, decise di indagare sulla natura e l’origine dei misteriosi blocchi.
La misteriosa sostanza non era gomma ma un materiale simile, detto guttaperca, un tempo usata per ricoprire i cavi sottomarini, per realizzare palline da golf, cornici, giocattoli e per altri impieghi industriali.

Tracey decise di aprire una pagina Facebook dedicata al misterioso ritrovamento e chiese se anche altri avessero trovato simili oggetti in riva alle spiagge. Le risposte non si fecero attendere, altri avevano ritrovato gli strani blocchetti con la scritta TJIPETIR. I ritrovamenti erano stati fatti sulle coste della Gran Bretagna, della Francia, Olanda, Germania, Norvegia, Svezia e Danimarca. Spesso, insieme ai blocchi si trovavano anche rotoli di gomma.

Come sempre accade quando ci troviamo davanti a eventi apparentemente inspiegabili, iniziarono a fioccare le prime ipotesi arrivando a chiamare in causa niente meno che il Titanic come luogo di provenienza degli strani blocchi.

Fu il quotidiano francese Le Figaro che avviò le indagini arrivando a scoprire che nei documenti di carico del famoso transatlantico affondato nel Nord Atlantico c’erano effettivamente scorte di guttaperca e gomma.
François Galgani, ricercatore dell’IFREMER, la compagnia francese che aveva contribuito al ritrovamento del Titanic,  dichiarò che non si poteva scartare l’ipotesi in quanto i blocchi di guttaperca si consumavano presto se esposti alla luce, la loro antichità suggeriva che forse erano rimasti nascosti a lungo, magari dentro la stiva di una nave. Il Titanic è sul fondo dell’oceano da oltre un secolo ormai e si sta disfacendo e questo potrebbe essere il motivo del rilascio dei blocchi.

La Williams fu contattata da due persone, che volevano conservare l’anonimato e che indicarono esattamente l’origine dei blocchi. Erano stati liberati nel corso delle operazioni di recupero del carico di una nave giapponese, la Miyazaki Maru, affondata durante la prima guerra mondiale.

Nel maggio del 1917 il cargo viaggiava a 240 Km dalle isole Scilly, a sud ovest dell’Inghilterra, quando un sottomarino tedesco, l’U-88, capitanato da Walther Schwieger, uno degli assi della marina tedesca, lo colpì con un siluro. Solo due anni prima, Schwieger aveva affondato il Lusitania, una nave da crociera diretta a New York, sulla quale avevano perso la vita 1100 persone.
Quando la Miyazaki colò a picco, portò con sé otto vittime e un carico che comprendeva anche i blocchi di guttaperca.

I lavori di recupero del 2008, probabilmente liberarono la gomma e i blocchi iniziarono a vagare sulle acque dell’Atlantico.

Anche Alison Kentuck, responsabile del Registro dei naufragi del governo britannico, ritiene che la nave giapponese sia la responsabile del rilascio dei blocchi, anche se non c’è stata mai una effettiva conferma.

Un oceanografo, Curtis Ebbesmeyer, specializzato nel recupero di relitti marini, afferma che i blocchi TJIPETIR comparirebbero sulle spiagge da almeno un secolo. Un pescatore avrebbe raccontato di averne trovato uno circa 30 anni fa e di averlo utilizzato come asse su cui pulire il pesce. La guttaperca era una sostanza spesso presente nei carichi delle navi e, dunque, non era strano che diventasse un relitto tanto diffuso, ma forse non abbastanza da generare quasi una leggenda.

Fonte: Cicap

Cospirazionisti scatenati sulle cause degli incendi in California

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Come stanno mostrandoci i media, la California, in seguito ad una stagioner particolarmente secca, sta venendo colpita da grandi incendi che, oltre a distruggere il patrimonio boschivo dello stato, hanno provocato, finora, 63 morti. Senza alcun rispetto per le vite perdute, per il patrimonio verde (e non solo) finito in cenere e per l’opera instancabile di chi cerca di spegnere gli incendi, i soliti teorici della cospirazione stanno alimentando in rete polemiche a non finire adombrando cause di ogni genere sull’origine di questi incendi.

Queste ipotesi di complotto vanno dal bizzarro al ridicolo. In proposito, il giornale online californiano Sacramento Bee ha raccolto alcune delle teorie più curiose, spiegandole al pubblico. Queste ipotesi vengono diffuse attraverso siti web afferenti a gruppi complottisti e condivise sui social media, quindi per non fare loro pubblicità, non citeremo le fonti originali di queste ipotesi.

Una delle teorie sostiene che gli incendi siano provocati da raggi laser, non è chiaro se gestiti da alieni, terroristi o dallo stesso governo degli Stati Uniti (qualcuno adombra l’ipotesi che possa essere frutto di un accordo globale tra tutti e tre i soggetti indicati). A colpire sarebbero aerei ultramoderni o astronavi.

Un’altra ipotesi ascrive la paternità degli incendi al fantomatico gruppo degli illuminati che, a loro volta, sarebbero in grado di ricorrere ai laser per dare fuoco ai boschi mentre un terzo gruppo di cospirazionisti punto il dito contro i cartelli della droga che sarebbero coinvolti in qualche modo.

Secondo il popolare giornale online Cracked “La maggior parte delle prove riguardanti l’ipotesi dell’uso di laser per provocare gli incendi vengono illustrate tramite alcuni lunghi video in cui alcune cose sul terreno sembrano completamente bruciate mentre altre cose appaiono un po’ meno bruciate oppure integre…”.

Il magazine web Raw Story ha anche raccolto una serie di tweet in cui si adombravano ulteriori ipotesi complottiste: un utente del social ha notato alcune “irregolarità” su come apparivano certe case dopo essere bruciate mentre qualcun altro ha affermato che gli incendi sono curiosamente avvenuti proprio lungo l’area interessata dal percorso del sistema ferroviario ad alta velocità della California in via di realizzazione.

Il sito Snopes ha svolto un discreto lavoro di debunking su quest’ultima affermazione. “Il primo e probabilmente più significativo fatto è che la mappa che pretende di mostrare l’estensione degli incendi è in realtà una mappa di avvertimenti” bandiera rossa “emessa del Cal Fire l’11 novembre 2018,” scrivono “un avviso con una bandiera rossa” viene emesso per eventi meteorologici che possono comportare eventi di fuoco estremo che potrebebro verificarsi nel giro di 24 ore e non rappresentano aree che hanno subito incendi,” (non ancora, almeno – Ndr).

Snopes ha anche notato che le zone indicate con la bandiera rossa non sono affatto allineate con il progetto ferroviario dell’alta velocità. Insomma, nessuna cospirazione ferroviaria in California.

Ci sono molte spiegazioni scientifiche sul motivo per cui vi sono così tante persone disposte a credere nelle teorie complottiste: una delle ragioni sta nel fatto che sono in molto a fraintendere le probabilità che un evento si possa verificare o meno e preferiscono credere che vi sia una spiegazione cospirativa ad eventi improbabili mentre, in altri casi, si vuole semplicemente apparire abbastanza furbi da non credere alle cose che dice il governo.

Non tutta l’acqua della Terra arriva da comete ed asteroidi

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Secondo l’ipotesi più diffusa, l’acqua presente sul nostro pianeta vi è stata portata da comete e asteroidi ma un nuovo studio suggerisce che non tutta l’acqua della Terra è arrivata in questo modo.

L’idrogeno è l’elemento più abbondante nell’universo ed è proprio l’idrogeno che viene indiduato da questa nuova ricerca come come principale responsabile della presenza di acqua sul nostro pianeta. Si tratta di un la voro condotto da Peter Buseck, professore presso la Scuola di esplorazione spaziale e terrestre e School of Molecular Sciences presso l’Arizona State University.

Da quanto risulta agli autori di questo lavoro, l’idrogeno presente sulla Terra arriva, almeno in parte, dalla nebulosa solare, una nube di gas e polvere rimasta dopo la formazione del Sole.

Prima di approfondire i dettagli in questo nuovo studio, è utile capire la teoria che potrebbe andare a sostituire.

L’acqua della Terra – ipotesi canonica

Per molto tempo, la maggior parte degli scienziati ha ritenuto valida l’ipotesi “acqua-da-comete-e-asteroidi” sull’origine dell’acqua qui sulla Terra. Tutto inizia con la formazione del Sole.

Quando il Sole si formò da una nuvola molecolare, assorbì gran parte del materiale rpesente in quella nuvola ma il materiale avanzato basto per permettere la formazione di pianeti, lune, asteroidi e comete. Appena le reazioni nucleari accesero la fornace del Sole, da questo si generò un potente vento solare che inviò moltissimo idrogeno dai suoi strati esterni oltre il punto in cui i pianeti rocciosi interni, Mercurio, Venere, Terra e Marte, si trovano ancora oggi.

Quell’area del sistema solare che si trova oltre l’orbita di Marte è il regno dei giganti gassosi e, cosa più importante, delle comete e degli asteroidi.

Le comete sono corpi solidi composti di roccia e ghiaccio e si ritiene che abbiano raccolto significative quantità dell’idrogeno inviato laggiù dal Sole all’inizio della sua vita; lo stesso vale per gli asteroidi, anche se in misura minore. Insomma, il sistema solare esterno divenne una riserva di idrogeno.

Quando la Terra si formò, aveva l’aspetto di una grande palla di magma fuso e la sua superficie veniva mantenuta in quello stato dal continuo rimescolamento dovuto alle ripetute collisioni con asteroidi, come te ed altri corpi celesti. Fin qui, tutto bene, dato che il primo sistema solare era un posto molto più caotico di adesso.

In questa prima fase dell’esistenza della Terra, l’acqua e l’idrogeno liberati negli impatti dei corpi celesti con il nostro pianeta venivano espulsi nello spazio ma, man mano che la Terra iniziò a raffreddarsi, l’acqua fuorisucita dalle collisioni cominciò a condensarsi sul nostro pianeta e quindi ad accumularsi.

La prova di ciò sta nel rapporto isotopico. Il rapporto tra il deuterio dell’isotopo pesante dell’idrogeno e l’idrogeno normale è una firma chimica.

Due corpi idrici con lo stesso rapporto devono avere la stessa origine. E l’acqua degli oceani della Terra ha lo stesso rapporto isotopico dell’acqua degli asteroidi. Questa è una versione molto semplificata della teoria più ampiamente accettata su come l’acqua è arrivata sulla Terra.

L’acqua della Terra: problmei con l’ipotesi canonica

Gli scienziati, però, da tempo non trovavano del tutto soddisfacente questa teoria, infatti l’ipotesi “acqua dalle comete” era in discussione già da un po’. Nel 2014 alcuni scienziati hanno studiato il problema osservando meteoriti di diverse età. (I meteoriti sono asteroidi che hanno colpito la Terra.) Per prima cosa hanno osservato quelli che sono noti come “meteoriti di condrite carbonacei“.

Sono i più vecchi che conosciamo e si sono formati all’incirca nello stesso periodo del Sole. Sono i mattoni primari della Terra.

Successivamente, hanno studiato meteoriti che pensiamo provenissero dal grande asteroide Vesta. Vesta riteniamo che si fosse formato nella stessa regione della Terra, circa 14 milioni di anni dopo la nascita del sistema solare. Secondo questo studio del 2014, le antiche meteoriti corrispondevano alla composizione del Sistema Solare primordiale prevista dai modelli e avevano molta acqua al loro interno, ragione per cui erano considerate come la principale origine dell’acqua della Terra. Le misurazioni effettuate in questo studio del 2014 hanno dimostrato che questi meteoriti hanno la stessa composizione chimica delle condriti e delle rocce carboniche presenti sulla Terra, portando alla conclusione che le condriti carboniose siano state la più comune fonte di acqua.

Il team che effettuò questo studio decise che gran parte della nostra acqua abbia avuto origine da impatti.

Il che ci porta a questo nuovo studio, che rafforza le conclusioni dello studio del 2014.

L’acqua della Terra: parliamo di idrogeno

Gli autori di questo nuovo studio dicono che gli oceani e il loro rapporto isotopico potrebbero non raccontare l’intera storia.

Secondo Steven Desch, professore di astrofisica alla School of Earth and Space Exploration presso l’Arizona State University di Tempe, “quando misuriamo il rapporto [deuterio-idrogeno] nell’acqua dell’oceano e vediamo che è abbastanza vicino a quello che rileviamo negli asteroidi, è facile credere che tutta quell’acqua arrivi solo dagli asteroidi“. Alla fine si tratta di una prova abbastanza convincente.

Desch e gli altri autori di questo nuovo studio partono da ricerche pubblicate nel 2015 dai quali si deduce che che gli oceani della Terra potrebbero non essere rappresentativi dell’acqua primordiale della Terra. Gli oceani potrebbero aver pescato tra la superficie del pianeta e un serbatoio d’acqua situato nelle profondità della Terra. Questo potrebbe cambiare le carte in tavola perchè l’acqua conservata nelle profondità della Terra potrebbe rappresentare almeno parte della vera acqua primordiale della Terra.

E quest’acqua potrebbe provenire direttamente dalla primordiale nebulosa solare, piuttosto che dagli impatti di comete e asteroidi.

Lo studio sviluppa un nuovo modello teorico della formazione della Terra per spiegare queste differenze tra l’idrogeno negli oceani della Terra e quello confinato nel mantello. Questo nuovo modello mostra grandi asteroidi pieni d’acqua condensatisi in pianeti miliardi di anni fa dalla nebulosa solare. Questi embrioni planetari subirono moltissime collisioni in sequenza che li fecero crescere rapidamente.

Successivamente, una collisione abbastanza potente sciolse la superficie del più grande embrione in un oceano di magma. Questo embrione più grande era la Terra. Questo grande embrione aveva abbastanza gravità da trattenere un’atmosfera, e la formò attirando i gas, compreso l’idrogeno, il più abbondante, dalla nebulosa solare. L’idrogeno nella nebulosa solare contiene meno deuterio ed è più leggero dell’idrogeno asteroidale. A quel punto, questo idrogeno catturato dalla nebulosa solare si sciolse nel ferro fuso dell’oceano magmatico della Terra.

A causa di un processo noto come frazionamento isotopico, l’idrogeno sprofondò verso il centro della Terra dove fu attratto dal ferro. Il deuterio, l’isotopo dell’idrogeno, rimase intrappolato nel magma, che, lentamente, si raffreddò formando il mantello terrestre. Nel frattempo proseguivano gli impatti con le rocce spaziali che contnuarono a portare più acqua e ulteriore massa sulla Terra, fino a raggiungere la massa attuale.

Il punto chiave di questo nuovo modello è che l’idrogeno nel nucleo della Terra è diverso dall’idrogeno nel mantello e negli oceani. L’acqua presente nelle profondità della Terra ha molto meno deuterio. Ma cosa significa tutto questo?

Il nuovo modello ha permesso agli autori di stimare la quantità di acqua proveniente dagli impatti degli asteroidi mentre la Terra cresceva e si evolveva, rispetto a quanta proveniva direttamente dalla nebulosa solare nel momento della formazione della Terra.

La loro conclusione?

“Per ogni 100 molecole di acqua della Terra ce ne sono una o due provenienti dalla nebulosa solare”, ha spiegato Jun Wu, ricercatore alla School of Molecular Sciences e School of Earth and Space Exploration presso l’Arizona State University e co-autore principale di lo studio.

Conclusione: si tratta di qualcosa di più della semplice acqua della terra

Questo studio è una nuova prospettiva sulla formazione planetaria, sullo sviluppo e su cosa succede nei primi anni di vita di un pianeta giovane.

Questo modello suggerisce che la formazione di acqua, probabilmente, si verificherebbe su qualsiasi esopianeta roccioso sufficientemente grande anche nei sistemi extrasolari: un’idea molto eccitante“.

In precedenza, pensavamo che gli unici pianeti in grado di ospitare la vita avrebbero dovuto trovarsi in un sistema stellare ricco di asteroidi e comete con acqua. Ma ora sappiamo che potrebbe non essere necessario. Il nuovo studio suggerisce che alcuni esopianeti abitabili potrebbero aver preso acqua dalla nebulosa solare nel loro sistema. La terra nasconde la maggior parte della sua acqua al suo interno. Secondo i calcoli, la Terra custodisce all’incirca due oceani nel mantello e 4 o 5 nel nucleo. Sugli esopianeti simili alla Terra potrebbe essere accaduto lo stesso.

Nel nuovo modello c’è, però, un aspetto da prendere con le molle e riguarda il frazionamento dell’idrogeno.

Non è ben chiaro come il rapporto deuterio-idrogeno cambi quando l’elemento si dissolve nel ferro, che è al centro di questo nuovo modello.

Nel complesso, il nuovo studio si adatta bene ad altre ricerche sull’acqua della Terra ma, come spesso accade, sarà necessario testare le conclusioni di questo studio attraverso lo sviluppo di un nuovo modello, ancora più rigoroso.

Fonte: Universe Today

Le prossime missioni lunari serviranno anche a testare le tecnologie per andare su Marte

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Con la nuova direttiva che l’amministrazione Trump ha impartito alla NASA per tornare sulla Luna e stabilirvi una presenza permanente, i progetti elaborati durante l’era Obama per l’esplorazione umana di Marte hanno necessariamente subito un rallentamento. La NASA ha quindi elaborato un nuovo progetto che salva parzialmente quanto già stabilito per le missioni su Marte, convertendo l’idea del Deep Space Gateway nel Lunar Gateway che sarà una base spaziale in orbita cislunare che funzionerà come piattaforma operativa per l’esplorazione della superficie lunare in attesa di costruire sul nostro satellite una base permanente.

Il Lunar Gateway potrà poi essere facilmente ampliato per divenire il Deep Space Gateway che servirà da base di lancio per le missioni destinate su Marte.

Molti sostenitori delle missioni umane su Marte avevano inizialmente lanciato un grido d’allarme in relazione alle spese necessarie per il ritorno umano sulla Luna, temendo che l’investire cifre significative sul ritorno alla Luna potesse ritardare l’avvio delle missioni esplorative umane del pianeta rosso.

Con l’attuale SPD-1 diramata dall’amministrazione Trump, la NASA si sta impegnando nel portare sul nostro satellite naturale una presenza stabile e, potenzialmente, a lungo termine. L’agenzia ha avviato la progettazione di lander lunari di nuovo genere, compresi i nuovi, grandi lander necessari per le missioni umane sulla superficie lunare previste entro la fine degli anni ’20, oltre alla realizzazione della struttura Lunar Gateway che opererà in orbita cislunare.

Durante una tavola rotonda tenutasi il 13 novembre al National Press Club per discutere della possibilità di portare esseri umani su Marte entro i prossimi 25 anni, sono stati molti coloro che si sono espressi a favore del nuovo programma lunare come palestra per sviluppare e testare le tecnologie necessarie a portare in sicurezza gli astronauti su Marte.

Ero davvero scettico, ma il progetto presentato dalla NASA contiene sono significativi crossover“, ha detto Rick Davis, assistente al coordinamento nella Direzione della missione scientifica della NASA per la scienza e l’esplorazione. Secondo lui, le missioni lunari potranno affrontare alcune delle sfide tecnologiche che bisogna superare per andare su Marte, dai sistemi di supporto vitale alla costruzione degli habitat.

Il know how e l’esperienza che acquisiremo durante la campagna lunare potranno portarci su Marte molto prima di quanto la maggior parte della gente probabilmente pensa“, ha detto.

Oggi è molto più chiaro,” ha spiegato successivamente, ” di quali tecnologie avremo bisogno per andare su Marte, e se pure andare sulla Luna non è un requisito necessario per effettuare il balzo verso Marte, quello che impareremo durante le missioni lunari ci permetterà di minimizzare i rischi di una missione complessa come il primo viaggio umano su Marte.

Davis ha poi citato, a titolo di esempio, lo sviluppo dei rover, spiegando che, per una serie di ragioni, un rover lunare e un rover marziano non potranno essere identici ma saranno, però, simili al 70 o all’80 percento, quindi l’esperienza compiuta sulla Luna ci aiuterà molto in questo senso. Ovviamente, i sistemi di entrata in orbita, discesa nelle rispettive atmosfere e di atterraggio necessari per le missioni su Marte non potranno essere efficacemente testati date le differenze in termini di gravità e di densità atmosferica.

La luna è l’unico luogo nello spazio profondo, oltre le fasce di Van Allen, dove possiamo fare pratica” ha commentato James Garvin, capo scienziato presso il Goddard Space Flight Center della NASA, durante il panel. “La Luna ci offre quel terreno di prova e l’esperienza di addestramento necessari per mettere a punto i sistemi in modo che lavorino correttamente con la ragionevole certezza che restino efficienti durante i tre anni necessari ad una missione su Marte.”

Garvin ha illustrato un altro esempio di come le missioni lunari potranno supportare l’esplorazione successiva di Marte sostenendo che, se risorse come il ghiaccio d’acqua possono essere estratte e utilizzate sulla luna, sarà ancora più facile farlo su Marte. “Penso che le missioni sulla Luna saranno strettamente connesse con quelle destinate su Marte“.

Davis ha, inoltre, sottolineato la necessità di un programma “integrato” che tenga conto delle esigenze delle successive missioni su Marte durante la pianificazione delle missioni lunari. “Riteniamo che, dalle missioni lunari,  sarà possibile ottenere importanti ma tutto dovrà essere pianificato e gestito, altrimenti rischieremo di impantanarci sulla Luna e rimandare l’esplorazione di Marte a chissà quando.

Un gigantesco fungo di 2500 anni potrebbe darci la cura per il cancro

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I ricercatori hanno appena scoperto che un fungo gigante coperto 25 anni fa in una foresta nella penisola superiore del Michigan è cresciuto ulteriormente, e di tanto, e alcuni ritengono che  il segreto della sua fenomenale crescita potrebbe aprire interessanti prospettive per la cura dei tumori. Lo studio è stato pubblicato su Phys.org .

Quando fu scoperto per la prima volta, il fungo, un esemplare di Armillaria gallica (noto anche come un fungo del miele), copriva circa 15 ettari. Quando è stato riesaminato di recente, il fungo si era espanso su oltre 70 ettari. I ricercatori pensano che questo enorme fungo sia molto più vecchio di quanto precedentemente stimato e la nuova stima dell’età si aggira sui 2.500 anni.

Considero queste stime come il limite inferiore“, ha spiegato James B. Anderson, professore emerito di biologia presso l’Università di Toronto, Mississauga, che ha scoperto il fungo.

Un indizio per la ricerca sul cancro?

Anderson era curioso di sapere come questo singolo fungo sia sopravvissuto così a lungo, per cui prelevò e conservò dei campioni di tessuto del fungo per poter confrontare nel tempo le mutazioni a livello di genoma e capire come le sue mutazioni cellulari si accumulavano nel tempo. Ciò che trovò fu notevole. Il tasso di mutazione era così basso che anche le mutazioni che si verificano più di frequente “non hanno un grande impatto sulla forma fisica dell’organismo o sul suo aspetto“, ha detto. “Ci deve essere un meccanismo attraverso il quale il fungo si protegge dalle mutazioni“.

Questo adattamento è particolarmente interessante perché potrebbe offrire nuovi spunti per gli studi sulla crescita delle cellule tumorali.

Sebbene i ricercatori stiano ancora studiando come questo fungo abbia evitato mutazioni dannose, credono che possa possedere un meccanismo attraverso il quale localizza le mutazioni in aree in cui non causano molti danni. Il prossimo passo sarà esaminare i meccanismi del DNA per confrontare la loro stabilità con ciò che accade all’interno delle cellule tumorali, che sono altamente instabili.

Il cancro è instabile, provoca mutazioni molto rapide ed è soggetto a cambiamenti genomici, mentre A. gallica è un organismo molto persistente con poche mutazioni“.

L’A. gallica, come la maggior parte dei funghi, produce funghi sopra la terra, ma queste crescite sulla superficie sono solo una frazione di ciò che sta crescendo sotto. Gran parte dell’organismo è composta da una rete di viticci sotterranei chiamati micelio, che si diramano alla ricerca di nuove fonti di cibo. È così che a volte possono crescere fino a dimensioni così grandi. In effetti, il più grande fungo conosciuto al mondo, un Armillaria ostoyae scoperto in Oregon, copre un’area di circa 925 acri.

I funghi ci hanno già regalato gli antibiotici; sarebbe notevole se ora ci dessero anche la cura per il cancro. Dovremo solo aspettare e vedere cosa scopriranno i ricercatori.

Opportunity ha chiamato la Terra, anzi no

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Una delle antenne radio della NASA ha rilevato un segnale da Opportunity, ma ulteriori indagini hanno dimostrato che si trattava di un falso positivo.

Ieri pomeriggio, un segnale captato dal DSS-54, una delle antenne della NASA della rete Deep Space Network, ha captato un segnale che ha, per qualche ora, fatto pensare che il rover Opportunity, che dal 10 giugno scorso non comunica con la Terra, si fosse svegliato per la prima volta dopo la lunga tempesta globale di polvere che ne ha oscurato i pannelli solari impedendo alle sue batterie di ricaricarsi.

Da allora, la NASA ha continuato a tentare di contattare il rover, purtroppo senza ottenere risposta. Ciononostante, la NASA continua a pingare il piccolo rover che da 14 anni ci invia informazioni su Marte, nella speranza di stimolarlo a rispondere.

Quindi, cosa è successo ieri?

Un account twitter automatico ella NASA, @dns_status, che fornisce aggiornamenti basati sul Deep Space Network del JPL, ha twittato un aggiornamento che faceva pensare che Opportunity potesse essersi risvegliato dal suo sonno indotto dalla polvere.

Non molte informazioni, in realtà, ma il tweet faceva pensare che il DSS-54 avesse ricevuto dati da Opportunity verso le 13:00 PST. Questi dati erano stati trasmessi ad una velocità di 11 byte al secondo.

Alcuni, tra cui Chris Gebhardt, redattore capo del NASA Spaceflight, hanno twittato la notizia, suggerendo però cautela, nel caso che il segnale fosse semplicemente una trasmissione riflessa di qualcuna delle sonde spaziali in orbita attorno a Marte.Purtroppo, poco dopo il rilevamento, il JPL della NASA ha pubblicato una smentita su Twitter.

Insomma, niente “Oppy ha telefonato a casa” ma solo un segnale riflesso delle trasmissioni di una delle sonde che orbitano intorno al pianeta rosso.

Come è già accaduto in precedenza, si deve essere trattato dell’effetto Doppler di un segnale trasmesso dal Mars Reconnaissance Orbiter, che ha una frequenza molto vicina al segnale di Opportunity“, ha suggerito Glen Nagle, funzionario di supporto alle operazioni della NASA presso il complesso Canberra Deep Space Communication.

Il DSS-54, che ha riportato il falso positivo, è un’antenna parabolica – un grande radiotelescopio – parte del complesso di comunicazione Deep Space di Madrid, situato in Spagna. Fa parte della rete Deep Space della NASA, che ospita siti a Goldstone, negli Stati Uniti ed a Canberra, in Australia. Questi siti monitorano le trasmisisoni delle sonde e degli esploratori robotici della NASA sparsi nel sistema solare.

NASA, JPL e Deep Space Network, inclusa la nostra stazione di monitoraggio qui a Canberra, gestita per conto della NASI dal CSIRO, continuano a provare e entrare in contatto con Opportunity, aspettando e ascoltando ogni segno di vita da questo intrepido esploratore marziano“, ha dichiarato Nagle.

Un’enorme quantità d’acqua dell’oceano viene assorbita dalle linee di faglia tettonica. Dove va a finire?

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Un'enorme quantità d'acqua dell'oceano viene assorbita dalle linee di faglia tettonica. Dove va a finire?
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Un nuovo studio sismico effettuato nella regione della Fossa delle Marianne ha rivelato che enormi quantità di acqua dell’oceano si sta riversando nelle viscere della Terra attraverso le linee di faglia.

Lo studio, primo nel suo genere, ha scoperto che la quantità di acqua che penetra attraverso le “fessure” lungo le zone di subduzione, i punti in cui le placche tettoniche si insinuano sotto un’altra placca trascinando in profondità il mantello, potrebbe essere fino a quattro volte quanto le stime precedenti avevano suggerito. E quest’acqua starebbe affondando molto più in profondità di quanto si pensasse nel mantello del pianeta, fino a 32 chilometri sotto il fondo marino.

Sapevamo che attraverso le linee di subduzione veniva assorbita acqua in profondità ma non avevamo idea di quanta fosse, in realtà“, ha commentato Chen Cai della Washington University, primo autore dello studio. “Questa ricerca dimostra che le zone di subduzione spostano molta più acqua di quanto pensassimo nelle profondità della Terra“, ha aggiunto Candace Major, direttore del programma della Divisione Ocean Sciences della National Science Foundation, che ha finanziato lo studio.

Le zone di subduzione, che sono aree dove si generano le fosse più profonde del pianeta, sono in grado di assorbire l’acqua nelle profondità della Terra a causa delle condizioni di pressione e temperatura che generano. Le rocce lungo i confini delle zone di subduzione agiscono come spugne, assorbono l’acqua e la trascinano in profondità con loro. Fino ad ora, gli scienziati non avevano capito quanta in effetti fosse la quantità d’acqua risucchiata da queste fosse ed ora è evidente che la quantità è enorme anche se non è chiaro che fine faccia, poi, quest’acqua.

Dove va a finire tutta quell’acqua?

La buona notizia è che molte bolle dell’acqua assorbita, molto probabilmente rientrano nel normale ciclo dell’acqua, per esempio, attraverso le eruzioni vulcaniche che emettono in atmosfera parecchio vapore acqueo. L’unico problema è che le misurazioni del vapore acqueo rilasciato dai vulcani non corrispondono alle stime di questo studio sulla quantità di acqua persa attraverso la subduzione. In altre parole, sembrerebbe che la quantità di acqua che entra nella terra superi di gran lunga la quantità di acqua che esce.

Quindi a questo punto, dove l’acqua scorre, è un po ‘un mistero. Non si sta perdendo – I livelli del mare della Terra non stanno calando drammaticamente come avverrebbe se quest’acqua si perdesse nelle profondità del pianeta ma sarà necessario fare più ricerca per capire come il ciclo dell’acqua riesca a sostenersi.

Le stime sulla quantità d’acqua immessa in atmosfera attraverso l’azione dei vulcani sono probabilmente molto incerte“, ha detto Doug Wiens, ricercatore consulente dello studio. “Questo studio probabilmente causerà qualche rivalutazione“.

Una possibile spiegazione è che non tutte le zone di subduzione sono uguali. Forse le condizioni lungo la Fossa delle Marianne sono più estreme che in altri luoghi del pianeta, dove si perde meno acqua. Questa è un’ipotesi per un altro studio, comunque.

La quantità d’acqua assorbita potrebbe variare da una zona di subduzione a un’altra, in base al tipo di faglia che si ha quando la placca si piega” ha ancora osservato Wiens. “Ci sono state osservazioni superficiali in Alaska e nell’America centrale, ma nessuno ha ancora studiato in profondità queste strutture come abbiamo potuto fare nella Fossa delle Marianne“.