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Tessuti dalle bucce d’arancia: Orange fiber, un esempio di eccellenza italiana

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di Francesca Marchese

Dalla moda all’energia – la buccia e le sementi dei agrumi famosi agrumi siciliani, le arance, vengono utilizzati in una serie di iniziative imprenditoriali più ecologiche e più sane.

Nel 2011, Adriana Santonocito era studente di design a Milano quando ha avuto l’idea di produrre tessuti sostenibili da ciò che era naturalmente abbondante e ampiamente sprecato nella sua città natale, Catania, in Sicilia.

La sua sfida era quella di trovare un modo per mettere a frutto i residui di centinaia di migliaia di tonnellate di arance.

Ora, grazie al suo pensiero creativo, è possibile fare interi articoli di abbigliamento utilizzando fibre che hanno origine dal frutto.

Processo chimico

Il concetto di Santonocito è stato ispirato da una domanda posta nella sua tesi universitaria. Potrebbe essere realizzato un lussuoso foulard di seta da sottoprodotti degli agrumi che altrimenti sarebbero gettati via o utilizzati per alimentare il bestiame?

Laboratori Fiber ArancioneImmagine copyright: ORANGE FIBER reagenti chimici per separare la cellulosa dai resti delle arance

La questione è particolarmente rilevante in Sicilia, dove ogni anno vengono vendute migliaia di tonnellate di agrumi, producendo enormi quantità di rifiuti.

La 39enne ha trovato la sua risposta nei laboratori dell’università e ha registrato un brevetto apposito.

Era già noto che la cellulosa potrebbe essere estratta dalle scorie delle arance. Ma la signora Santonocito ha scoperto che, utilizzando reagenti chimici, questa cellulosa può essere estratta sotto forma di un filato che può essere tinto e miscelato con altri tessuti, come il cotone o il poliestere.

Insieme con la suo collega universitaria Enrica Arena, nel 2014 fondò Orange Fiber e cominciarono a vendere i filati di seta all’arancia ad aziende dell’industria dell’abbigliamento.

Adriana Santonocito e Enrica ArenaImmagine copyright: ORANGE FIBER Adriana e Enrica dirigono ora un’azienda con 12 dipendenti

Quest’anno, Salvatore Ferragamo ha usato il loro tessuto nella sua collezione primavera-estate con l’obiettivo di rendere più sostenibili le sue magliette, gli abiti ed i foulard di fascia alta.

Orange Fiber, che ora ha un team di 12 persone, opera da uno stabilimento locale per la trasformazione di succhi, da cui ottiene gratuitamente il materiale di scarto.

L’attività è parzialmente stagionale, essendo operativa soprattutto nei mesi dell’anno in cui si lavora il succo di frutta all’arancia. Ma una volta che le bucce d’arancia sono state trasformate in cellulosa, questa può essere immagazzinata per essere utilizzata in seguito.

Antonio Perdichizzi, investitore precoce di Orange Fiber, afferma che l’azienda si è distinta perché, a differenza delle start-up più innovative in Italia, non è digitale.

Le bucce aromatiche dopo i frutti sono state spremuteImmagine copyright: ORANGE FIBER Orange Fiber utilizza le scorie delle arance

L’Italia non investe molto nell’innovazione, ma idee e abilità brillanti vincono malgrado la mancanza di risorse“, aggiunge.

Rosario Faraci, professore di affari, economia e gestione presso l’Università di Catania, afferma che l’azienda è un esempio di come “la creatività e lo spirito imprenditoriale” stia creando nuovi posti di lavoro e attività nella regione.

Fibra – non grassa

Le arance potrebbero anche essere utilizzate per rendere le cibarie più sane e durature grazie ad una nuova procedura che le trasforma in un’innovativa farina senza grassi.

La nuova tecnica è attualmente in fase di test presso l’Università di Catania ed i risultati sono incoraggianti.

Al momento, quasi tutti i panettieri utilizzano grassi, come il burro o la margarina nella loro cucina.

Ma secondo la ricerca, metà di questo grasso potrebbe essere sostituito utilizzando farina ottenuta da cotogne, semi e parte della polpa non utilizzata per la produzione di succhi di frutta.

Brioche fatto usando la farina arancioneImmagine copyright: ORIETTA SCARDINO I cuochi locali e gli chef pasticcini di Acireale, vicino a Catania, amano la nuova farina

Come nel caso di Orange Fiber, i ricercatori ottengono le materie prime necessarie al processo dai fabbricanti di succhi di frutta locali. Lavano le scorie per rimuoverne il sapore amaro, poi le essiccano e sbiancano ciò che rimane.

Salvatore Barbagallo, professore di agricoltura all’Università di Catania, afferma che la farina è “perfettamente sostenibile” e non costa quasi nulla per produrre. Inoltre non ha “alcun impatto” sul gusto e la fragranza del cibo che lo contiene.

Fonte: BBC

La politica e le scie chimiche

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di Oliver Melis per Reccom Magazine

Torniamo a parlare di scie chimiche ricordando brevemente cosa sono per i tanti complottisti che credono che, a partire dalla seconda metà degli anni Novanta, un fenomeno normalissimo e sotto gli occhi di tutti come l’emissione delle scie di condensazione da parte di aerei civili e militari siano invece un complotto ordito in segreto da un Governo mondiale per ottenere il controllo del clima e mettere in ginocchio l’umanità assumendone il controllo sotto ogni punto di vista, sia da quello fisico che mentale.

Alla fine degli anni Novanta nel nostro parlamento ci si è interrogati sul “fenomeno”. Sono stati diversi i politici che hanno presentato interrogazioni in merito. Ma era proprio necessario? No, e se pensiamo che i politici non amano la scienza, in tanti avranno semplicemente cavalcato il complotto per creare del consenso.

Le interrogazioni parlamentari di cui tutti siti che combattono la disinformazione riportano traccia sono 14:

2 aprile 2003 Italo Sandi (fino al 2001 coi DS successivamente con UDC)

27 ottobre 2003 Piero Ruzzante (DS PD)

3 febbraio 2005 Severino Galante (prima PCI, PRC, oggi PdCI)

13 giugno 2006 Gianni Nieddu (Ulivo)

8 agosto 2007 Amedeo Ciccanti (UDC)

20 dicembre 2007 Katia Belillo (PdCI)

5 giugno 2008 Sandro Brandolini ( ex DS ora PD )

16 giugno 2008 Amedeo Ciccanti (2)

17 settembre 2008 Antonio Di Pietro (IDV)

1 ottobre 2008 Sandro Brandolini (2)

28 gennaio 2009 Sandro Brandolini(3)

5 novembre 2009 Oskar Peterlini (Sudtiroler Volkspartei)

18 novembre 2009 Amedeo Ciccanti (3)

22 febbraio 2011 Domenico Scilipoti (PdL e/o FI)

Ma come è possibile che i nostri rappresentanti perdano tempo in cose del genere? (Forse ho già risposto prima, domanda retorica) Alcuni di loro si saranno pure indignati, altri si saranno stracciati le vesti e via discorrendo.

Alla lista si sommano però tanti consiglieri comunali che si sono preoccupati dello stesso problema, le scie chimiche, il bario e l’alluminio che secondo alcuni bene informati, (li vorrei chiamare in un altro modo ma non posso) vengono dispersi nel cielo per i fini che abbiamo esposto qui e in al,tri articoli.

maggio 2008, mozione amministrazione comunale Savignano sul Rubicone

giugno 2008, mozione amministrazione comunale Sant’Arcangelo di Romagna

aprile 2009, O.d.G. Consiglio comunale di Cesena

maggio 2011, consiglio comunale di Grizzana Morandi

febbraio 2013, petizione comunale da parte di 728 cittadini a Torino

febbraio 2013 consiglio comunale di Vergemoli

maggio 2013 consiglio comunale di Venaria

Sarebbe bello capire quanto tempo i nostri politici, sia a livello locale che nazionale, hanno “speso” per trattare questi spinosi argomenti, tempo speso da loro e pagato da noi contribuenti con tasse e balzelli vari, come se nel nostro paese il problema siano le scie lasciate nel cielo dagli aerei. Perdita di tempo e soldi poteva essere evitata se i tanti politici “indignati” avessero aperto ai tempi della scuola un libro di fisica, acquisendo quelle nozioni basilari che oggi gli avrebbero permesso di farsi due risate davanti ai tanti complotti che infestano l’informazione e soprattutto la pseudoinformazione, cominciando proprio dalle scie chimiche, e avrebbero impegnato il loro tempo, e il nostro, per cose meno futili.

Ai lettori un consiglio: la prossima volta che andrete a votare copiatevi questi nomi, sia mai che riusciamo a levarci di torno questi personaggi, iniziando a risparmiare qualche soldo pubblico in modo che il politico di turno indirizzi le proprie energie verso problemi reali, forse non è chiedere troppo.

Oliver Melis è owner su facebook delle pagine NWO ItaliaPerle complottare e le scie chimiche sono una cazzata

Il Giornalismo è morto ma nessuno se n’è accorto

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di Rosa Pullano

A giudicare dai titoli “acchiappaclick” che alcune testate appioppano alle notizie, con l’intento di incuriosire il lettore, il decadimento del giornalismo è ormai evidente. Fare informazione è un compito importante, un tempo quasi “nobile”; ma, ahimè, negli ultimi tempi sembra che contino solo le visualizzazioni (e i guadagni a esse legati). Ho sempre creduto che la gente, leggendo un articolo, possa essere colpita da un passaggio, una riflessione o una semplice frase espressa in modo intelligente e accurato, invece che da un titolone a effetto: è come lasciare un segno ben tangibile nella mente di una persona, inducendola a proseguire con interesse la lettura.

INFORMAZIONE? NO, ACCHIAPPACLICK

Certo, se ci sono, ben vengano valanghe di click; tuttavia, scrivere esclusivamente con l’idea del guadagno non è una buona cosa. Le visualizzazioni e  i compensi sono importanti ma, la scrittura? Che fine ha fatto l’impegno, la passione, il voler fare “informazione” oltre che “visualizzazione”? Molte testate online pubblicano prevalentemente articoli di gossip, scuola, politica e cronaca, quest’ultima possibilmente “arricchita” dai particolari più truculenti o scandalistici: migliaia di “notizie” quotidiane, condite di immagini violente o addirittura pornografiche, rimaneggiate in un’infinità di versioni, bufale pazzesche che ormai più nessuno si preoccupa di verificare, pettegolezzi sui personaggi famosi suscitano valanghe di commenti, soprattutto su Facebook: in poche parole, il caos. Pochissimi, invece, quelli che leggono volentieri anche altre cose, mai messe in rilievo: scienza, musica, arte, astronomia, mostre, curiosità varie e magari, perchè no, un pò di notizie positive; di quelle, per intenderci, che rincuorano e fanno ben sperare per il futuro. E tutti sappiamo quanto ne abbiamo bisogno, in questo momento.

IL GIORNALISMO È MORTO

Che informazione è, se tali argomenti sono sempre meno evidenziati? Che informazione è, se i motori di ricerca mettono quelle news in posizioni di rilievo perchè, tanto, “chi mai leggerà quella notiziola curiosa, poco rilevante, di cui non interessa nulla a nessuno?” Non che ci sia qualcosa di male, in fondo si vende un prodotto e chi scrive dà alla gente ciò che vuole leggere, così come la TV dà ciò che vuole guardare: per molti è uno svago, un passatempo, un divertimento; per altri invece, solo spazzatura. Dove sono finiti quei giornalisti di una volta, immersi in un mare di fogli appallottolati, con la sigaretta penzolante tra le labbra e la lampada posizionata sulla macchina da scrivere? Dove sono finiti quei giornalisti che, impermeabile e macchina fotografica a tracolla, si recavano immediatamente sul posto in cui era accaduto il “fatto”, intervistavano i presenti, prendevano appunti e poi ne facevano una fedelissima, onestissima cronaca, nonostante guadagnassero poco?

Una figura “antica”, sorpassata, preistorica: scrivere per profitto è ben diverso da chi lo fa con passione, trascinato dall’entusiasmo piuttosto che da mire economiche o, peggio, da ideologie politiche che danno alle notizie versioni mai oneste, trasparenti, “pulite”, scevre da ogni condizionamento. Il giornalismo è morto, questa è la verità: nessuno, però, sembra che se ne sia accorto.

Rosa Pullano è un’articolista e bloggher. Al suo attivo esperienze lavorative su diverse testate on line. Ama leggere e è un’attenta osservatrice dei principali fatti di cronaca, oltre che delle curiosità in generale: la scrittura come passione. Email: rosafb@email.it – Blog: http://isolo.altervista.orghttps://www.facebook.com/Solonotiziepositive57/ –https://www.facebook.com/videoandnews/

Sarcofagi romani ritrovati in un cantiere nei pressi dell’Olimpico

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Due sarcofagi in marmo, che ad una prima analisi potrebbero risalire al III – IV secolo d.C, sono stati scoperti nell’area dello stadio Olimpico, a Roma. Si tratta di sepolture di fanciulli, verosimilmente di un’abbiente famiglia romana.

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uno dei sarcofagi romani trovati vicino lo stadio Olimpico

Lo ha reso noto oggi la Soprintendenza speciale all’Archeologia, Belle Arti e Paesaggio della Capitale, spiegando che i due sarcofagi, uno dei quali decorato con bassorilievi, sono stati riportati alla luce nel corso di uno scavo di archeologia preventiva in un cantiere Acea alle pendici Nord-Ovest di Monte Mario, dietro la curva Nord.

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Lo scavo è stato diretto da Marina Piranomonte, con gli archeologi Alice Ceazzi, il restauratore Andrea Venier, l’antropologa Giordana Amicucci e il topografo Alessandro Del Brusco. Finalizzati alla messa in opera di tubazioni di sotto-servizi, i lavori hanno fatto rinvenire tombe a circa 2,5 metri sotto il piano stradale. La datazione dei sarcofagi, che sono stati trasportati nei laboratori della soprintendenza, potrà essere confermata solo dopo un approfondito esame. I reperti, infatti, saranno analizzati, studiati e restaurati nei prossimi mesi. I risultati delle ricerche saranno divulgati nel prossimo autunno.

Quella dei due sarcofagi è solo l’ultima di una serie di scoperte archeologiche nella Capitale. A giugno, nei cantieri di scavo per la realizzazione della metro C in via Amba Aradam, nel quartiere San Giovanni, è venuta alla luce una ‘mini Pompei‘, due ambienti della media età imperiale che a causa di un incendio contengono ancora conservate parti del solaio ligneo, del mobilio ed un pregevole pavimento a mosaico.

Il triangolo in bermuda

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di Oliver Melis per Aenigma

Chi non conosce il famoso triangolo delle Bermuda? Una vasta zona di mare nell’oceano Atlantico settentrionale di circa 1 milione di Km quadrati i cui vertici sono:

vertice Nord – il punto più meridionale dell’ isola principale dell’arcipelago delle Bermude;

vertice Sud – il punto più orientale dell’isola di Porto Rico;

vertice Ovest – il punto più a Sud della penisola della Florida.

La leggenda del triangolo delle Bermuda o triangolo del Diavolo nasce negli anni cinquanta con la convinzione che dal 1800 in poi, prima navi e poi anche velivoli fossero scomparsi misteriosamente in quel tratto di mare.

Il triangolo delle Bermuda è poi diventato noto a livello mondiale anche grazie a un libro, il best seller “Bermuda, il triangolo maledetto” del 1974, scritto da Charles Berlitz che mise in relaziose le sparizioni con il fenomeno UFO e il paranormale.

A registrare le prime scomparse è stato nel 1950 Eduard Van Winkle Jones in un articolo per Associated press, due anni dopo il magazine Fate pubblicò “Sea Mystery At Our Back Door” , breve articolo di George X. Sand che riportava la presunta sparizione di numerosi aerei e navi inclusa la sparizione del Volo 19 e di un gruppo di cinque navi della United States Navy. Proprio la sparizione della pattuglia 19 segna l’inizio del mito ma di tutte le opere pubblicate, non poche, quella che resta una pietra miliare, almeno per chi ritiene vere le dicerie sul triangolo delle Bermuda resta il libro di Berlitz, anche se il sinistro soprannome “Triangolo delle Bermuda” pare derivi da un articolo del 1964, pubblicato su una testata di spiritismo e paranormale: The Deadly Bermuda Triangle, il mortale triangolo delle Bermuda, a firma di Vincent Gaddis.

Molti ufologi hanno speculato sulle presute sparizioni avanzando l’ipotesi che ci fossero dietro gli alieni che volutamente facevano sparire navi e aerei, sono state avanzate anche altre teorie, campi magnetici, inversioni gravitazionali, buchi nel tessuto spazio tempo o fenomeni paranormali.

Un libro di Lawrence David Kusche, The Bermuda Triangle Mystery: Solved del 1975, mise in luce gravi imprecisioni e alterazioni nel libro di Berlitz: I racconti di Berlitz spesso omettevano dati importanti o avevano gravi imprecisioni, Kusche dimostrò inoltre come numerosi incidenti avvenuti “nel triangolo” si fossero in realtà verificati a moltissima distanza e fossero stati inclusi in modo fraudolento.

Per cercare di fare chiarezza sul numero di sparizioni in quell’area di mare, sempre nel 1975 Mary Margaret Fuller, direttrice di Fate, contattò i Lloyd’s di Londra. Le statistiche parlano chiaro sui mezzi scomparsi nella zona, né più né meno che nel resto delle altre zone di mare.

Ma nonostante l’impegno profuso da tante persone, ce ne sono ancora troppe che continuano a speculare sulla zona di mare “misteriosa”. Magari la rete potrebbe fare chiarezza e in parte ci prova ma sono sempre di più i siti che utilizzano queste storie prive di fondamento per ottenere seguito, visibilità e di conseguenza guadagno. quindi per loro il fatto che ci sia gente che crede ai complotti è un ottimo tornaconto, perché chi crede ai complotti vede nemici ovunque e soprattutto li vede in chi appoggia il metodo scientifico.

Per chi volesse approfondire potrebbe farlo con una sparizione avvenuta nel triangolo delle Bermuda. una storia misteriosa che vede come protagonista Carolyn (o Helen?) Cascio. Carolyn/Helen compare solo nei racconti e nei libri sul Triangolo delle Bermuda. A Grand Turk non esistono registrazioni né testimoni di ciò che in seguito è stato riportato; negli elenchi ufficiali dei voli dispersi negli anni, non risulta traccia del volo da lei pilotato. Nonostante molte storie raccontate sul triangolo delle Bermuda siano palesemente inventate, il mito continua a comparire sui siti specializzati in storie misteriose e nelle bibblioteche.

 Oliver Melis è owner su facebook delle pagine NWO ItaliaPerle complottare e le scie chimiche sono una cazzata

I misteri di phobos 2

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Le sonda Phobos 1 e 2 furono lanciate dall’Unione Sovietica il 7 e il 12 luglio 1988, il progetto sovietico comprendeva la partecipazione di altre 14 nazioni, USA compresi. Durante la missione in orbita sul pianeta rosso, il 28 marzo dello stesso anno, la sonda phobos 2 scompare misteriosamente e iniziano a circolare da subito delle voci su alcune foto inviate alla Terra dalla sonda prima che svanisse nel nulla. Le immagini non sarebbero state rese pubbliche perché secondo alcuni mostravano qualcosa di sconvolgente. Nel 1991 il colonnello dell’aeronautica russa Marina Popovic asserì che c’erano indizi sulla reale presenza di una nave aliena nel nostro sistema solare.

L’obiettivo principale del programma Phobos era, ovviamente, la prima esplorazione dell’omonimo satellite di Marte. La sonda, lanciata con razzo vettore Proton, era di tipologia orbiter, cioè un veicolo spaziale progettato esclusivamente per studiare un corpo celeste orbitandovi attorno, senza atterrare sulla superficie dello stesso. Pesava 6200 kg ed era costituita principalmente da un modulo cilindrico pressurizzato per gli strumenti scientifici e da una struttura di base per i motori di navigazione ed il propellente.

La sonda Phobos 2 che raggiunse Marte il 29 gennaio del 1989 era dotata di un Termoscan per eseguire la mappatura termica della superficie di Marte, nella struttura della sonda erano presenti due lander che avrebbero dovuto scendere sul piccolo satellite marziano, Phobos. La sonda, dotata di un laser avrebbe anche dovuto vaporizzare la superficie di Phobos per rilevarne gli elementi che lo compongono.

Il 28 marzo, quando all’inizio della missione mancavano pochi giorni, vennero persi i contatti a causa di un’avaria del sistema di assetto della sonda, forse causato da dati errati del radio altimetro.

La TASS, riportò in un comunicato che la sonda “aveva perso il contatto con la Terra dopo aver completato una serie di manovre attorno alla luna di Marte, Phobos. Gli scienziati non sono stati in grado di ripristinare il collegamento radio“.

I russi pressati dalle altre agenzie che parteciparono al progetto difusero un breve documentario utilizzando alcune delle foto inviate dalla sonda alla Terra poco prima di perderne il segnale.

Ci sono diverse foto che, a detta di alcuni, mostrerebbero dei particolari interessanti, linee diritte e sottili e altre abbastanza larghe da sembrare rettangoli, la foto scattata con una termocamera rappresenta un’emissione di calore e un certo John Becklake del london science museum ha definito la struttura un vero enigma.

Anche i tecnici russi secondo Secondo Boris Bolitsky, corrispondente scientifico di Radio Mosca, descrissero delle strutture definendole “molto notevoli” prima che si perdesse il contatto radio con “Phobos 2”.

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La seconda foto, qua sotto, inquadra un’ombra ellittica sulla superficie di Marte che sembrerebbe proiettata da un oggetto di forma allungata e di grandi dimensioni, secondo il dottor Becklake, l’ombra doveva appartenere ad un oggetto che si trovava “tra la sonda sovietica in orbita e Marte. All’epoca si parlò di un’immagine ripresa con telecamera ottica che fu censurata perché sconvolgente.

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In una conferenza sugli UFO tenutasi nel 1991, Marina Popovich pilota e astronauta diede ai ricercatori presenti diverse informazioni da lei fatte uscire “di contrabbando” dalla ormai ex Unione Sovietica. Parlò di un’indizio riguardante la presenza aliena nel nostro sistema solare e affermò che un oggetto ripreso da phobos 2 lungo 20 chilometri e con un diametro di uno e mezzo fotografato vicino a Phobos, il piccolo satellite marziano, sarebbe stata la causa della perdita della sonda a causa di un impulso di energia.

Cosa successe veramente alla sonda phobos due? I personaggi citati esistono realmente?

– Boris Bolitsky, corrispondente scientifico Radio Mosca

– John Becklake del London science museum

– Marina Popovich, pilota e astronauta

La Popovic era pilota dell’aviazione sovietica da sempre dedita a divulgare notizie sugli UFO, ha scritto un libro intitolato “UFO Glasnost” (pubblicato nel 2003 in Germania). Lei sostiene che i piloti militari e civili sovietici hanno confermato 3000 avvistamenti UFO e che la forza aerea sovietica e il KGB hanno frammenti di cinque UFO in crash. I siti di crash erano Tunguska (1908), Novosibirsk , Tallinn , Ordzhonikidze e Dalnegorsk (1986).

Non sappiamo se le foto sono reali o ritoccate, e essendo a bassa risoluzione, la prima può entrare nel novero delle altre foto marziane che mostrano anomalie che in realtà sono dovute appunto al fatto che non hanno una risoluzione sufficiente per mostrare qualcosa di comprensibile.

La foto dove compare l’ellisse spacciata per astronave, non è altro che l’ombra di Phobos sulla superficie marziana, mentre quella che mostra la “nave madre” in orbita non è altro che un artefatto digitale, dovuto probabilmente ad un difetto di trasmissione o ad un difetto dei sensori.

ufo frame

La peste negli USA, che rischi ci sono?

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Da qualche giorno imperversa sul web la notizia che negli USA sono stati registrati alcuni casi di peste bubbonica, una malattia che, soprattutto in europa, richiama terribili ricordi risalenti al medioevo. Una terribile epidemia di peste, che fu poi chiamata “peste nera“, imperversò in tutta Europa tra il 1347 e il 1352 e si calcola che uccise almeno un terzo della popolazione europea durante il XIV secolo, cioè, secondo alcuni calcoli, circa 25 milioni di persone. Questa notizia si è rapidamente diffusa soprattutto sui social network e qualche furbo l’ha subito sfruttata per scopi meschini, alimentando il fuoco della paura e gridando al solito complotto della multinazionali del farmaco solo per rimediare qualche click sui siti fuffari.

Ma veniamo ai fatti:

Alcuni giorni or sono, la contea di Navajo, in Arizona, ha pubblicato un avviso di salute pubblica dopo che, nella zona, sono state trovate alcune pulci positive ai test per la peste. La contea ha pubblicato un avviso in cui avverte i residenti descrivendo i sintomi della peste bubbonica, tra cui le bolle, febbre e dolore muscolare.

Le pulci infette sono state raccolte nella contea di Coconino, in Arizona, e sono state trovate positive per Yersinia pestis, che può causare tre forme di peste negli esseri umani. La contea di Navajo ha sottolineato che è necessario adottare misure preventive solo se ci si trova nella zona in cui è stata trovata la peste.

Il Dipartimento della Salute della contea di Navajo sta sollecitando la popolazione a prendere precauzioni per ridurre il rischio di esposizione a questa grave malattia“, hanno scritto su  Facebook . “La malattia può essere trasmessa agli esseri umani e agli altri animali dal morso di una pulce infetta o dal contatto diretto con un animale infetto“.

La contea ha anche pubblicato consigli su come evitare di contrarre la malattia e cosa fare nel caso si sospettasse di essere stati esposti. La popolazione viene anche avvisata di segnalare il rinvenimento di roditori, conigli o cani della prateria morti in quanto questa potrebbe essere un’indicazione della presenza di peste nell’area.

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La peste è rara in America negli ultimi tempi, e i casi tendono ad essere riportati nell’ovest del paese. Centri per il controllo e la prevenzione delle malattie.

I funzionari della contea esortano la popolazione a consultare immediatamente in medico nel caso in cui si sospetti di essere stati esposti alla malattia. I sintomi della peste generalmente appaiono tra i due ed i sei giorni e includono:

  • febbre
  • brividi
  • mal di testa
  • debolezza
  • Dolori muscolari
  • Ghiandole linfatiche gonfie (chiamate “bolle”) all’inguine, alle ascelle o agli arti.

Avvertono che la malattia può diffondersi in tutto il flusso sanguigno e infettare i polmoni se non viene trattata, ma può essere curata con antibiotici se diagnosticata e trattata precocemente.

Evidenziato cosa sta succedendo, bisogna anche sottolineare il fatto che la peste non è mai scomparsa dagli Stati Uniti e, tra gli esseri umani, sono 96 i casi riportati tra il 2000 e il 2015. Di questi, secondo il CDC, solo 12 sono i pazienti deceduti per la malattia.

La peste viene veicolata tra gli animali selvatici dalle pulci che riescono ad avvicinarsi agli insediamenti umani grazie soprattutto ai topi che possono propagarle ai nostri animali domestici e seminarle nell’ambiente da dove possono arrivare agli esseri umani.

Insomma, la peste c’è ma, al momento, rientra nella normale casistica di diffusione della malattia negli zona ovest degli Stati Uniti. sono però sufficienti le norme basiche di igiene e pulizia per prevenirne la diffusione ed evitare il contagio e, in caso si sospettasse che questo possa essere avvenuto, è abbastanza facile curarla se non si aspetta troppo prima di rivolgersi ad un medico.

Tutto il resto è fuffa. E complottismo di bassa lega.

Un pensiero per queste donne, e tantissime altre ancora

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Un pensiero per le donne, spesso così fragili, sensibili, delicate, futili, trasognate e poco attente alla sostanza. A quelle che versano fiumi dilacrime, si commuovono per un nonnulla e in apparenza si piegano sconfitte, mentre in realtà si “adattano” al momento per poi risollevarsi di nuovo con maggior determinazione. Donne capaci di sopportare eventi devastanti, drammi e ingiustizie varie ma, dopo averli elaborati, assimilati e averne tratto insegnamento, ricominciano daccapo con incredibile, incrollabile ostinazione.

Alle donne che sorridono comunque

Queste donne – non tutte, certo, ma comunque tantissime – sono in grado di superare cose inimmaginabili, morire un pò e quindi risorgere più forti di prima. A quelle, per esempio, che giustificano ogni tipo di atteggiamento degli uomini, anche il più sbagliato, per un malinteso senso di inferiorità o inutili sensi di colpa.

Quelle che portano avanti una relazione per inerzia, che subiscono prepotenze e mancanza di rispetto per i figli, per paura, per mille altri motivi anche se l’amore è finito da un bel pezzo. E a quelle che sorridono sempre e comunque, anche se in cuor loro si sentono frustrate e non amate, arrivando a credere che un bacio distratto o una palpata sul culo, di tanto in tanto, siano l’unico tipo di attenzioni che possono meritare.

Quelle che amano troppo

A quelle che si fanno devastare l’anima quotidianamente, e concludono molte frasi con “tanto è inutile”, lasciando che qualcuno frantumi in piccoli pezzettini la loro autostima. A quelle che amano troppo, “sentono” troppo, donano troppo, ma pretendono sempre troppo poco in cambio. Per queste donne, in ogni angolo del mondo, e tantissime altre ancora, una raccomandazione: non abbiate paura di aprire bocca, potete dire ciò che volete, ne avete tutto il diritto. E potete perfino innamorarvi di nuovo, ma solo se ci credete.

Rosa Pullano è un’articolista e bloggher. Al suo attivo esperienze lavorative su diverse testate on line. Ama leggere e è un’attenta osservatrice dei principali fatti di cronaca, oltre che delle curiosità in generale: la scrittura come passione. Email: rosafb@email.it – Blog: http://isolo.altervista.org https://www.facebook.com/Solonotiziepositive57/https://www.facebook.com/videoandnews/

 

Regioni Speciali ad esplorazione limitata su Marte?

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C’è una piccola, insignificante, possibilità che Marte un tempo ospitasse la vita, perlomeno quella unicellulare e, ancora meno probabilmente, potrebbe ospitare ancora oggi qualche superstite di quell’età dell’oro marziana. Per questa ragione, in futuro, alcune regioni speciali del pianeta rosso potrebbero essere interdette alle esplorazioni, sia robotiche che umane.

Una volta pensavamo che Marte fosse un pianeta freddo e senza vita ma ora sembra proprio che un tempo fosse adatto alla vita come la conosciamo e, se vogliamo poter un giorno scoprire questi residui di vita ancestrale marziana, ammesso ci siano, dobbiamo assicurarci di non contaminare il pianeta con batteri terrestri portati dalle nostre sonde e dai nostri rover. Gran parte della superficie marziana è oggi incompatibile e mortale per le forme di vita terrestri ma sappiamo che alcuni tipi di nostri batteri sono in grado di sopravvivere ad un viaggio nello spazio e potrebbero essere in grado di attecchire in alcune regioni di Marte e questo potrebbe provocare falsi positivi nelle future ricerche di forme di vita su Marte.

Per ovviare a questo problema futuro, gli scienziati hanno stabilito dei parametri per definire speciali alcune regioni di Marte. Come definito dal Comitato per la Ricerca sullo Spazio (COSPAR) nella Politica di Protezione Planetaria del 2008, su Marte esistono regioni “all’interno delle quali organismi terrestri potrebbero avere la capacità di attecchire e propagarsi, ritenute di avere un elevato potenziale per l’eventuale esistenza di forme di vita marziane autoctone.”

Nel 2016, questa definizione è stata aggiornata leggermente  per essere più specifica. Una Regione Speciale è adesso quella che ha una valutazione dell’attività dell’acqua da 0,5 a 1. L’attività dell’acqua è una misura di l’area in questione sia idonea alla vita.

L’altra caratteristica principale stabilita per una regione speciale è quella di avere una temperatura idonea a sostenere gli organismi terrestri. Questo è definito dai -25 ° C in su. È stata anche emanata una raccomandazione per includere il metano nella definizione, visto che questo gas può sostenere la vita biologica, ma non è ancora stata inclusa nella definizione.

C’è un problema, però. Non abbiamo ancora trovato una singola Regione Speciale su Marte.

Non esistono regioni particolari identificate, oggi su Marte“, ha detto a John Rummel, dell’Università della East Carolina, l’autore principale della carta che ha ridefinito le Regioni Speciali “le abbiamo definite ma, per ora, non ne abbiamo trovate.”

Allora qual è il problema? Non abbiamo ancora trovato tali regioni ma potremmo trovarle in futuro. E trovarle potrebbe causare alcuni problemi.

Noi pensiamo che una volta Marte avesse una grande quantità di acqua liquida sulla sua superficie, forse addirittura un grande oceano nell’emisfero settentrionale. Pensiamo anche che una volta avesse un’atmosfera più spessa, con un clima più favorevole alla vita.

In un momento che ancora non conosciamo, Marte perse il suo campo magnetico e quindi gran parte dell’atmosfera per motivi solo in parte conosciuti, provocando l’evaporazione dell’acqua sulla sua superficie. Ma, in profondità e anche in superficie, ci sono grandi serbatoi di ghiaccio d’acqua che potrebbero contenere resti di quel passato abitabile. Le presenza di acqua suggerisce anche che Marte non è ancora abbastanza morto.

La mia ipotesi è che ci siano posti su Marte che potrebbero essere contaminati da organismi terrestri”, ha detto Rummel “Ma finora non siamo riusciti a raggiungerli.”

Se esistono tali regioni, il nostro problema sarà quello di sterilizzare adeguatamente le navicelle prima di inviarle lì, per evitare contaminazioni. Siamo in grado di sterilizzare piuttosto bene una navicella spaziale ma non possiamo garantirne la totale sterilità, qualche microbo potrebbe sempre infiltrarsi in qualche componente.

Ad alcune regioni di Marte non siamo ancora in grado di assegnare una classificazione definitiva“, ha dichiarato David Beaty, Chief Scientist per la Direzione Esplorazione di Marte al Jet Propulsion Laboratory della NASA a Pasadena.

Nel 2006 fu redatta una mappa delle Potenziali Regioni Speciali su Marte. Questa mappa, fondamentalmente, includeva le zone note per avere ghiaccio d’acqua entro una profondità di 5 metri dalla superficie. Ciò è considerato importante perché se un lander si schiantasse su Marte, potrebbe scavare un cratere fino a 5 metri di profondità.

Tuttavia, nella rivalutazione nel 2016, è stato deciso che non ragionevole prevedere la posizioni delle eventuali Regioni Speciali. Al contrario, si decise di valutare ogni regione caso per caso.

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Una mappa aggiornata nel 2016, mostra le aree che hanno il potenziale di essere regioni speciali. Rummel et al.

Se si individuassero realmente delle regioni Speciali, i veicoli spaziali potrebbero ancora esplorare quelle aree ma avrebbero bisogno di passare attraverso procedure di sterilizzazione molto rigide. Secondo la politica di protezione planetaria COSPAR, vi sono cinque categorie relativamente ampie di sterilizzazione che la nave spaziale deve rispettare.

All’estremità inferiore di questa scala è la categoria 1, per i corpi che non sono di interesse per la ricerca della vita. Questi richiedono una minima sterilizzazione. All’estremità superiore, abbiamo la categoria IV. Si tratta di landers che potrebbero scendere sul suolo di località biologicamente interessanti su Marte, Europa, Encelado e altri luoghi considerati importanti nella ricerca della vita. Questi veicoli spaziali dovranno essere sterilizzati ai massimi livelli.

La nave spaziale Viking 2 sbarcò in quella che si riteneva essere una regione biologicamente interessante di Marte, Utopia Planatia, per cercare la vita nel 1976. All’arrivo, la regione si rivelò per la maggior parte fredda e morta. Una ricerca diretta per la vita condotta dal lander – la nostra unica ricerca diretta per la vita su Marte fino ad oggi – si rivelò inconcludente.

Sul Viking 2 fu effettuato un processo di sterilizzazione molto rigoroso. E ‘stato cotto in quello che Rummel descrive come un “piatto di casseruola in alluminio“, noto come bioshield, per 54 ore ad una temperatura di 101,7° C. Se dovremo mandare un lander e dei rover in una regione di categoria IV, dovranno essere sterilizzati a questo livello.

Una missione di categoria V, riguarderebbe il prelievo e la consegna sulla Terra di un campione da un mondo biologicamente interessante come Marte o Europa. In questo caso, non solo il lander dovrebbe essere sterilizzato ai massimi livelli ma anche la capsula di ritorno che trasporterebbe il campione dovrà essere completamente isolata dalla nave spaziale in modo da evitare ogni forma di contaminazione reciproca.

Finora non abbiamo avuto problemi con le Regioni Speciali. Nessuna zona di Marte è, per ora, segnalata come tale. In effetti, un recente studio suggerirebbe che la superficie di Marte potrebbe essere ancor più mortale per i microbi della Terra di quanto abbiamo pensato.

Visitare alcune località, come la linee di pendenza ricorrente (RSL), in cui l’acqua sembra gocciolare sulla superficie, è difficile non per le normative, ma perché non è facile progettare un rover che possa risalire o scendere le pendenze. Il rover Curiosity della NASA avanza sulle dolci pendenze del monte Sharp, nel cratere di Gale, ma i pendii RSL sono molto più ripidi e sarebbero impraticabili per Curiosity.

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L’RSL sembra promettente, ma si tratta di pendii ripidi difficili da esplorare. NASA / JPL-Caltech

Le cose potrebbero cambiare in futuro se alcune aziende private manterranno i loro programmi. Soprattutto, il CEO di SpaceX, Elon Musk, intende iniziare a inviare missioni robotizzate e con equipaggio umano entro il prossimo decennio. Ciò ha causato in alcuni  la preoccupazione che potrebbero non essere rispettate le linee guida sulle Regioni Speciali.

Il Trattato sull’Outer Space del 1967 stabilisce che ogni entità, pubblica o privata, necessita del permesso del proprio governo prima di lanciare qualcosa nello spazio esterno. Se Musk vorrà programmare una missione in una regione speciale, avrà bisogno di un’approvazione per farlo.

Resta, però, che, al momento, non esistono Regioni Speciali su Marte. La nostra conoscenza del pianeta rosso cresce continuamente e abbiamo capito che in alcuni luoghi potrebbero esserci le condizioni minime per la vita che permetterebbero ai batteri terrestri di sopravvivervi.

Se questi luoghi esistono, dovremo essere molto attenti. Stiamo facendo un lavoro nello studiare la superficie dall’orbita e finora la maggior parte di Marte sembra rientrare nelle aspettative. Ma da qualche parte, ci potrebbe essere una piccola tasca di abitabilità che potremmo rovinare per sempre.

Il mistero della scialuppa abbandonata alla fine del mondo

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Non esiste più posto terribile sulla terra.

L’isola di Bouvet si trova nella parte più estrema dell’Oceano Meridionale, costantemente battuta dalle tempeste, a sud delle Forties Roaring. Si tratta di una macchia di ghiaccio in mezzo a desolazione congelata: pochi chilometri quadrati di basalto vulcanico disabitato coperto da centinaia di metri di ghiacciaio, spesso avvolta dalla nebbia marina, completamente priva di alberi o rifugi, priva anche di luoghi adatti all’atterraggio.

Quest’isola è la sede di un mistero.

Cominciamo questo racconto all’inizio. Bouvet è spaventosamente isolata; La terra più vicina è la costa dell’Antartide, 1.750 km a sud, leggermente più lontane sono Città del Capo e Tristan da Cunha.

L’isola ha una storia piuttosto interessante. Fu scoperta il 1 ° gennaio 1739 dal francese Jean-Baptiste Bouvet de Lozier. L’isola non è stata fissata sulle carte nautiche fino al 1898.

I primi esploratori a cartografarla i marinai del peschereccio norvegese nel 1927. Furono anche i primi ad avventurarsi sull’altopiano centrale di Bouvet, che sale a circa 780m sul livello del mare e consiste di un paio di ghiacciai che coprono i resti di un vulcano ancora attivo. Horntvedt prese possesso dell’isola in nome del re Haakon VII, ribattezzato Bouvetøya (che significa semplicemente “l’isola di Bouvet” in norvegese), lo ha approssimativamente mappato e ha lasciato una piccola cache di disposizioni sulla riva a beneficio di tutti i marinai naufraghi. [Baker pp.72-3]

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Mappa dell’isola di Bouvet come è oggi. La Nyrøysa, dove è stata scoperta la misteriosa scialuppa, si può vedere nella parte nord-occidentale della costa.

Il 2 aprile 1964 una spedizione sudafricana raggiunse l’isola. Il responsabile era il tenente comandante Allan Crawford, Un veterano britannico dell’Atlantico meridionale [Crawford pp.45-114], ed è stato lui a scoprire la misteriosa imbarcazione abbandonata: semiaffondata, evdentemente non manutenuta da tempo ma in condizioni abbastanza buone per poter navigare.

Non esistevano segni per identificare l’origine o la nazionalità. Sulle rocce a cento metri di distanza si trovava un serbatoio da quarantacinque galloni e un paio di remi, con pezzi di legno e un serbatoio di galleggiamento di rame aperto per qualche scopo. Pensando che fossero oggetti portati da dei naufraghi, effettuammo una breve ricerca, ma non resti o segni di presenza umana.”

[Crawford pp.182-3]

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Mappa geologica della Nyrøysa di Peter Baker. La barca di salvataggio è stata trovata nella più grande e più settentrionale delle due lagune (nero ombreggiato) sulla nuova piattaforma lavica.

Era un mistero degno di un’avventura di Sherlock Holmes. L’imbarcazione, che Crawford descrisse come “una barca di salvataggio priva di qualsivoglia segno di identificazione“, deve provenire da una nave più grande. Ma nessuna rotta commerciale è mai passata entro mille miglia da Bouvet. Se si trattasse effettivamente di una scialuppa di salvataggio, allora, da quale nave era venuta? Quale spettacolare navigazione l’aveva portata là attraverso centinaia di miglia di mare? Ma la domanda più inquietante era una sola: cosa ne era stato dell’equipaggio?

In realtà, nessuno oltre Allan Crawford sembra aver avuto il minimo interesse per il mistero. Niente articoli sui giornali dell’epoca né ulteriori dettagli sulla barca stessa, tantomeno degli elementi che si trovavano sulla riva.

Quasi tutto quello che abbiamo è costituito dalle scarne annotazioni di di Crawford, una certa conoscenza della storia dell’isola Bouvet e alcune conclusioni di buon senso riguardo al comportamento probabile dei marinai naufraghi. Con questi elementi è possibile costruire almeno tre possibili ipotesi che potrebbero spiegare la presenza della scialuppa.

Cominceremo con l’indicazione dei fatti che possiamo stabilire. In primo luogo, è chiaro che la barca deve essere arrivata a Bouvet ad un certo punto nei nove anni tra il gennaio 1955, quando la Nyrøysa non esisteva e l’aprile 1964, quando un’eruzione generò questa piattaforma. Si tratta di un periodo di tempo ragionevolmente limitato, e se la scialuppa era veramente una barca di salvataggio, dovrebbe essere possibile stabilire da quale nave provenisse. In secondo luogo, Crawford non vide segni di alcun campo, rifugio, fuoco o cibo. Inoltre, la presenza di una pesante barca in una laguna situata a meno di 30 metri dalla riva suggerisce che sia arrivata all’isola con un equipaggio completo o quasi, sufficiente a trascinarla su un terreno piuttosto ruvido.

Prendiamo innanzitutto la possibilità che la barca sia quella che sembrava essere: una scialuppa di salvataggio proveniente da un naufragio. Sarebbe certamente la spiegazione più drammatica e romantica, e spiega alcune delle cose che Crawford ha annotato: come mai la scialuppa fosse arenata nella laguna e non trascinata sulla riva, probabilmente i passeggeri erano uomini che non sapevano se avrebbero avuto ancora bisogno di quella barca e come mai vi fossero solo due remi, essendosi, probabilmente, persi gli altri in mare durante una traversata terribile.

Ci sono comunque molte cose che non si adattano all’ipotesi di salvataggio, le più evidenti delle quali sono la mancanza di attrezzature e l’assenza di due corpi o di un campo. Non ci sarebbe alcuna buona ragione per un gruppo di sopravvissuti per allontanarsi dal Nyrøysa; È lontano dalla neve, almeno durante l’estate ed è l’unica grande area pianeggiante di terra su tutta l’isola. Ma se un gruppo di sopravvissuti si fosse insediato in questa piccola area e avesse finito per morirvi, tracce di un accampamento, per non parlare dei resti dei loro corpi, avrebbero dovuto essere rinvenuti anche nella ricerca più superficiale.

Forse i naufraghi preferirono spostarsi verso l’interno e sono morti altrove sull’isola? Improbabile. Le scogliere di ghiaccio di Bouvet sono alte e altamente inclini alla valanga, quindi sarebbe molto pericoloso cercare di muoversi all’interno o di accamparsi troppo vicino a uno dei vertiginosi margini rocciosi che abbondano sull’isola. Oltre a ciò, le fonti più evidenti del cibo – le foche di Bouvet e gli elefanti marini – si riuniscono sul Nyrøysa. Non c’era bisogno reale di caccia altrove, a meno che i sopravvissuti non fossero stati sull’isola per tanto tempo e avessero spazzato via la popolazione animale locale ma, se così fosse, i segni di un accampamento dovevano essere doppiamente evidenti. Gli uomini avrebbero sicuramente lasciato i resti di fuochi e pasti a base di elefante di mare.

Infine, perché un gruppo di sopravvissuti, benché ben attrezzati, avrebbe lasciato la barca a galleggare nella laguna? Era l’unico rifugio prontamente disponibile che avevano su un’isola dove, anche in estate, la temperatura media si aggira intorno a zero.

Meno probabile, ma non del tutto impossibile, è l’ipotesi che la scialuppa si sia avvicinata a Bouvet senza equipaggio a bordo. Magari la scialuppa era stata in giro per l’Oceano Meridionale, forse per anni, prima di arenarsi sull’isola. Questa teoria ha la virtù della semplicità, e spiega certamente perché non c’erano segni per identificare la sua origine o la nazionalità, per non parlare dell’assenza di segni di vita sulla riva.

Una terza possibilità è che la barca abbandonata da una nave sconosciuta che capitata Bouvet tra il 1955 e il 1964. Questa ipotesi spiega in modo più convincente la presenza della scialuppa;

L’ipotesi che la barca abbandonata appartenesse ad un gruppo di sbarco ha un altro vantaggio: spiega l’assenza di corpi, di un accampamento e di attrezzature. Supponiamo, ad esempio, che un gruppo di uomini sia sbarcato con due barche, ma abbia poi evacuato l’isola su una sola per qualsivoglia motivo  ecco che si spiega la presenza dell’imbarcazione abbandonata e sarebbe abstato qualche anno di esposizione alle intemperie dei duri inverni della zona per cancellare i segni identificativi dalla scialuppa.

Eppure, anche questa spiegazione, benchè attraente, presenta grossi buchi. Perché un gruppo di sbarco abbandonerebbe una barca così preziosa e apparentemente in buone condizioni?

Un’ultima ipotesi: quelli erano gli anni della guerra fredda e non è difficile immaginare americani e sovietici in gara per occupare le posizioni strategiche più importanti anche in luoghi lontani ed inaccessibili come il profondo mare meridionale. Forse quella scialuppa e quei pochi resti di attrezzature non sono altro che quanto resta di uno scontro mai dichiarato tra esploratori o militari americani e sovietici oppure fu tutto lasciato lì da qualcuno che fu sgombrato in tutta fretta in elicottero prima dell’arrivo di qualcun altro.

Forse non lo sapremo mai.

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fonti

PE Baker. «Note storiche e geologiche su Bouvetoya». Bollettino d’indagine britannico antartico 13 (1967).

Allan Crawford. Tristan da Cunha e le forti Roaring . Edimburgo: Charles Skilton, 1982.

Rupert Gould. “Le Auroras e le altre isole dubbiose”. In stranezze: un libro di fatti inspiegabili . Londra: Geoffrey Bles, 1944.

Charles Hocking. Dizionario dei disastri in mare durante l’età del vapore, comprese le navi da navigazione e le navi di guerra perdute in azione, 1824-1962 . Londra: London Stamp Stamp, 1989.

Norman Hooke. Vittime marittime, 1963-1996. Londra: Lloyd’s di London Press, 1997.

DB Muller, FR Schoeman e EM Van Zinderen Bakker Sr. ‘Alcune note su una ricognizione biologica di Bouvetøya (Antartico)’. Giornale della scienza sudafricana , giugno 1967.

Henry Stommel. Isole perse: la storia delle isole che sono scomparse dalle carte nautiche . Victoria [BC]: Università di British Columbia Pess, 1984.

EM Van Zinderen Bakker. «Il sondaggio biologico e geologico sudafricano delle isole Marion e Prince Edward e la spedizione meteorologica all’isola di Bouvet». Journal of Scienza Sudafrica 63 (1967).

BP Watkins et al. ‘Ricerca scientifica all’isola di Bouvet, 1785-1983: una bibliografia .’ Journal of South African Antarctic Research 25 (1984) .