mercoledì, Aprile 2, 2025
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Perchè siamo riusciti ad avere un’immagine di un buco nero a 55 milioni di anni luce invece che del molto più vicino buco nero centrale della nostra galassia?

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Lo scorso aprile suscitò grande emozione la diffusione della prima immagine di qualcosa che per lungo tempo era stato confinato all’interno delle teorie astruse, il buco nero nel cuore della galassia M87, grande come tutto il nostro sistema solare e con una massa sei miliardi e mezzo di volte maggiore di quella del nostro Sole. L’immagine fu resa possibile dall’uso di un obiettivo virtuale delle dimensioni del pianeta Terra e 4000 volte più potente del telescopio spaziale Hubble.

Secondo gli astronomi, la galassia M87, la galassia più grande e ricca di massa dell’universo circostante a noi, è cresciuta fino alle sue dimensioni attuali grazie alla fusione con un centinaio di galassie più piccole. Lo stesso buco nero al centro di M87 dovrebbe essere arrivato alle attuali dimensioni fondendosi con molti altri buchi neri della sua galassia e quelli delle galassie assorbite.

L’immagine del buco nero che siamo riusciti a vedere (grazie alle enormi dimensioni e la relativa vicinanza) è congelata nel tempo a 55 milioni di anni fa, perché tale è la sua distanza dalla Terra in anni luce. “Rispetto a 55 milioni di anni fa, sulla Terra siamo emersi noi esseri umani, con i nostri miti, culture differenziate, ideologie, lingue e credenze varie“, dice l’astrofisica Janna Levin, della Columbia University.

L’Event Horizon Telescope che ha permesso di visualizzare il buco nero è composto in realtà da 10 telescopi, collegati tra loro attraverso quattro continenti tra Stati Uniti, Messico, Cile, Spagna e Antartide, progettati ognuno per scansionare le onde radio del cosmo. Per alcuni giorni, nell’aprile del 2017, gli osservatori hanno studiato il cielo tutti insieme, creando, di fatto, un gigantesco telescopio quasi delle dimensioni del pianeta.

Una galassia di medie dimensioni è caduta attraverso il centro di M87, e come conseguenza delle enormi forze di marea gravitazionale, le sue stelle sono ora disperse su una regione che è 100 volte più grande della galassia originale!“, Ha detto Ortwin Gerhard, a capo del gruppo di dinamiche all’Istituto Max Planck per la fisica extraterrestre. Le osservazioni del luglio 2018 con il Very Large Telescope dell’ESO hanno rivelato che la galassia ellittica gigante ha inghiottito un’intera galassia di medie dimensioni nell’ultimo miliardo di anni.

M87 ospita al suo centro un buco nero supermassiccio che emette due getti di materiale nello spazio quasi alla velocità della luce. Proprio grazie alle sue enromi dimensioni e alla sua luminosità, pur essendo situato a circa 55 milioni di anni luce dalla Terra, M87 è stato oggetto di studio astronomico per oltre 100 anni ed è stato ripreso da moltei telescopi orbitali della NASA, tra cui il Telescopio Spaziale Hubble, l’Osservatorio a raggi X Chandra e NuSTAR.

Nel 1918, l’astronomo Heber Curtis notò per la prima volta “un curioso raggio dritto” che si estendeva dal centro della galassia M87. Questo getto luminoso di materiale ad alta energia, prodotto dal disco di materiale che gira rapidamente attorno al buco nero, è visibile in più lunghezze d’onda della luce, dalle onde radio fino ai raggi X. Quando le particelle nel getto colpiscono il mezzo interstellare, creano un’onda d’urto che irradia nelle lunghezze d’onda infrarosse e radio della luce, ma non della luce visibile.

M87 Black Hole

A destra è la prima immagine del buco nero nel cuore della galassia M87, ripresa dall’Event Horizon Telescope. La veduta a cielo aperto dell’osservatorio a raggi X della NASA Chandra (a sinistra) rivela il getto di particelle ad alta energia lanciate dagli intensi campi gravitazionali e magnetici attorno al buco nero. Credito: raggi X (a sinistra): NASA / CXC / Università di Villanova / J. Neilsen; Radio (a destra): Event Horizon Telescope Collaboration.

Il professore di storia di Harvard, Peter L. Galison, un collaboratore dell’Event Horizon Telescope (EHT), ha affermato che gli scienziati proposero i primi argomenti teorici sui buchi neri già nel 1916. Nel 2016 gli scienziati annunciarono di avere rilevato, per la prima volta, le onde gravitazionali, che secondo molti vengono prodotte dalla fusione dei buchi neri, e quindi erano considerate la prova dell’esistenza dei buchi neri.

L’immagine del grande buco nero al centro di M87 ha segnato il culmine di anni di lavoro intrapresi da un team di 200 scienziati in 59 istituti in 18 paesi. Il progetto, al quale hanno contribuito anche altri scienziati del Black Hole Institute di Harvard, ha tratto i dati raccolti da otto telescopi le cui sedi spaziano dalle Hawaii al Polo Sud.

Ma perché siamo riusciti a fotografare un oggetto posto all’inimmaginabile distanza di 55 milioni di anni luce e non Sag A *, il buco nero rotante supermassiccio che si trova al centro della nostra galassia?

A differenza del mostro di M87, il buco nero centrale della Via Lattea, Sag A *, ha una massa quattro milioni di volte maggiore di quella del nostro Sole. Potrebbe sembrare un grande obiettivo, ma per un telescopio sulla Terra, situato a circa 26.000 anni luce (o 245 trilioni di chilometri) di distanza, è come provare a fotografare una pallina da golf sulla Luna.

Più di 50 anni fa, gli scienziati hanno visto che al centro della nostra galassia c’era qualcosa di molto luminoso,” spiega Paul McNamara, astrofisico dell’Agenzia Spaziale Europea ed esperto di buchi neri. Sag A * ha un’attrazione gravitazionale abbastanza forte da far sì che le stelle vicine gli orbitino intorno ad esso molto rapidamente (circa 20 anni, il nostro sistema solare che si trova alla periferia della galassia, impiega circa 230 milioni di anni per girare intorno al centro della Via Lattea).

Il problema per fotografare Sag A * è che dalla nostra posizione bisogna guardare attraverso una quantità enorme di stelle e polvere cosmica per osservare il centro della galassia e Sag A *, pur essendo un buco nero rotante supermassiccio, rispetto al buco nero al centro di M87 è poco più di un granello di polvere. Insomma, date le dimensioni, è stato molto più semplice fotografare il buco nero della galassia M87 di quanto lo sarebbe stato prendere un’immagine di Sag A *.

Siamo nella periferia della nostra galassia: per raggiungere il centro e inquadrare Sag A *, un microbo di fronte al buco nero di M87, dovremmo riuscire a guardare attraverso una quantità enorme di stelle e polvere.” ha detto McNamara.

Instagram blocca gli hashtag anti-vax per combattere la disinformazione

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Instagram sta bloccando diversi hashtag anti-vax che alcuni utenti utilizzano per diffondere disinformazione sull’argomento vaccini attraverso la popolare piattaforma per fotografie.

La portavoce dell’azienda Stephanie Otway ha confermato che l’app bloccherà #vaccineskill, aggiungendolo ad hashtag già bloccati da alcuni giorni quali #vaccinescauseautism, #vaccinescauseaids e #vaccinesarepoison. 

La Otway ha spiegato che la misura è intesa a combattere le false informazioni diffuse attraverso i post con questi hashtag, così come gli hashtag stessi.

In pratica, da ora gli utenti non potranno più effettuare ricerche utilizzando questi hashtag che non visualizzeranno nessun risultato.

Secondo la CNN, Instagram ha deciso di agire anche contro l’hashtag #vaccineskill dopo che da apposite verifiche si era evidenziato che era ancora uno degli hastag più in voga e con il maggior numero di risultati nelle ricerche che utilizzavano il termine “vaccini“.

Per definire lo standard per gli hashtag che saranno consentiti nelle ricerche in campo sanitario, Instagram sta utilizzando le informazioni fornite dall’Organizzazione Mondiale della Sanità e dai Centri statunitensi per il controllo e la prevenzione delle malattie (CDC).

La campagna contro i contenuti cosiddetti “anti-vax” si è concretizzata a causa delle preoccupazioni suscitate da un’epidemia di morbillo che ha continuato a crescere negli Stati Uniti, con 764 casi confermati in 23 stati solo quest’anno, un’epidemia che ha coinvolto esclusivamente soggetti non vaccinati.

A febbraio, TechCrunch aveva riferito che YouTube ha stabilito di demonetizzare i canali che diffondono propaganda anti vax.

Seguendo l’esempio, Amazon ha eliminato dalla sua piattaforma  di streaming video Prime, film e documentari a tema anti-vax dopo aver subito forti pressioni da parte di gran parte del pubblico degli abbonati e del rappresentante Adam Schiff (D-Calif.). Nello stesso mese, Facebook ha rivelato il suo piano per affrontare il problema, affermando che avrebbe abbassato il ranking delle pagine e dei gruppi che promuovono la disinformazione sui vaccini, oltre a respingere le pubblicità anti-vax.

Nonostante i nuovi sforzi sui social media per arginare il flusso di contenuti dannosi, la CNN ha riferito che alcuni hashtag collegati a post anti-vaccino come #VaccinesHarm sono ancora utilizzati su Instagram.

La Otway ha, però, affermato che la società continuerà ad aggiornare l’elenco degli hashtag bloccati.

Guglielmo Marconi ed i segnali alieni

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L’Italia ha dato un contributo enorme nello studio delle onde radio e della possibilità di utilizzarle per le trasmissioni. Alla fine del XIX secolo erano diversi gli scienziati che cercavano un modo di utilizzare le onde radio e, a battere tutti sul tempo, fu un italiano, Guglielmo Marconi, l’inventore del telegrafo senza fili.

L’8 dicembre 1895 Marconi riuscì a perfezionare un apparecchio capace di trasmettere e ricevere segnali a distanza anche in presenza di ostacoli. Anche Nikola Tesla e Alksandr Popov erano riusciti a mettere a punto apparati analoghi ma l’ingegno e l’efficacia del dispositivo ideato da Marconi, grazie a una grande diffusione dell’invenzione, ne decretarono la paternità attribuitagli.

Non tutti sanno che, dopo 25 anni, quando il telegrafo senza fili era ormai una realtà affermata, Guglielmo Marconi si imbatté in dei segnali che interpretò come provenienti da esseri extraterrestri. Nel 1920 usci una notizia sul New York Times raccolta dal Daily Mail che raccontava che il genio italiano Marconi stava studiando delle trasmissioni radio di origine sconosciute citando le testuali parole di Marconi stesso:

Nessuno può ancora affermare se esse abbiano origine sulla Terra o su altri Mondi”.

All’epoca dei fatti la storia fu commentata da diversi organi di stampa in tutto il mondo, alcuni amnenendo una posizione di scetticismo sulla faccenda ma altri davano credito alla notizia pur non essendo dell’idea che i segnali potessero essere extraterrestri, tra questi ultimi Edouard Branly, fisico e inventore francese padre di alcune importanti scoperte sulle onde elettromagnetiche che obiettò:

Se attribuiamo questi fenomeni alle eruzioni solari, come possiamo spiegare il fatto che siano in linguaggio Morse? Se li attribuiamo a sorgenti interplanetarie (ammettendo che i pianeti sono disabitati), dobbiamo assumere che quelle persone abbiano raggiunto un grado di sviluppo paragonabile al nostro e che la loro scienza abbia permesso loro di costruire strumenti simili ai nostri. Questa sarebbe una successione di coincidenze che io definirei improbabile”.

La prudenza e la logica scientifica andavano contro le dichiarazioni di Marconi, Anche il professor Leon Chaffee della Harvard University era tra quelli che attribuivano i segnali captati da Marconi a fenomeni di disturbo definiti “segnali parassiti, nient’altro che disturbi elettrici di origine atmosferica.

M. Baillaud, all’epoca direttore dell’Observatoire de Paris, affermò che sulla torre Eiffel (monumento che deve proprio alla radiotelegrafia la sua stessa sopravvivenza) non era mai stata segnalata la presenza dei segnali radio citati da Marconi (captati a Londra e New York).

Alcuni avanzarono l’ipotesi che Marconi avesse captato onde provenienti dal Sole, le onde Herziane scoperte dal francese Charles Normand nel 1902 sul monte bianco. Tale ipotesi fu presa in esame anche in seguito quando, nel 1931, un fisico e ingegnere statunitense, Karl Guthe Jansk, scopri le onde radio emesse dalla Via Lattea, la nostra galassia.

Anche il famoso astronomo Camille Flammarion prese posizione sull’ipotesi che i segnali radio fossero originati dal Sole, infatti parlando dei segnali provenienti dallo spazio, ecco cosa disse:

Marte ci spedisce dei messaggi? Questa è la domanda che ci ha interessato per lungo tempo, fin dalla pubblicazione delle mappe geografiche marziane, sulle quali sono state osservate caratteristiche singolari, le cui origini non sembrano essere dovute al mero caso. Dovremmo essere felici di fare un ulteriore passo verso i nostri vicini nel cielo che, forse, nei secoli hanno a noi indirizzato segnali ai quali non abbiamo mai saputo rispondere, essendo l’umanità terrestre assorbita dalle volgari esigenze degli affari materiali.” Flammarion, non nuovo a dichiarazioni stravaganti, andò ben oltre, ipotizzando la possibilità di comunicare telepaticamente con una fantomatica civiltà marziana.

Un anno dopo, nel settembre del 1921, sullo stesso New York Times, J. H. C. Macbeth, manager della sede londinese della Marconi Wireless Telegraph Company Ltd., riportò la convinzione di Marconi sulla natura extraterrestre dei segnali radio captati.

La notizia riportava che sarebbe stato possibile di li a breve di decodificare i segnali ricevuti. Per Marconi i segnali erano indiscutibilmente extraterrestri in quanto la lunghezza d’onda dei segnali registrati era di gran lunga superiore di quella di cui erano capaci gli apparecchi di trasmissione dell’epoca. Perciò, secondo Marconi, erano da escludere segnali di origine atmosferica e rincarò la dose affermando di aver individuato una lettera dell’alfabeto Morse in una delle trasmissioni intercettate.

Si era venuto a creare una sorta di circolo vizioso, l’esistenza dei segnali confermava l’esistenza dei marziani e anche uno scettico come M. Baillaud, espresse fiducia nella teoria di Marconi. L’inventore del telegrafo, portò avanti il tentativo di un contatto con i presunti alieni. Il 15 dicembre 1931, dopo anni di infruttuosa ricerca di prove a supporto della sua teoria, Marconi dichiarò al quotidiano Evening Standard che:

Ammesso che le stelle siano abitate da esseri intelligenti, che abbiano una natura simile alla nostra, non vedo perché non dovremmo comunicare con loro per mezzo delle onde hertziane.”

A quel punto, la posizione di Marconi era cambiata, diventando più prudente, concentrandosi su una possibilità tecnica e non più su una convinzione che si stava nel tempo radicando in molti. Ormai sono trascorsi troppi anni da allora e non disponiamo di molte informazioni sulle idee di Marconi sull’esistenza di esseri alieni, e non abbiamo nemmeno le registrazioni dei segnali che avrebbe captato, così non sapremo mai cosa effettivamente registrò, se segnali parassiti o onde Hertziane proveniente dal Sole o da altri mondi.

Anche i geni sbagliano o prendono cantonate e, forse spinto dal fermento scientifico su Marte e i marziani che, all’epoca nascevano, si fece suggestionare rendendolo vittima illustre di apofenia, definibile come il riconoscimento di schemi o connessioni in dati casuali o senza alcun senso.

Il termine è stato coniato nel 1958 da Klaus Conrad, che la definì come una “immotivata visione di connessioni” accompagnata da una “anormale significatività.

Un fenomeno ricorrente nell’evoluzione delle conoscenze dell’uomo legate a Marte, se solo pensiamo a quante volte sono stati segnalati sul suolo del Pianeta Rosso facce, costruzioni o presunti resti di macchinari alieni.

Fonti: Query on line; Wikipedia

Il mistero dei cerchi nel mare di Dugi Otok

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Dugi Otok è, una piccola isola nel mare adriatico posta di fronte alla costa dalmata, ad ovest di Zara, molto apprezzata dai turisti che vengono a visitarla da ogni parte del mondo. Nel 2014 venne fatta una strana scoperta, sul fondale marino al largo dell’isola sono stati scoperti 28 cerchi, ciascuno del diametro di 50 metri.

I cerchi, posti alla distanza di 300 metri dalla costa di Dugi Otok, e alla distanza di 300 m uno dall’altro, sono un mistero che occupa scienziati e biologi ma ha attirato l’attenzione anche di esperti di UFO di tutto il mondo.

La notizia dei cerchi misteriosi, visibili tramite Google Maps, ha raggiunto presto i telegiornali croati. La notizia è stata riportata in molti siti “complottisti” che non si sono certo risparmiati con fantasiose descrizioni.

I cerchi sono reali, come testimoniato anche dal biologo Mosor Prvan della Sunce Association, una società no profit che per prima si è accorta di questo curioso fenomeno e ha effettuato un’immersione in loco.

Si tratta di cerchi sabbiosi regolari, del diametro di circa 50 metri, privi di vegetazione marina, in zone altrimenti ricche di Posidonia oceanica.

In base a quanto riportato da Prvan, le prime tracce del fenomeno risalgono al 2013 e non sono limitate all’isola di Dugi Otok: la sua equipe, infatti, ha notato dei cerchi intorno alle isole di Unije, Susak e Srakane durante lo svolgimento di un lavoro di mappatura degli habitat marini della zona.

Le spiegazioni al fenomeno sono diverse, da quelle più esotiche, che collegano i cerchi marini con l’avvistamento di oggetti volanti non identificati, segnalazione avvenuta nel maggio del 2014, a spiegazioni che identificano le tracce circolari come causate dai movimenti tettonici della placca africana. Il fenomeno potrebbe anche essere spiegato, secondo alcuni, dalle tracce lasciate da allevamenti ittici, molti di questi infatti utilizzano gabbie dalla forma circolare, inoltre le deiezioni dei pesci chiusi nelle gabbie, essendo concentrate in una piccola area potrebbero causare la morte della posidonia riscontrate all’interno dei cerchi.

Altri cerchi vennero segnalati anche in Danimarca ma le tracce erano irregolari e più piccole. Tali cerchi furono spiegati con la presenza di agenti inquinanti che provocavano la morte della flora marina.

Il Journal of the Marine Biological Association of the UK, riportò il fenomeno con un articolo pubblicato dal dottor Petar Kruži, del dipartimento di biologia dell’università di Zagabria, del cui abstract riportiamo una versione tradotta ed abbreviata trovata sul sito Query on line:

Sebbene i’impatto antropogenico sulle praterie di Posidonia oceanica nel mar mediterraneo sia stato largamente studiato durante gli ultimi decenni, i dati sullo stato di questa angiosperma sono molto più scarsi per quanto riguarda il mar adriatico. Campioni di P. oceanica sono stati raccolti durante giugno e luglio del 2004 da subacquei presso 8 diversi siti nell’area dell’isola di Dugi Otok, tutti da una profondità di 10 metri. È stata misurata la densità di virgulti nella prateria e sono ne stati raccolti alcuni campioni per essere esaminati […] Differenze significative nella struttura della P. oceanica sono risultate evidenti tra i diversi siti, soprattutto per quanto riguarda quelli collocati in prossimità di allevamenti di pesce. […]”

Il mistero sembrerebbe apparentemente risolto spiegando la genesi dei cerchi causati da un danno causato dall’itticoltura. Apprendiamo che la redazione di Query ha in seguito contattato il professor Kruži chiedendo una sua opinione sulla questione, scoprendo che lo stesso Kruži aveva assistito alla formazione di alcuni di questi cerchi.
Ecco una traduzione della sua gentile risposta tratta da Query on line:

Questi cerchi nella Posidonia non sono collegati all’itticoltura. Sono dovuti alla pesca con la dinamite. Durante alcune immersioni presso il Kornati National Park abbiamo notato queste formazioni e sentito delle esplosioni. I pescatori gettano la dinamite (bombe a mano, residuati dell’ultima guerra in Croazia) ogni tot minuti (per questo i cerchi sono quasi equidistanti) e poi tornano a raccogliere i pesci morti. Un sistema di pesca estremamente primitivo e distruttivo. Lo fanno solitamente in inverno, quando non c’è in giro la polizia. I giornali in Croazia hanno scritto un sacco di buffonate circa questi cerchi (UFO, marina militare…). La dinamite (granate) crea dei cerchi quasi perfetti nella Posidonia e le piante non ricrescono più in quelle zone. Per questo i cerchi possono anche essere vecchi di anni. Spero di esservi stato utile.”

Con buona pace dei tanti appassionati del mistero possiamo dire che gli UFO non c’entrano.

Fonti: Query on line; www.croazia.ch

Il cuore di alcuni animali può adattarsi a sopravvivere in mancanza di ossigeno

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Durante il periodo invernale, alcune tartarughe entrano in letargo all’interno di stagni e laghi. Nascosti in modo sicuro sotto un sottile strato di ghiaccio, questi rettili d’acqua dolce possono sopravvivere fino a sei mesi in totale assenza di ossigeno.

Pare proprio che queste creature, fin dall’inizio della loro esistenza, si adattino ad una vita in stato di ipossia. Sviluppandosi in nidi situati nelle profondità di stagni e laghi, gli embrioni di tartaruga devono sopravvivere e crescere in una situazione in cui ottengono ossigeno respirabile (O2) molto raramente, e questo altera permanentemente la loro struttura e funzione cardiaca.
Siamo entusiasti di essere stati i primi a dimostrare che è possibile modificare il grado di tolleranza che le tartarughe hanno per gli ambienti a bassa disponibilità di ossigeno a causa dell’esposizione precoce all’ipossia durante lo sviluppo“,  afferma il  biologo cardiaco Ilan Ruhr dell’Università di Manchester.

 

La sopravvivenza in condizioni di ipossia dipende dalla capacità del cuore di continuare a fornire nutrienti ed evitare sprechi di energia. Gli esseri umani colpiti da infarto del miocardio subiscono un danneggiamento del cuore causato dall’ostruzione di una delle arterie coronarie che provoca ipossia nelle cellule del miocardio non più rifornite di ossigeno portato dal sangue arterioso. Una cosa simile accade al cuore durante i trapianti di cuore, nella fase in cui si passa alla circolazione extracorporea.

Diversamente da noi, i rettili come le tartarughe e gli alligatori possono resistere ad ambienti estremi e mantenere il loro metabolismo e la loro funzione muscolare. Per capire cosa accade a livello cellulare, i ricercatori hanno studiato un gruppo di giovani tartarughe comuni (Chelydra serpentina), metà delle quali sviluppate in condizioni normali di ossigeno del 21%, e metà delle quali sviluppate con livelli di ossigeno di appena il 10% .

Isolando le cellule muscolari dal cuore, Queste sono state poi sottoposte a livelli più bassi di ossigeno, consentendo al team di misurare i cambiamenti nel pH, di calcio intracellulare (che aiuta a contrarre i muscoli del cuore) e delle sostanze chimiche chiamate ROS (specie reattive dell’ossigeno).

Anche dopo la reintroduzione di livelli normali di ossigeno, qualcosa che può provocare un esteso danno tissutale nei mammiferi, le cellule del cuore delle tartarughe non hanno mostrato danni apparenti.

I risultati suggeriscono che, evolutivamente, la presenza o meno dell’ossigeno è un importante segnale ambientale per l’attivazione e la disattivazione di alcuni geni, che consentono al cuore della tartaruga di tollerare l’ossigeno zero.

L’esposizione improvvisa non solo riduce la quantità di ROS, una molecola che può diventare tossica quando il tessuto viene riossigenato troppo rapidamente, ma può anche proteggere le cellule muscolari cardiache da danni, permettendo loro di contrarsi normalmente anche in completa assenza di ossigeno.

Collettivamente, questi risultati suggeriscono che l’adattamento evolutivo all’ipossia altera le vie coinvolte nella gestione dei ROS che possono proteggere il cuore dallo stress ossidativo“, concludono gli autori.

I ricercatori sperano che questa conoscenza possa essere, un giorno, usata per mantenere vivo il cuore umano in condizioni di ipossia. Ad esempio, in futuro un farmaco potrebbe essere in grado di attivare gli stessi meccanismi e proteggere il cuore umano dalla privazione dell’ossigeno.

Le cellule cardiache di tartarughe e umani sono anatomicamente molto simili“, spiega la  fisiologa comparata Gina Galli dell’Università di Manchester, “quindi se riusciremo a capire quali fattori consentono alle tartarughe di sopravvivere in un ambiente privo di ossigeno, potremmo imparare ad applicare gli stessi processi in scenari medici come, ad esempio, i trapianti“.

La ricerca è stata pubblicata in Proceedings of the Royal Society B

Xiaomi Mi Band 3 in promozione su Amazon a € 25,80

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Xiaomi Mi Band 3 è un braccialetto dal peso di 20 grammi e di 12 millimetri di spessore, collegabile ad uno smartphone Android o iOS. Ha uno schermo touchscreen progettato per mostrare notifiche, segnalare le chiamate in arrivo, gli SMS, l’ora, il meteo, le statistiche sull’attività fisica, il cronometro, la sveglia. Nella sua dotazione hardware spicca il cardiofrequenzimetro attivo 24 ore su 24, così come la batteria da 110 mAh per 20 giorni di autonomia reale. È anche impermeabile fino a 5 ATM, per cui può essere usato per immersioni fino ai 50 metri.

Mi Band 3 è attualmente in promozione su Amazon a € 25,80 contro i 29,99 del prezzo pieno.

Lo schermo, ben integrato nel bracciale, è ottimamente protetto da un vetro Gorilla Glass con angoli curvi 2.5D, che dona all’oggetto un design lineare e una struttura solida. Il pulsante di gestione è installato sotto al vetro, che risulta leggermente incavato proprio in corrispondenza del pulsante.

Ben fatta la chiusura del cinturino che grazie ad un grande perno permette una chiusura sicura. Esiste in un’unica versione regolabile dai dai 155 ai 216 mm.

xiaomi 1

Il bracciale è dotato di modulo Bluetooth 4.2, batteria da 110 mAh,impermeabilità e un’app Mi Fit localizzata in italiano con la quale è possibile regolare e gestire le varie funzioni. Tra le più utili e importanti è da segnalare la funzione “Trova telefono”, le previsioni meteo a tre giorni con possibilità di selezionare il luogo d’interesse, il controllo continuo del battito cardiaco con regolazione del tempo tra una lettura e l’altra, la funzione “ruota o solleva il polso per accendere”, le watchfaces, la selezione delle app che possono inviare notifiche, le regolazioni sulla segnalazione delle chiamate in arrivo, sveglie e allarmi vari oltre al classico promemoria di inattività.

La maggior parte di queste funzioni sono sull’app Mi Fit installabile su Android e iOS. Mi Band 3 è in grado di usare l’accelerometro interno e il sensore cardio PPG per fornire dati approssimativi sulla distanza percorsa e le calorie bruciate.

app mi fit

Se tenuto al polso durante la notte, Mi Band 3 valuta la profondità del sonno e le eventuali interruzioni. Tutte le informazioni saranno consultabili tramite l’app installata sullo smartphone.

L’app Mi Fit, tutto sommato, è adeguata alle esigenze di chiunque, considerando le tante funzionalità e le varie personalizzazioni possibili. Dalla selezione alle app che possono inviare notifiche, al modo in cui ci avvisa una chiamata in arrivo, agli alert, gli obiettivi e lo sblocco dello schermo in prossimità dello smartphone, fino alle impostazioni display del bracciale. Tutto in italiano, e tutto aggiornato con frequenza.

Il vero punto di forza di questo grazioso oggettino è l’autonomia. Nonostante sia costantemente attivo o in ascolto nelle 24 ore, Mi Band 3 arriva a 20 giorni di autonomia. Solo chi fa attività sportiva due volte al giorno, e chi ha attivato il controllo 24/7 del battito cardiaco con letture ogni 10 minuti, potrebbe doverla caricare ogni 10 giorni anziché ogni 20.

In definitiva, Mi Band 3 è consigliabile per via del suo basso prezzo rapportato alal qualità discreta che garantisce. L’hardware funziona come descritto dalla casa, è comodo ed elegante da indossare.

contenuto della confezione

Non è consigliabile per misurare l’attività fisica di atleti in allenamento ma sicuramente consigliabile per avere un’idea di quanta attività si svolge o non si svolge rispetto agli obbiettivi prefissati.È un’ottimo assistente per lo smartphone, vibra quando arriva una notifica, permette di essere avvisati quando arriva una chiamata, permette la gestione degli appuntamenti e di avere la sveglia senza disturbare eventuali compagni di sonno.

È leggero e discreto al polso, facile da comandare con il suo piccolo touch, resistente alla doccia o ad un tuffo in mare. Se vi serve o vi piace qualcosa di simile, prendetelo: è uno sfizio e a questo prezzo non ha rivali. Soprattutto, è un’ottima idea regalo.

La leggenda del Mokele mbembe

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Il nome “Mokele mbeme” o “colui che ostacola il corso dei fiumi” appartiene a un presunto animale la cui esistenza non è ancora certa. Della sua esistenza parlano alcuni indigeni della Repubblica del Congo che affermano che l’essere vivrebbe circa 800 chilometri a nord di Brazzaville, nella regione di Likouala, in una vasta palude di 130.000 chilometri quadrati.

L’animale avrebbe diversi nomi, i banziri, ad esempio, lo chiamano songo mentre i banda lo chiamano badigui o diavolo acquatico. Fu un missionario francese il primo europeo a parlare di questo animale, il missionario era l’abate Proyan che nel 1765 lo descrisse come “un incrocio tra un ippopotamo, un elefante e un leone con un lungo collo da giraffa e una cosa altrettanto lunga simile a quella di un serpente con la pelle liscia color grigio/bruna con una struttura corporea simile a quella di un elefante”.

Questa descrizione ha richiamato alla mente di alcuni ricercatori un dinosauro simile a un apatosauro. Anche i pigmei ne parlano nei loro racconti, affermando che il leggendario animale si muoveva su possenti zampe che lasciano impronte facilmente visibili. Dell’animale però esiste solo una foto che immortala un’orma a tre dita tipica dei dinosauri che esclude i sauropodi a cinque dita, profonda qualche centimetro. Per alcuni però l’orma misteriosa apparterrebbe a un ippopotamo e l’azione del vento l’avrebbe modificata.

Che il misterioso Mokele mbembe possa essere un superstite degli estinti dinosauri? Sono passati 65 milioni di anni dalla grande estinzione e oggi i discendenti sono molto diversi. Possibile che esistano animali delle dimensioni descritte che ancora non sono stati scoperti e classificati?

In fondo, le chiacchiere dei residenti nell’area riportano di un animale di una certa dimensione, a quanto pare addirittura  più grande di un elefante o un ippopotamo, difficile che in tutto questo tempo non abbia lasciato tracce di rilievo, escrementi o resti ossei o non abbia nemici naturali che lo caccino.

Sicuramente, Mokele mbembe è il frutto di qualche antica leggenda e tale è destinato a restare nel folklorelocale, come è successo ad altri misteriosi animali che la mente umana ha creduto di vedere e cercato di trovare, uno per tutti il mostro di Lockness

Alcuni scienziati hanno pensato che il Mokele Mbembe possa essere in realtà una specie sconosciuta di varano. Il più grande varano esistente è il drago di Komodo che misura dai 3 ai 4 metri di lunghezza.

È possibile che nelle paludi di Likouala ne esista una specie di più grandi dimensioni? Quest’ipotesi affascina e sembra suscitare un grande interesse presso gli zoologi, dato che un varano gigante, il Melagamia, è vissuto in Australia nel Pleistocene e trovarne uno vivente in Africa sarebbe un fatto eccezionale per la zoologia.

Fonte: Wikipedia

Un algoritmo per mappare un insieme di probabilità multiforme ed analizzare meglio l’universo

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Mentre i cosmologi meditano su questo e su altri universi possibili, i dati a loro disposizione sono così complessi e vasti che può essere estremamente difficile per gli umani comprendere il quadro d’insieme.

Nell’applicare i principi scientifici utilizzati per creare modelli per la comprensione della biologia cellulare e della fisica alle sfide della cosmologia e dei big data, i ricercatori della Cornell University hanno sviluppato un promettente algoritmo per mappare un insieme di probabilità multiforme.

Il nuovo metodo, che i ricercatori hanno utilizzato per visualizzare i modelli dell’universo, potrebbe aiutare a risolvere alcuni dei più grandi misteri della fisica, come la natura dell’energia oscura o le caratteristiche possibili di altri universi.

La scienza funziona perché le cose si comportano molto più semplicemente di quanto non abbiano diritto“, ha affermato James Sethna, professore di fisica e autore senior di “Visualizzazione dei modelli probabilistici con analisi dei componenti principali intensivi“, pubblicato online il 24 giugno negli Atti della Accademia delle scienze nazionale. “Le cose molto complicate finiscono per avere un comportamento collettivo piuttosto semplice.”

Questo, ha spiegato, succede perché non tutti i fattori di un sistema sono significativi. Ad esempio, milioni di atomi possono essere coinvolti in una collisione fisica, ma il loro comportamento è determinato da un numero relativamente piccolo di costanti. I dati sull’universo raccolti dai potenti telescopi, tuttavia, hanno così tanti parametri che può essere difficile per i ricercatori capire quali sono le misure più importanti per rivelare le intuizioni.

L’algoritmo sviluppato dal primo autore dello studio Katherine Quinn, consente ai ricercatori di immaginare una vasta serie di probabilità per cercare modelli o altre informazioni che potrebbero essere utili e fornisce loro una migliore intuizione per la comprensione di modelli e dati complessi.

Dato che abbiamo dataset molto più grandi e migliori, con terabyte e terabyte di informazioni, diventa sempre più difficile capirli davvero“, ha detto Quinn. “Una persona non può semplicemente sedersi e farlo, è necessario sviluppare algoritmi migliori in grado di estrarre ciò che ci interessa, senza che gli venga detto cosa cercare. Non possiamo semplicemente dire ‘Cerca universi interessanti’. Questo algoritmo è un modo per districare le informazioni in un modo che può rivelare l’interessante struttura dei dati“.

A complicare ulteriormente il compito dei ricercatori c’è il fatto che i dati consistono in intervalli di probabilità, piuttosto che immagini o numeri grezzi. “È un problema difficile da gestire“, ha commentato Quinn.

La loro soluzione sfrutta le diverse proprietà delle distribuzioni di probabilità per visualizzare una raccolta di cose che potrebbero accadereOltre che alla cosmologia, il loro modello ha applicazioni anche per l’apprendimento automatico e la fisica statistica, che funzionano pure loro in termini di previsioni.

Per testare l’algoritmo, i ricercatori hanno utilizzato i dati del satellite Planck dell’Agenzia spaziale europea e li hanno studiati con il co-autore Michael Niemack, professore associato di fisica, il cui laboratorio sviluppa strumenti per studiare la formazione e l’evoluzione dell’universo misurando la radiazione a microonde. Hanno applicato il modello ai dati sulla radiazione cosmica di fondo-radiazione rimasta dai primi giorni dell’universo.

Il modello ha prodotto una mappa che mostra le possibili caratteristiche di diversi universi, di cui il nostro universo è un punto. Questo nuovo metodo di visualizzazione delle qualità del nostro universo evidenzia la struttura gerarchica dell’energia oscura e il modello dominato dalla materia oscura che si adatta così bene ai dati dello sfondo delle microonde cosmiche. Mentre la struttura non è sorprendente, queste visualizzazioni presentano un approccio promettente per ottimizzare le misurazioni cosmologiche in futuro, sostiene Niemack.

In futuro, i ricercatori cercheranno di espandere questo approccio per consentire di utilizzare più parametri per ogni punto di dati. Mappare tali dati potrebbe rivelare nuove informazioni sul nostro universo, su altri possibili universi o sull’energia oscura, che sembra essere la forma dominante di energia nel nostro universo, ma su quali fisici ancora conoscano poco.

Usiamo solo modelli grezzi per spiegare quale energia oscura potrebbe essere, o come potrebbe evolvere nel tempo“, ha detto Niemack. “Ci sono un sacco di diversi parametri che potrebbero essere aggiunti ai modelli, e quindi potremmo visualizzarli e decidere quali sono le misure importanti da privilegiare, per cercare di capire quale modello di energia oscura descrive meglio il nostro universo“.

Fonti: Katherine N. Quinn et al., Visualizzazione di modelli e dati probabilistici con Analisi della componente principale intensiva, Atti della National Academy of Sciences (2019). DOI: 10.1073 / pnas.1817218116, Phys.org

Scoperta una strana connessione tra raggi gamma e fulmini

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Per la prima volta, gli scienziati hanno potuto stabilire l’esistenza di un collegamento tra due tipi di fenomeni apparentemente scollegati, quali i raggi gamma e le nubi temporalesche, suggerendo che deboli scoppi di raggi gamma potrebbero precedere i fulmini in determinate condizioni.

I due fenomeni in questione sono le emissioni deboli chiamate bagliori a raggi gamma, che durano circa un minuto, e lampi di raggi gamma terrestri molto più brevi e più intensi (TGF).

Entrambi i fenomeni erano già noti per accadere all’interno di nubi temporalesche, a seconda delle varie cariche elettriche positive e negative attorno a loro, causate da elettroni accelerati. Ma gli scienziati non hanno mai compreso appieno come i due fenomeni si verifichino contemporaneamente e il loro collegamento ai fulmini.

L’osservazione dei due fenomeni collegati allo scoppio di un fulmine h aperto un nuovo livello di comprensione sulla fisica sovralimentata dei temporali.

Durante un temporale invernale a Kanazawa, i nostri monitor hanno rilevato un TGF simultaneo e un fulmine“, spiega l’astrofisico Yuuki Wada, dell’Università di Tokyo in Giappone. “Questo è abbastanza comune, ma, inaspettatamente, abbiamo anche visto un bagliore di raggi gamma nella stessa area allo stesso tempo“.

Inoltre, il bagliore è improvvisamente scomparso quando il fulmine ha colpito, permettendoci di dire in modo conclusivo che questi eventi sono intimamente connessi e questa è la prima volta che questa connessione è stata osservata“.

Gli scienziati sanno da decenni che attività di raggi gamma può accompagnare i temporali (provocata dal passaggio di elettroni che interagiscono con i nuclei degli atomi di azoto), questi due tipi di eventi in contemporanea erano stati rilevati solo una volta in precedenza e con letture meno conclusive.

Le nuove scoperte fanno parte di uno studio in collaborazione denominato Osservazione dei raggi di sole invernali (GROWTH). Il team lavora con una serie di monitor installati su scuole e altri edifici a Kanazawa, nella prefettura di Ishikawa.

Con le nuvole temporalesche portate naturalmente a terra dalla topografia circostante, si tratta del posto perfetto per studiare cosa succede all’interno delle nuvole. I monitor utilizzano anche un cristallo di scintillazione per rilevare le radiazioni ionizzanti, e due tubi fotomoltiplicatori che possono trasformare i fotoni in un segnale elettrico (e leggibile).

È interessante notare che i ricercatori dicono che esiste la possibilità che i bagliori di raggi gamma non si limitino a precedere i fulmini, ma, in realtà, li aiutino. Un altro dei tanti misteri che restano da risolvere è capire la ragione per cui i TGF avvengono così raramente al fianco dei fulmini, e esattamente ciò che li spinge a verificarsi.

Ulteriori studi e l’installazione di un maggior numero di sensori di radiazioni dovrebbero permettere agli scienziati di acquisire più dati che, si spera, permetteranno di rispondere a queste domande e potrebbero anche aiutare i meteorologi a prevedere con maggiore precisione il verificarsi di tempeste elettriche.

Con più sensori, potremo migliorare notevolmente i modelli predittivi“, afferma Wada . “È difficile dirlo adesso, ma con una quantità di dati adeguata registrata da un numero sufficiente di sensori, potremmo essere in grado di prevedere i fulmini con un anticipo di circa 10 minuti rispetto al loro verificarsi in un raggio di circa due chilometri da dove accadranno“.

La ricerca è stata pubblicata su Communications Physics .

Ecco la gravità artificiale per gli astronauti (ma non è come pensavamo)

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La gravità artificiale è da sempre la silenziosa protagonista di quei romanzi di fantascienza che appartengono al filone della cosiddetta “Space Opera“, ovvero un sottogenere in cui si narra di avventure ed esplorazione spaziale. Anche la cinematografia non ha potuto fare a meno della gravità artificiale, basta ricordare le navi a forma di ruota di film come 2001: A Space Odyssey e The Martian, immaginarie unità che generano la propria gravità ruotando sul proprio asse nello spazio.

Ora, un team dell’università del Colorado di Boulder sta lavorando per trasformare in realtà una tecnologia che sarà assolutamente necessaria per le missioni a lungo termine nello spazio.

I ricercatori, guidati dall’ingegnere aerospaziale Torin Clark, non possono (non ancora) trasporre nella realtà gli effetti speciali di Hollywood, ma stanno immaginando nuovi modi di progettare sistemi rotanti che potrebbero adattarsi all’interno di una stanza di future stazioni spaziali e persino di basi lunari. Gli astronauti potrebbero utilizzare queste stanze alcune ore al giorno per usufruire del benefico effetto della gravità e ridurre le conseguenze del vivere ed operare in condizioni di micro o nulla gravità. Insomma, una specie di applicazione di trattamento termale per contrastare gli effetti dell’assenza di peso.

La speranza dei membri del team di progettazione è quella che, un giorno, il loro lavoro potrà contribuire a mantenere sani gli astronauti mentre si avventurano nello spazio, consentendo agli esseri umani di viaggiare verso destinazioni lontane come Marte o le lune di Giove e Saturno in missioni di lunga durata che non ne inficino al salute.

Ma prima, la squadra di Clark dovrà risolvere un problema che ha afflitto per anni i sostenitori della gravità artificiale: la cinetosi.

Gli astronauti sperimentano perdita ossea, perdita muscolare, decondizionamento cardiovascolare e molti altri effetti negativi nello spazio. Oggi, ci sono solo una serie di contromisure frammentarie per superare questi problemi“, ha detto Clark, assistente professore presso il Dipartimento di Scienze aerospaziali dell’Ann e HJ Smead. “Ma la gravità artificiale è grande perché può superarli tutti in una volta.”

Strana sensazione

Clark testa il suo progetto in una stanza del campus non molto più grande di un normale ufficio.

Credito: Università del Colorado a Boulder

L’ingegnere si sdraia su una piattaforma metallica che sembra una barella dell’ospedale, parte di una macchina che gli ingegneri chiamano centrifuga a corto raggio. Dopo un rapido conto alla rovescia, la piattaforma inizia a ruotare intorno alla stanza, prima lentamente e poi sempre più velocemente.

Nicholas Dembiczak, uno studente universitario che studia ingegneria aerospaziale e assistente di ricerca nel laboratorio, osserva i progressi di Clark da un monitor del computer nella stanza accanto.

Stai arrivando a 15 rotazioni al minuto ora“, annuncia al microfono.

Clark sembra tranquillo. “È divertente“, risponde.

Questa è la cosa più vicina cui gli scienziati possono arrivare, sulla Terra, per capire come può funzionare la gravità artificiale nello spazio. Clark spiega che la velocità angolare generata dalla centrifuga spinge i suoi piedi verso la base della piattaforma, quasi come se fosse sotto il suo stesso peso.

Ma c’è un problema con questo tipo di gravità, uno che è familiare a chiunque abbia visitato un parco di divertimenti. Se Clark girava la testa da una parte e dall’altra mentre gira steso sulla sua macchina, sperimenta una sensazione nota come “l’illusione incrociata,” una sensazione generata nell’orecchio interno che ti fa sentire come se stessi cadendo.

È una sensazione molto strana“, dice Kathrine Bretl, una studentessa laureata che lavora nel laboratorio di Clark.

La gravità artificiale si libera dalla fantascienza
Lo studente universitario Nicholas Dembiczak monitora i progressi di Torin Clark. Credito: CU Boulder, Torin Clark

Così strana che, per decenni, gli ingegneri hanno considerato quel tipo di cinetosi un problema per attuare la gravità artificiale.

Clark e Bretl, tuttavia, hanno pensato ad una soluzione.

Prenderla con calma

In una serie di studi recenti, il team ha indagato se è proprio necessario pagare il prezzo della nausea per sfruttare la gravità artificiale. In altre parole, gli astronauti potrebbero addestrare i loro corpi a tollerare la tensione che deriva dall’essere fatti girare in cerchio come criceti su una ruota?

Il team ha iniziato reclutando un gruppo di volontari e li ha testati sulla centrifuga in 10 sessioni.

Ma a differenza della maggior parte degli studi precedenti, i ricercatori della CU di Boulder hanno adottato un approccio progressivo, sottoponendo i soggetti dei test inizialmente ad una sola rotazione al minuto, aumentando la velocità solo quando ogni soggetto smetteva di sperimentare l’illusione incrociata.

“Cerchiamo di evitare i casi di cinetosi perché il punto centrale della nostra ricerca è rendere tollerabile questo trattamento.” Ha spiegato Bretl.

L’approccio personalizzato ha funzionato. Alla fine della decima sessione, i soggetti dello studio giravano tutti comodamente, senza alcuna illusione, ad una velocità media di circa 17 rotazioni al minuto. Molto più veloce di quanto qualsiasi ricerca precedente sia stata in grado di raggiungere. Il gruppo ha riportato i suoi risultati lo scorso giugno sul Journal of Vestibular Research.

La gravità artificiale si libera dalla fantascienza
Durante i loro esperimenti, Clark ed i suoi colleghi hanno fatto ruotare i soggetti in posizione seduta, poi hanno chiesto loro di inclinare la testa di lato per vedere se sperimentavano l’illusione incrociata. Credito: CU Boulder, Torin Clark

Clark afferma che lo studio dimostra che la gravità artificiale potrebbe essere un’opzione realistica per il futuro dei viaggi spaziali.

Per quanto possiamo dire, in sostanza chiunque può adattarsi a questo stimolo“, ha detto.

Nella ricerca in corso, i ricercatori hanno anche aumentato il numero di sessioni di formazione a 50, scoprendo che le persone potevano girare ancora più velocemente, dandogli più tempo per adattarsi.

Ora, però, sarà necessario rispondere ancora a molte domande prima che si possa vedere una stanza per la gravità artificiale installata sulla Stazione Spaziale Internazionale: quanto durano gli effetti dell’allenamento, per esempio, e di quanta gravità avrà bisogno un astronauta per compensare la perdita di muscoli e ossa?

Bretl, tuttavia, è fiducioso.

Il punto del nostro lavoro è cercare di convincere più persone a pensare che forse la gravità artificiale non è un’idea così folle“, ha detto. “Forse ha un posto al di fuori della fantascienza“.

Xavier Simón et al. Artificial Gravity System Configurations Informed by Physiological Spin-Tolerance Research, 2018 AIAA SPACE and Astronautics Forum and Exposition (2018). DOI: 10.2514/6.2018-5358

Fonte: Phys.org