mercoledì, Aprile 2, 2025
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Questo è ciò che lontani alieni vedrebbero se esaminassero la Terra

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Lo studio degli esopianeti è maturato considerevolmente negli ultimi 10 anni. Durante questo periodo, sono stati scoperti la maggior parte degli oltre 4.000 esopianeti che ci sono attualmente noti.

E, negli ultimi anni, lo studio a spostarsi dal processo di scoperta alla caratterizzazione. Sapiamo, inoltre, gli strumenti, orbitali e di terra, di prossima generazione consentiranno studi che riveleranno molto sulle superfici e le atmosfere degli esopianeti.

In alcuni, le recenti scoperte hanno sollevato una domanda interessante che capovolge il punto di vista: cosa vedrebbe una specie sufficientemente avanzata se studiasse da lontano il nostro pianeta? Usando i dati a lunghezza d’onda multipla emessa della Terra, un team di scienziati del Caltech è stato in grado di costruire una mappa di come apparirebbe la Terra ad un osservatore alieno lontano.

Oltre ad affrontare il prurito della curiosità, questo studio potrebbe anche aiutare gli astronomi a ricostruire le caratteristiche superficiali degli esopianeti “simili alla Terra” in futuro.

Concetti di pianeti simili alla Terra.  (JPL)

Lo studio che descrive i risultati ottenuti dal team, intitolato “Earth as a Exoplanet: A Two -dimension Alien Map“, è recentemente apparso sulla rivista Science Mag e sarà prossimamente pubblicato in The Astrophysical Journal Letters.

Si tratta di un lavoro condotto da Siteng Fan e ha incluso numerosi ricercatori della Divisione di Scienze geologiche e planetarie (GPS) del California Institute of Technology e del Jet Propulsion Laboratory della NASA.

Nel cercare pianeti potenzialmente abitabili oltre il nostro Sistema Solare, gli scienziati sono costretti ad adottare un approccio indiretto. Dato che la maggior parte degli esopianeti non può essere osservata direttamente, per conoscere la loro composizione atmosferica o le caratteristiche della superficie, gli scienziati devono accontentarsi di alcune indicazioni che dimostrano quanto “simile alla Terra” sia un pianeta.

Fan ha spiegato su Universe Today che ciò riflette i limiti con cui gli astronomi devono fare attualmente fare i conti nei loro studi.

In primo luogo, gli attuali studi sugli esopianeti hanno il limite che non è ancora chiaro quali siano i requisiti minimi per l’abitabilità. Vi sono alcuni criteri proposti, ma non siamo sicuri che siano sufficienti o necessari. In secondo luogo, anche con questi criteri, le attuali tecniche di osservazione non sono buone abbastanza per confermare l’abitabilità, specialmente su pianeti extrasolari simili alla Terra, cioè relativamente piccoli, a causa della difficoltà di rilevarli e stabilirne parametri precisi“.

Dato che la Terra è l’unico pianeta che conosciamo in grado di sostenere la vita, il team ha teorizzato che capire come apparirebbero osservazioni remote della Terra potrebbero aiutarci, per paragone, ad analizzare gli esopianeti.

La Terra è l’unico pianeta che conosciamo che contiene vita“, ha detto Fan. “Studiare come apparirebbe la Terra ad osservatori distanti ci darebbe una traccia su come individuare potenziali esopianeti abitabili“.

Uno degli elementi più importanti del clima terrestre (e che è fondamentale per tutta la vita sulla sua superficie) è il ciclo dell’acqua, che ha tre fasi distinte. Questi includono la presenza di vapore acqueo nell’atmosfera, nuvole di acqua condensata e particelle di ghiaccio e la presenza di corpi idrici sulla superficie.

Pertanto, la presenza di questi potrebbe essere considerata una potenziale indicazione di abitabilità e persino indicazioni di vita (alias biosignature) che potrebbero essere osservate a distanza. Ergo, essere in grado di identificare le caratteristiche di superficie e le nuvole sugli esopianeti sarebbe essenziale per porre dei vincoli sulla loro abitabilità.

Per determinare come apparirebbe la Terra ad osservatori distanti, il team ha compilato 9740 immagini della Terra che sono state prese dal satellite DSCOVR (Deep Space Climate Observatory) della NASA. Le immagini sono state scattate ogni 68 e 110 minuti in un periodo di due anni (2016 e 2017) e sono riuscite a catturare la luce riflessa dall’atmosfera terrestre a più lunghezze d’onda.

Fan e i suoi colleghi hanno quindi combinato le immagini per formare uno spettro di riflessione a 10 punti tracciato nel tempo, che sono stati quindi integrati sul disco terrestre. Ciò ha effettivamente riprodotto l’aspetto con la Terra potrebbe apparire ad un osservatore a molti anni luce di distanza se osservassero la Terra per un periodo di due anni.

Abbiamo scoperto che il secondo componente principale della curva della luce della Terra è fortemente correlato alla frazione terrestre dell’emisfero illuminato (r ^ 2 = 0,91)“, ha detto Fan. “Combinando con la geometria di visualizzazione, ricostruire la mappa diventa un problema di regressione lineare“.

(Ref)(S. Fan et al., ApJ 2019)

Dopo aver analizzato le curve risultanti e averle confrontate con le immagini originali, il team di ricerca ha scoperto quali parametri delle curve corrispondevano a terra e copertura nuvolosa. Hanno quindi selezionato i parametri che più si avvicinano all’area terrestre e l’hanno adattato alla rotazione della Terra di 24 ore, che ha dato loro una mappa sagomata (vedi sopra) che rappresenta l’aspetto della curva della luce terrestre da anni luce di distanza.

Le linee nere rappresentano il parametro della funzione di superficie e corrispondono approssimativamente alle coste dei principali continenti. Questi sono ulteriormente colorati in verde per fornire una rappresentazione approssimativa di Africa (centro), Asia (in alto a destra), Nord e Sud America (a sinistra) e Antartide (in basso).

Ciò che si trova in mezzo rappresenta gli oceani della Terra, con le sezioni più basse indicate in rosso e quelle più profonde in blu.

Questo tipo di rappresentazioni, quando applicate alle curve di luce di esopianeti distanti, potrebbero consentire agli astronomi di valutare se un esopianeta ha gli oceani, le nuvole e le calotte polari – tutti gli elementi necessari per determinare se un esopianeta sia “simile alla Terra” (cioè, ipoteticamente abitabile).

L’analisi delle curve di luce in questo lavoro ha implicazioni per determinare le caratteristiche geologiche e i sistemi climatici sull’esopianeta. Abbiamo scoperto che la variazione della curva della luce della Terra è dominata da nuvole e terra / oceano, che sono entrambi cruciali per la vita sulla Terra. Riteniamo, quindi, che esopianeti che presentassero queste caratteristiche sarebbero simili alla Terra e più probabilmente ospiterebbero la vita“.

Nel prossimo futuro, strumenti di prossima generazione come il James Webb Space Telescope (JWST) consentiranno studi molto più dettagliati degli attuali. Inoltre, gli strumenti di terra che andranno online nel prossimo decennio – come l’Extremely Large Telescope (ELT), il Thirty Meter Telescope (TMT) e il Giant Magellan Telescope (GMT) – dovrebbero consentire studi di imaging diretto di pianeti più piccoli e rocciosi che orbitano più vicino alle loro stelle.

Aiutati da studi che aiutano a risolvere le caratteristiche della superficie e le condizioni atmosferiche, gli astronomi potranno finalmente essere in grado di dire con fiducia quali esopianeti sono potenzialmente abitabili e quali no.

Con un po ‘di fortuna, la scoperta di una Terra 2.0 (o di diverse Terre) potrebbe essere ormai a pochi anni di distanza!

Fonte: Universe Today.

Sembrerebbe che sia possibile inviare informazioni attraverso i wormholes ma molto, molto, brevi

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Vuoi inviare un messaggio attraverso un wormhole? Sarà meglio che sia breve.

Secondo un nuovo studio, in determinate circostanze, sarebbe possibile inviare un messaggio attraverso un wormhole teorico che collega due buchi neri in universi diversi. Sfortunatamente, i risultati mostrano che solo una piccola quantità di informazioni (misurate in bit quantici o qubit) potrebbe essere scambiata.

Nella nostra configurazione specifica, abbiamo avuto risultati deludenti, nel senso che è risultato possibile inviare attraverso un wormhole solo uno o due qubit di informazioni” ha spiegato Sam van Leuven, coautore del nuovo articolo e ricercatore presso l’Università del Witwatersrand a Johannesburg.

In genere, se si inviasse qualcosa in un buco nero, questo qualcosa finirebbe al centro, in un punto infinitamente denso noto come la singolarità, da cui non è possibile tornare indietro. Ma se un buco nero fosse collegato a un altro buco nero attraverso un wormhole e la traiettoria del messaggio fosse giusta, teoricamente potrebbe uscire dall’altro capo di quel wormhole, che potrebbe trovarsi in un universo alternativo.

Per fare ciò è necessario che entrambi gli universi e il buco nero collegato abbiano un certo tipo di fisica e geometria. Ad esempio, un wormhole attraversabile potrebbe esistere solo nel caso che lo spazio-tempo abbia una curvatura negativa.

Secondo i ricercatori autori dello studio, in teoria, questa configurazione specifica dell’universo consentirebbe il passaggio di informazioni attraverso un wormhole e hanno effettuato alcune stime per determinare quante informazioni potrebbero viaggiare in questo modo.

Ora sappiamo da [studi precedenti] che questo processo è analogo al teletrasporto quantistico… Ma ci sono limiti su quante informazioni possono essere inviate“, ha affermato Aron Wall, ricercatore del Dipartimento di Matematica Applicata e Fisica Teorica dell’Università di Cambridge che non è stata coinvolta nel nuovo studio. (Nel teletrasporto quantico , le informazioni possono essere inviate quasi istantaneamente attraverso grandi distanze usando particelle che sono state impigliate nel quantum, il che significa che i loro stati sono collegati indipendentemente dalla distanza che le separa).

Nella nuova ricerca, Van Leuven e i suoi colleghi hanno studiato i wormholes attraversabili usando la geometria dello spazio-tempo come descritto dalla teoria della relatività generale di Albert Einstein. La matematica usata per descrivere lo scenario è stata sviluppata in un universo bidimensionale per semplicità, ma dovrebbe valere anche per un universo 3D, come il nostro.

I risultati hanno mostrato che solo poche informazioni alla volta possono essere passate attraverso il wormhole – meno di quanto avessero trovato altri metodi. Hanno anche scoperto che l’invio di messaggi attraverso il wormhole dovrebbe destabilizzare i buchi neri. Il buco nero di invio aumenterebbe in massa, e il buco nero di ricezione diminuirebbe in massa, con ogni messaggio inviato. Con il primo messaggio, il buco nero ricevente perderebbe circa il 30% della sua massa e, nei messaggi successivi, il buco nero scomparirebbe. Inoltre, ogni messaggio successivo dovrebbe ridursi di dimensioni, in modo tale che il messaggio alla fine non conterrà alcuna informazione.

Van Leuven e altri scienziati stanno continuando a studiare una vasta gamma di configurazioni e regole, simili e dissimili a quelle del nostro universo, che potrebbero consentire la trasmissione di più informazioni. Attualmente, tali wormhole e buchi neri collegati sono del tutto teorici, ma gli scienziati pensano che non sia del tutto impossibile che possano essere creati o manipolati da un qualche tipo di civiltà avanzata.

Stiamo cercando di trovare generalizzazioni del nostro setup che consentirebbe di ottenere maggiori informazioni [da trasmettere], ma si tratta di un lavoro in corso“, ha detto Van Leuven. “Ma ci sarà sempre un limite. Non ci sarà una quantità infinita di informazioni inviabili senza distruggere il wormhole“.

Lo studio è stato pubblicato online il 29 luglio sulla rivista di prestampa arXiv ed è stato presentato al Journal of High Energy Physics.

Originariamente pubblicato su Live Science.

L’amazzonia brucia

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La foresta amazzonica è in fiamme da settimane. Spesso definita “il polmone del pianeta” perché fornisce il 20% dell’ossigeno del mondo, la foresta pluviale amazzonica è in fiamme da settimane. La NASA ha catturato immagini satellitari del fumo liberato dai catastrofici incendi, che continuano a diffondersi.

Gli incendi ormai coinvolgono un certo numero di stati brasiliani, tra cui Amazonas, Para, Mato Grosso e Rondonia e le foreste tropicali della Bolivia. Mercoledì (agosto 21) il satellite Suomi NPP della NOAA/NASA ha catturato un’immagine a colori naturali utilizzando lo strumento VIIRS (Visible Infrared Imaging Radiometer Suite). L’immagine mostra il fumo degli incendi raccolti sull’Amazzonia in tutto il Sud America.

Le immagini dello spettroradiometro per immagini a risoluzione moderata (MODIS) del satellite Aqua della NASA mostrano anche la progressione degli incendi, compresa la crescente quantità di fumo nella regione.

Questa foto satellitare del Sud America mostra il fumo sopra degli incendi nella foresta pluviale amazzonica l’11 agosto 2019. L’immagine è stata scattata con lo Spectroradiometer (MODIS) a risoluzione moderata sul satellite Aqua della NASA. – (Credito immagine: immagini dell’Osservatorio della Terra della NASA di Lauren Dauphin, utilizzando i dati MODIS della NASA EOSDIS / LANCE e GIBS / Worldview e VIIRS dati della NASA EOSDIS / LANCE e GIBS / Worldview e la Suomi National Polar-orbiting Partnership.)

L’applicazione della NASA Worldview del sistema di dati e informazioni del sistema di osservazione Terra (EOSDIS) consente a chiunque di monitorare gli incendi in tutto il mondo utilizzando i dati satellitari della NASA. In Worldview, si può vedere la progressione degli incendi in Amazzonia e del fumo visibile sul Sud America.

Il National Institute for Space Research (INPE) del Brasile ha finora rilevato 39.601 incendi quest’anno in Amazzonia, come riportato da New York Times. L’INPE riferisce che c’è stato un aumento del 79% degli incendi rispetto allo stesso periodo del 2018.

Non molto tempo fa si pensava che le foreste amazzoniche e le altre regioni della foresta pluviale tropicale fossero completamente immuni agli incendi grazie all’alto contenuto di umidità del sottobosco sotto la protezione della copertura del baldacchino. Ma le gravi siccità del 1997-98, 2005, Il 2010 e attualmente un gran numero di incendi in tutto il nord del Brasile hanno cambiato per sempre questa percezione“, ha dichiarato in una nota Carlos Peres, biologo dell’Università dell’East Anglia.

Questa foto satellitare del Sud America mostra il fumo sopra gli incendi nella foresta pluviale amazzonica il 13 agosto 2019. L’immagine è stata scattata con lo Spectroradiometer (MODIS) a risoluzione moderata sul satellite Aqua della NASA. – (Credito immagine: immagini dell’Osservatorio della Terra della NASA di Lauren Dauphin, utilizzando i dati MODIS della NASA EOSDIS / LANCE e GIBS / Worldview e VIIRS dati della NASA EOSDIS / LANCE e GIBS / Worldview e la Suomi National Polar-orbiting Partnership.)

Gli incendi naturali in Amazzonia sono estremamente rari. Gli incendi che ora devastano la foresta pluviale amazzonica sono stati provocati dai taglialegna e dagli allevatori per ripulire la terra per fare spazio a coltivazioni e pascoli di bestiamesecondo quanto riferisce il Washington Post. L’area interessata agli incendi comprende la terra delle comunità indigene, che è stata presa di mira da incendiari che ricorrono al disboscamento illegale per utilizzare il territorio per miniere e allevamenti di bestiame, riferisce Amnesty.

Indignazione e proteste contro il presidente brasiliano Jair Bolsonaro sonos coppiate un po’ in tutto il mondo a causa delle note posizioni di Bolsonaro sull’ambiente che hanno portato il paese sudamericano ad indebolire le tutele ambientali e degli indigeni a tutto vantaggio delle attività di estrazione e silvicoltura in Amazzonia.

La neoeletta amministrazione Bolsonaro in Brasile ha rapidamente smantellato la capacità istituzionale del Brasile di affrontare le minacce contro l’ambiente, permettendo, inoltre, lo sviluppo di un diffuso sentimento di impunità a migliaia di proprietari terrieri mentre le frontiere agricole continuano ad espandersi ai danni della foresta pluviale“, ha detto Peres.
Questo sconvolgimento arriva dopo che il direttore dell’agenzia brasiliana per il monitoraggio dello spazio e del clima, Ricardo Galvão, è stato costretto a lasciare la sua posizioneGalvão ha lasciato la sua posizione all’inizio di questo mese dopo aver difeso i risultati scientifici che mostrano un forte aumento della deforestazione in Amazzonia. Galvão ha denunciato Bolsonaro.

Il super pozzo “Kola Superdeep Borehole”

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Dopo 20 anni di scavi, scienziati e ingegneri russi hanno realizzato un “super pozzo“profondo più di 12.000 metri per condurre degli studi sulla crosta terrestre, il record di profondità venne raggiunto nel 1989. Il superpozzo di Kola è stato definitivamente abbandonato nel 2008.

Nel profondo della penisola di Kola, nella Russia occidentale, esiste una grande piastra di metallo imbullonata al suolo. Questo non è solo una vecchia piastra arrugginita, ma è il tappo di un pozzo che sprofonda per più di 12 chilometri nel sottosuolo, uno dei punti più profondi mai raggiunto dall’uomo.

La perforazione, della profondità di 12 chilometri è più profonda del punto più profondo dell’oceano pacifico: la Fossa delle Marianne, che raggiunge la massima profondità nell’abisso Challenger di 11.007 m. La perforazione è chiamata “Kola Superdeep Borehole” e, per una volta, non ha nulla a che fare con l’estrazione di petrolio.

Quando gli scienziati sovietici iniziarono la perforazione della superficie terrestre durante gli anni ’70, lo fecero per dare vita a un fantastico progetto ingegneristico con scopi scientifici. Il progetto, avviato nel lontano 24 maggio 1970, raggiunse il record di profondità nel 1989 di ben 12.262 metri. Da allora, soprattutto per motivi tecnici, non si è potuto andare oltre, fallendo l’obiettivo iniziale che era quello di scavare un pozzo di 15 chilometri di profondità nella crosta terrestre.

Perché la verità è che sappiamo meno di ciò che c’è sotto i nostri piedi di quello che c’è dall’altra parte del sistema solare“, ha spiegato Hank Green in un episodio del 2014 di SciShow.

Ma cosa abbiamo effettivamente imparato da questo scavo?
Nella regione del Baltico, la crosta continentale raggiunge i 35 chilometri di profondità (in alcuni punti della Terra arriva a 90 chilometri), dunque i russi volevano scoprire cosa accadesse nella prima parte di essa.

Una delle scoperte più affascinanti ottenute attraverso indagini geofisiche riguarda la propagazione delle onde sismiche; si riteneva che tali onde a una certa profondità fossero influenzate dal passaggio tra rocce granitiche e basalto, tuttavia quando arrivarono a 7 chilometri di profondità si scoprì che a disturbarle è una transizione metamorfica delle rocce granitiche.

A quella profondità hanno inoltre scoperto fossili di 24 specie di microorganismi estinti da tempo. Gli scienziati hanno anche potuto studiare rocce vecchie di 2,7 miliardi di anni, il che è eccezionale ma queste rocce sono diventate la sfida che gli scienziati non riuscivano a superare perché la loro temperatura era di circa 180 gradi Celsius, circa 80 in più di quanto previsto.

Un’ulteriore scoperta è che laggiù c’è acqua mista a grandi quantità di fango bollente frammisto a idrogeno, cosa che mai avrebbero immaginato.

L’elevata temperatura non ha fatto mancare problemi per i trapani delle perforatrici, nel corso degli anni sono state utilizzate le Uralmash-4E e Uralmash-15000, e così ,dopo alcuni anni di studio, nel 1992 decisero di arrendersi, non si poteva andare oltre, a 300° centigradi, infatti, la punta dei trapani non avrebbe più funzionato, sarebbe stato quindi impossibile raggiungere i 15 chilometri di profondità.
In seguito a causa della carenza di fondi il progetto venne chiuso nel 2006, e nel 2008 le strutture vennero abbandonate a sé stesse.

Proprio fino al 2008 il pozzo superprofondo di Kola deteneva anche il record di buco più profondo scavato dall’uomo, ma fu superato dal pozzo petrolifero Al Shaheen di 12.289 metri. Fu realizzato in Qatar in appena 36 giorni. Successivamente altri due pozzi petroliferi hanno superato questa lunghezza. In termini di profondità verticale, il pozzo di Kola resta comunque il primo al mondo.

Tra edifici fatiscenti, scheletri di metallo e materiale abbandonato è ancora possibile ammirare il ‘tappo’ con cui è stato saldato il pozzo SG-3 largo 23 centimetri, quello posto al centro è il più profondo di tutti.

Fast Radio Burst, forse trovato un collegamento con un fenomeno naturale

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Una magnetar che recentemente ha manifestato un picco di attività di attività potrebbe averci dato un indizio sul mistero delle raffiche radio veloci (FRB).

Secondo una nuova analisi effettuata sulla magnetar XTE J1810-197, le raffiche di onde radio  bassa frequenza della durata di pochi millisecondi emesse dalla stella morta mostrano un’insolita somiglianza con i segnali FRB. È tutt’altro che una prova conclusiva che i due fenomeni siano collegati, ma si tratta di un’ipotesi molto interessante.

Questa affermazione è solo una delle numerose scoperte presentate in un nuovo documento, accettato dal The Astrophysical Journal e attualmente disponibile sulla sito di prestampa arXiv. Il team di ricerca dietro questo lavoro ha analizzato le emissioni radio a bassa frequenza della magnetar usando la seconda di appena due esplosioni che abbiamo rilevato da questa fonte.

Le magnetar sono un tipo particolarmente strano di stella di neutroni i cui campi magnetici sono spaventosamente forti – circa un quadrilione di volte più forti del campo magnetico terrestre. Non sappiamo quali processi producano questi campi magnetici, ma sono abbastanza forti da rendere lo spazio che le circonda particolarmente strano.

Finora non abbiamo individuato molte magnetar e si pensa che questo stadio di vita di una stella duri un tempo molto breve in termini cosmici: solo 10.000 anni. Di quelle che abbiamo individuato, XTE J1810-197 è tra le più strane.

Situata a circa 10.000 anni luce di distanza, nella costellazione del Sagittario, è stata la prima di sole quattro magnetar che abbiamo colto ad emettere onde radio, cosa che, però, fa solo in modo intermittente. Stava avendo una certa attività quando nelle frequenze radio quando fu scoperta nel 2003, poi, nel 2008, improvvisamente, divenne silenziosa.

Nel dicembre dello scorso anno, però, ha ripreso ad emettere segnali radio e gli astrofisici del National Center for Radio Astrophysics in India hanno utilizzato il Giant Metrewave Radio Telescope (GMRT) per ascoltarla.

I loro risultati, ottenuti principalmente in quattro serie di osservazioni nella gamma a bassa frequenza da 550 a 750 MHz, hanno rivelato una rapida diminuzione della densità del flusso radio dopo la fase iniziale dell’esplosione, coerentemente con le osservazioni precedenti.

Come in precedenza, la densità del flusso a 650 MHz è diminuita di un fattore di circa 5 o più nei primi 20-30 giorni“, scrivono i ricercatori nel loro articolo.

Ciò che ha incuriosito gli astronomi, tuttavia, è il possibile collegamento a raffiche radio veloci, picchi misteriosi nei dati radio che durano solo pochi millisecondi, ma con la stessa energia di oltre 500 milioni di soli. La maggior parte degli FRB rilevati non ha generato ripetizioni, ma è stato possibile notare sorprendenti somiglianze.

Il team ha notato che la magnetar emette picchi della durata di pochi millisecondi di attività radio, con strutture spettrali che – proprio come per gli FRB – non possono essere spiegate dagli effetti causati dal loro passaggio attraverso il mezzo interstellare, il gas e la polvere tra le stelle.

Queste strutture potrebbero indicare un collegamento fenomenologico con le raffiche radio veloci le quali mostrano, in modo simile, strutture di frequenza interessanti e più dettagliate“, hanno scritto i ricercatori .

È solo un “forse” a questo punto. Ci sono anche un paio di funzioni che dovrebbero essere esaminate.

In primo luogo, la ripetizione di FRB dimostra spesso un fenomeno noto come deriva di frequenza, in cui esplosioni successive si spostano verso le frequenze basse.

A causa della loro risoluzione e dispersione nella gamma di frequenza che stavano osservando, i ricercatori non sono stati in grado di risolvere alcuna deriva di frequenza nei loro dati. Ciò non significa che non ci fosse, ma sarebbe necessario un set di dati diverso per verificarlo.

In secondo luogo, c’è la questione della potenza del segnale. Il segnale della magnetar era un ordine di grandezza più potente del picco dell’FRB 121102, noto per essersi ripetuto varie volte, ma c’è un problema: l’FRB arriva da molto, molto più lontano.

Ciò implica che la fonte di emissione dell’FRB dovrebbe essere circa 100 miliardi di volte più luminosa del picco dell’esplosione di XTE J1810-197 registrata dal GMRT.

Tuttavia“, scrivono i ricercatori, “il fatto che la magnetar J1810-197 sia solo il terzo oggetto dopo la ripetizione di FRB e la pulsar di granchio che risulta esibire strutture di frequenza nelle sue esplosioni, potrebbe fornire un collegamento fenomenologico tra i meccanismi sottostanti l’emissione“.

La ricerca è stata accettata su The Astrophysical Journal ed è disponibile su arXiv .

Marte potrà essere reso abitabile entro l’arco della nostra vita?

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Non è un gran segreto che molti degli scienziati che si occupano di planetologia si sono dedicati a quel settore di studi ispirati dalla loro passione per la fantascienza. ebbene, si. Molti degli scienziati che in questo momento stanno studiando Marte, la trilogia di fantascienza “Mars” pubblicata negli anni ’90 da Kim Stanley Robinson, è una specie di Bibbia.

La trilogia descrive la colonizzazione e la terraformazione del Pianeta Rosso, ma rileggendola nel 2019, con le nuove conoscenze acquisite, gran parte di ciò che si immaginava nei libri sembra piuttosto inverosimile: siamo ancora molto lontani dal far atterrare il primo essere umano su Marte e terraformare il pianeta per renderlo abitabile sembra davvero un sogno molto lontano .

Sono numerose le proposte avanzate, nel corso del tempo, per trasformare Marte in un pianeta simile alla Terra, ma richiedono enormi capacità industriali e si basano principalmente sulla quantità totale di anidride carbonica accessibile (CO2) sul pianeta e svariate ricerche le hanno ormai bollate come irrealistiche.

Alcuni scienziato, da qualche anno, hanno deciso di adottare un approccio diverso per capire come risolvere il problema. Una cosa che s’impara rapidamente quando si studia il clima passato di Marte, è che  non è mai stato simile a quello della Terra, Marte è sempre stato un mondo unico e alieno. Quindi, quando si pensa a come rendere Marte abitabile in futuro, forse bisognerebbe ispirarsi proprio alla storia del pianeta rosso.

Un processo naturale su Marte – il cosiddetto effetto serra allo stato solido – è di particolare interesse, in quanto è in grado di riscaldare intensamente strati di ghiaccio appena sotto la superficie nelle calotte polari di Marte ogni estate. Questo effetto si verifica quando la luce visibile viene trasmessa all’interno di un materiale termoisolante, dopodiché il calore viene intrappolato e può verificarsi un riscaldamento importante.

Ispirati da questo processo, alcuni ricercatori si sono prefissi di capire quanto si potrebbe riscaldare Marte utilizzando sottili strati di materiale solido traslucido sulla superficie. Per portare avanti i loro esperimenti, i ricercatori hanno usato aerogel di silice, un materiale esotico incredibilmente isolante, a bassissima densità (è composto per oltre il 97 percento di aria) e quasi trasparente alla luce visibile, cosa che lo rende un candidato ideale per la creazione di un forte effetto serra, perlomeno a livello locale.

La NASA già utilizza l’aerogel di silice per isolare l’interno dei rover su Marte, tra le altre cose. Attraverso una combinazione di esperimenti di laboratorio, modellistica e teoria dei primi principi, è stato scoperto che uno strato di due o tre centimetri di spessore di questa roba posta sopra o non molto al di sopra della superficie marziana sarebbe sufficiente per mantenere lo strato sottostante sufficientemente caldo da far crescere alghe o piante e bloccare le radiazioni UV più pericolose. Rendere Marte abitabile, almeno in alcune location, potrebbe essere un obiettivo molto più realizzabile di quanto si pensasse in precedenza.

Quali sono i prossimi passi? Lo studio dimostra che la fisica di base di questa idea è solida, ma c’è ancora molto lavoro da fare per capire come potrebbero essere costruiti su Marte Habitat reali seguendo questo approccio. L’aerogel di silice è piuttosto fragile, quindi per consentire un’adeguata protezione e mantenere una pressione interna adatta dovrebbe essere modificato o combinato con altri materiali. C’è anche la domanda su come produrre l’aerogel di silice su Marte. Si tratta di una sostanza molto leggera, cosa favorevole al trasporto dalla Terra, ma l’obbiettivo finale è riuscire a produrlo direttamente su Marte.

Un approccio industriale standard prevede una fase di essiccazione della CO2 ad alta pressione, utilizzando la CO2 atmosferica. Tuttavia, è notevole che alcuni organismi sulla Terra sono incredibilmente abili nel manipolare la silice su scale nanometriche (spugne di vetro e fitoplancton di diatomee sono solo due esempi). Speculativamente, è possibile che alcuni organismi possano essere adattati per produrre da soli materiale simile alla silice-aerogel, portando a una biosfera che aiuta a sostenere un ambiente abitabile.

In termini pratici, ora il programma è quello di concentrarsi sul miglioramento della gamma e della sofisticazione degli  esperimenti di laboratorio e sull’esecuzione dei test iniziali sul campo.

Marte è unico, ma ci sono alcuni luoghi inospitali sulla Terra che sono piuttosto simili, tra cui il deserto di Atacama, in Cile, e le valli asciutte dell’Antartide. Se riusciremo a dimostrare la realizzabilità d questa idea su siti come questi, probabilmente saremo in grado di fare lo stesso sulla superficie marziana.

Dopodiché, il più grande ostacolo rimasto sarà la protezione planetaria: qualsiasi piano per portare la vita su Marte deve evitare di contaminare i luoghi in cui potrebbe esserci già vita autoctona. Questo sarà molto più facile con un tipo di approccio regionale e scalabile che sta venendo proposto in qualsiasi scenario globale di terraformazione.

In ogni caso, la protezione di aree potenzialmente in grado di ospitare vita autoctona deve restare una precedenza su qualsiasi programma di terraformazione.  Siamo ancora molto lontani dal creare habitat autosufficienti fattibili su altri pianeti. Ma per la prima volta, la nostra ricerca apre un percorso plausibile per pensare di realizzarla nei decenni futuri, o secoli, se decideremo di farlo.

Beh, pensiamo valga la pena eccitarsi all’idea, soprattutto perché non sarà necessario usare le bombe nucleari, come pensa Elon Musk.

La ricerca di risposte sul nucleo interno della Terra e la super rotazione

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Uno dei misteri più grandi della geofisica sono i movimenti del nucleo più interno del nostro pianeta, la Terra. Il suolo sotto nostri piedi ci appare solido e rassicurante ma ha un limite ben preciso. In profondità sotto la superficie del pianeta, il nucleo interno caldissimo è circondato da un involucro liquido, il nucleo esterno fuso, separato da una zona chiamata mantello dalla crosta terrestre.

Questa disposizione stratificata e ben suddivisa, pone diverse domande, la più importante delle quali è chiamata super-rotazione: se il nucleo interno della Terra non è solidale al mantello per via del nucleo esterno fluido, in che modo ne influenza la rotazione?

Le ipotesi sulla super-rotazione suggeriscono che il nucleo interno della Terra ruota a una velocità diversa rispetto alla velocità di rotazione della Terra stessa, che è circa una rotazione completa ogni 24 ore. Il tasso di super-rotazione del nucleo interno è stato discusso dagli scienziati per decenni, ma ora una nuova analisi del sismologo John Vidale, dell’Università della California del Sud, offre una stima che i geofisici devono considerare.

Nel suo studio, Vidale esamina le onde sismiche retrodiffuse rilevate da due test nucleari separati, condotti dall’Unione Sovietica nell’arcipelago della Novaya Zemlya, nella Russia settentrionale, nel 1971 e nel 1974.

Quando queste esplosioni nucleari sono state effettuate, oltre quattro decenni fa, la potenza dell’esplosione è stata rilevata dalle stazioni sismiche di tutto il mondo, tra cui la Large Aperture Sismic Array (LASA): la prima grande matrice sismica al mondo, costruita nel Montana nel 1965.

Analizzando i dati di LASA e misurando il movimento del nucleo interno in base alle onde sismiche rilevate, Vidale ha stimato che il nucleo interno ruotava di circa 0,07 gradi in più rispetto al resto del pianeta ogni anno tra il 1971 e il 1974.
Se il suo tasso è giusto, significa che se ti fermassi in un punto all’equatore per un anno, la parte del nucleo interno che era precedentemente sotto di te si sposterebbe in un punto ad oltre 6 chilometri di distanza“, spiega Maya Wei-Haas in un rapporto sulla ricerca stilato per National Geographic .

Per quanto riguarda i calcoli della super-rotazione, Vidale afferma che la sua nuova stima è più precisa delle precedenti approssimazioni, una delle quali, in particolare, è la sua. Nel 2000, Vidale faceva parte di un team che analizzava gli stessi dati dei test nucleari rilevati dall’array Montana e calcolava una super-rotazione più veloce per il periodo 1971-1974, pari a 0,15 gradi all’anno. Nel nuovo studio, Vidale spiega che la sua ultima stima fornisce una maggiore risoluzione e beneficia di miglioramenti nella correzione, elaborazione e interpretazione dei dati.

Ma c’è un altro motivo per cui le cifre sono diverse, infatti questo è un campo molto teorico della scienza: si tratta di esaminare una parte del pianeta Terra sepolto a grande profondità e surriscaldato, impossibile studiare da vicino; la ricerca è ancora agli inizi. L’intera teoria della super-rotazione è stata proposta negli anni ’70 , ma il primo modello e le prime prove sismiche sono apparse solo negli anni ’90, pochi anni prima della pubblicazione della ricerca di Vidale del 2000.

Gli scienziati hanno anche altre spiegazioni sul perché le nostre letture e stime sui tassi di super-rotazione apparenti del nucleo interno sono diverse. In uno studio pubblicato a maggio si evidenzia che le discrepanze potrebbero essere dovute a variazioni della superficie del nucleo interno stesso, che potrebbero spiegare incoerenze in altre analisi.

Se questa visione fosse corretta, potremmo avere a che fare con un dilemma ancora più grande sul centro della Terra. Solo il tempo, e molti più scienziati disposti a accettare la sfida, troveranno forse la soluzione.

Fonte: https://www.sciencealert.com

Alcune interessanti proposte di oggi su Amazon

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Un candidato “pesante” per la materia oscura

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Quasi un quarto dell’universo si trova letteralmente avvolto dall’oscurità. Secondo le teorie dei cosmologi, il 25,8% della materia dell’universo è costituito da materia oscura, la cui presenza è segnalata essenzialmente dalla sua attrazione gravitazionale.

Cosa sia, in realtà, questa sostanza rimane un mistero. Hermann Nicolai, direttore del Max Planck Institute for Gravitational Physics di Potsdam, e il suo collega Krzysztof Meissner, dell’Università di Varsavia, hanno ora proposto un nuovo candidato: un gravitino super pesante.

L’esistenza di questa particella ancora ipotetica deriva da un’ipotesi che cerca di spiegare come lo spettro osservato di quark e leptoni nel modello standard della fisica delle particelle potrebbe emergere da una teoria fondamentale. Inoltre, i ricercatori descrivono un possibile metodo per rintracciare effettivamente questa particella.

Il modello standard della fisica delle particelle comprende i mattoni della materia e le forze che le tengono insieme. Afferma che ci sono sei diversi quark e sei leptoni che sono raggruppati in tre “famiglie”. Tuttavia, tutto ciò che ci circonda e noi stessi siamo costituiti solo da tre particelle della prima famiglia: i quark up e down e l’elettrone, che è un membro della famiglia leptonica.

Fino ad ora, questo modello standard consolidato è rimasto invariato. Il Large Hadron Collider (LHC) al CERN di Ginevra è stato messo in servizio una decina di anni fa con lo scopo principale di esplorare ciò che poteva trovarsi al di là del modello standard. Tuttavia, dopo dieci anni di acquisizione dei dati, gli scienziati non sono riusciti a rilevare nuove particelle elementari, a parte il bosone di Higgs, nonostante le aspettative ampiamente contrarie. In altre parole, fino ad ora, le misurazioni dell’LHC non sono riuscite a fornire alcun suggerimento di “nuova fisica” oltre il modello standard. Questi risultati sono in netto contrasto con le numerose estensioni proposte di questo modello che suggeriscono che dovrebbero esistere un gran numero di nuove particelle.

In un precedente articolo pubblicato su Physical Review Letters, Hermann Nicolai e Krzysztof Meissner hanno presentato una nuova ipotesi che cerca di spiegare perché solo le particelle elementari già note si presentano come elementi elementari di base della materia in natura – e perché, contrariamente a quanto si pensava in precedenza , non si prevedono nuove particelle nella gamma di energia accessibile a esperimenti futuri attuali o immaginabili.

Inoltre, i due ricercatori postulano l’esistenza di gravitini superpesanti, che potrebbero essere candidati molto insoliti per la materia oscura. In una seconda pubblicazione, pubblicata di recente sulla rivista Physical Review D, hanno anche presentato una proposta su come rintracciare questi gravitini.

Nel loro lavoro, Nicolai e Meissner riprendono una vecchia idea del vincitore del Premio Nobel Murray Gell-Mann basata sulla teoria “N = 8 Supergravity”. Un elemento chiave della loro proposta è un nuovo tipo di simmetria a dimensione infinita che ha lo scopo di spiegare lo spettro osservato dei quark e dei leptoni noti in tre famiglie. “La nostra ipotesi in realtà non produce particelle aggiuntive per la materia ordinaria che dovrebbero quindi essere messe in discussione perché non si presentano negli esperimenti con l’acceleratore“, afferma Hermann Nicolai. “Al contrario, la nostra ipotesi in linea di principio può spiegare esattamente ciò che vediamo, in particolare la replica della divisione di quark e leptoni in tre famiglie“.

Tuttavia, i processi che avvengono nel cosmo non possono essere spiegati interamente dalla materia ordinaria di cui siamo già a conoscenza. Un segno di questo sono le galassie: ruotano ad alta velocità e la materia visibile nell’universo – che rappresenta solo circa il 5% della materia nell’universo – non dovrebbe essere sufficiente a tenerle insieme. Finora, tuttavia, nessuno sa di cosa sia fatto il resto, nonostante numerosi suggerimenti. La natura della materia oscura è quindi una delle più importanti domande senza risposta in cosmologia.

L’aspettativa comune è che la materia oscura sia costituita da una particella elementare e che non sia stato ancora possibile rilevare questa particella perché interagisce con la materia ordinaria quasi esclusivamente attraverso la forza gravitazionale“, afferma Hermann Nicolai.

Il modello sviluppato in collaborazione con Krzysztof Meissner offre un nuovo candidato per una particella di materia oscura di questo tipo, sebbene con proprietà completamente diverse da tutti i candidati discussi finora, come gli assioni o i WIMP. Quest’ultimo interagisce solo debolmente con la materia nota. Lo stesso vale per i gravitini molto leggeri che sono stati più volte proposti come candidati per la materia oscura in relazione alla supersimmetria a bassa energia.

Tuttavia, la presente proposta va in una direzione completamente diversa, in quanto non assegna più un ruolo primario alla supersimmetria, anche se lo schema discende dalla massima supergravità N = 8. “In particolare, il nostro schema prevede l’esistenza di gravitini super pesanti, che – a differenza dei soliti candidati e a differenza dei gravitini leggeri precedentemente considerati – interagirebbero fortemente ed elettromagneticamente con la materia ordinaria“, afferma Hermann Nicolai.

La loro grande massa significa che queste particelle possono esistere solo in forma molto diluita nell’universo; in caso contrario, “chiuderebbero” l’universo e porterebbero così al suo crollo.

Secondo il ricercatore del Max Planck, in realtà non ne occorrerebbero molti per spiegare il contenuto di materia oscura nell’universo e nella nostra galassia: sarebbe sufficiente una particella per 10.000 chilometri cubi. La massa della particella postulata da Nicolai e Meissner si trova nella regione della massa di Planck, cioè circa un centomilionesimo di chilogrammo. In confronto, protoni e neutroni – i mattoni del nucleo atomico – sono circa dieci quintilioni (dieci milioni di miliardi) volte più leggeri. Nello spazio intergalattico, la densità sarebbe persino molto più bassa.

La stabilità di questi gravitini pesanti dipende dai loro insoliti numeri quantici (cariche)“, afferma Nicolai. “Nello specifico, semplicemente non ci sono stati finali con le corrispondenti cariche nel modello standard in cui questi gravitini potrebbero decadere, altrimenti sarebbero scomparsi poco dopo il Big Bang“.

Le loro interazioni forti ed elettromagnetiche con la materia nota possono rendere queste particelle di materia oscura più facili da rintracciare nonostante la loro rarità estrema. Una possibilità è quella di cercarli con misurazioni del tempo di volo dedicate nel sottosuolo, poiché queste particelle si muovono molto più lentamente della velocità della luce, a differenza delle normali particelle elementari originate dalla radiazione cosmica, ma penetrerebbero senza sforzo attraverso Terra a causa della loro grande massa, come una palla di cannone che non può essere fermata da uno sciame di zanzare.

Questo fatto dà ai ricercatori l’idea di usare il nostro stesso pianeta come un “paleo-rivelatore“: la Terra orbita nello spazio interplanetario da circa 4,5 miliardi di anni, durante i quali deve essere stata penetrata da molti di questi enormi gravitini. Nel farlo, queste particelle dovrebbero aver lasciato tracce di ionizzazione lunghe e diritte nella roccia, ma potrebbe non essere facile distinguerle dalle tracce causate da particelle note. “È noto che le radiazioni ionizzanti causano difetti reticolari nelle strutture cristalline. Potrebbe essere possibile rilevare reliquie di tali tracce di ionizzazione in cristalli che rimangono stabili per milioni di anni a causa del loro lungo tempo di esposizione”, conclude Hermann Nicolai.

Fonte: Phys.org

Oltre TESS: i futuri cacciatori di esopianeti

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Alla prima conferenza scientifica annuale TESS, che si è tenuta al Massachusetts Institute of Technology dal 29 luglio al 2 agosto, i ricercatori hanno condiviso il primo anno di risultati scientifici ottenuti dal Transiting Exoplanet Survey Satellite (TESS) della NASA.

TESS ha finora rilevato ben 993 nuovi mondi di qui 28 sono già confermati. Alcuni di questi mondi si trovano all’interno della “zona abitabile” della loro stella, il che significa che potrebbero essere in grado di sostenere l’acqua liquida sulla loro superficie.

Ma oltre a parlare delle scoperte fatte da TESS, i ricercatori non vedono l’ora di sapere cos’altro possiamo imparare da questi esopianeti. Alla conferenza sono state presentate due missioni di follow-up che cercheranno di farlo: TARdYS (lo spettrografo Tao Aiuc ad alta risoluzione con banda Y) e CHEOPS (Characterising Exoplanet Satellite).

TARdYS, è una collaborazione tra l’Harvard College Observatory e la Pontificia Universidad Católica de Chile, è un telescopio terrestre progettato per analizzare la “velocità radiale” e la massa di un esopianeta.
Osservando il cambiamento di colore della stella di un esopianeta – leggermente blu se si sposta verso l’osservatore e leggermente rosso se si allontana – i ricercatori possono valutare il rimorchio gravitazionale di un esopianeta e ottenere una stima minima per la massa del pianeta.

TARdYS si concentrerà sull’emisfero celeste meridionale, che TESS ha studiato durante il suo primo anno di attività. Sarà uno degli unici spettrografi nel vicino infrarosso incentrati su quella regione.
Surangkhana Rukdee, la ricercatrice che ha presentato TARdYS alla conferenza e che ha lavorato al progetto per il suo dottorato, ha detto a Space.com che “TARdYS sarà una grande risorsa per esplorare ulteriormente gli esopianeti scoperti da TESS”.

TESS, utilizza il metodo chiamato “transito“, il metodo cerca cali di luminosità della stella madre quando un pianeta le orbita davanti rispetto alla prospettiva di chi osserva. Il metodo del transito aiuta a determinare le dimensioni del pianeta, ma per avere altri dati, quali la densità e la massa è utile avere il follow-up da un osservatorio a terra per confermare il rilevamento.
Avendo dati sia dalla misurazione del transito sia dalla velocità radiale, possiamo raccogliere campioni ben definiti, in particolare quelli simili alla Terra, per caratterizzare ulteriormente le atmosfere degli esopianeti“, ha spiegato Rukdee in una email a Space.com.

L’approccio del sistema TARDyS verificherà i risultati ottenuti da TESS e integrerà le misure di velocità radiale in corso, come lo spettrografo ESPRESSO dell’Osservatorio europeo meridionale. Inoltre TARDyS cercherà anche alcuni nuovi pianeti extrasolari.
Il telescopio sarà installato presso l’Osservatorio Atacama dell’Università di Tokyo e dovrebbe iniziare le operazioni nel 2020, ha affermato Rukdee.

Un altro telescopio che mira a esplorare ulteriormente i risultati degli esopianeti è CHEOPS, una missione unica nel suo genere da parte dell’Agenzia spaziale europea (ESA) in collaborazione con la Svizzera. CHEOPS è un piccolo satellite scientifico progettato per utilizzare la fotometria ad alta precisione per saperne di più sulla densità degli esopianeti di dimensioni tra la Terra e Nettuno. Studiare tali caratteristiche aiuterà i ricercatori a saperne di più sulla struttura interna, sulla composizione e sull’evoluzione dei mondi alieni, ha detto la scienziata del progetto CHEOPS Kate Isaak.

Abbiamo la massa degli esopianeti dalle osservazioni terrestri grazie a CHEOPS, e quindi siamo in grado di determinarne la densità e da ciò, saremo in grado di imparare qualcosa sulla struttura del pianeta – di cosa è probabilmente fatto. E da quello… potremo capire qualcosa sulla formazione e l’evoluzione di questi pianeti più piccoli.”

Un aspetto che differenzia CHEOPS da TESS, ha raccontato Isaak a Space.com, è la capacità del primo di orientarsi e puntare diversi esopianeti precedentemente identificati nel cielo. A volte TESS può solo intravedere il transito di un esopianeta poiché lo strumento scansiona sistematicamente il cielo, ma CHEOPS sarà un po ‘più flessibile. Secondo Isaak ciò aiuterà l’osservatorio a individuare potenziali obiettivi per missioni future, come il James Webb Space Telescope della NASA.

Siamo in grado di cercare pianeti che hanno ancora e possono mantenere le loro atmosfere, quindi, forniremo i migliori obiettivi [eseguendo] questa caratterizzazione del primo passo, e poi saremo in grado di dire:” OK, questi sono i migliori obiettivi per il follow-up con il James Webb Space Telescope o i più grandi telescopi terrestri del futuro“.

E in una delle sue caratteristiche più interessanti, CHEOPS fornirà agli scienziati di tutto il mondo l’accesso al telescopio. Ha affermato che il 20% del tempo di osservazione di CHEOPS all’anno sarà messo a disposizione degli “osservatori ospiti” e che l’uso del telescopio sarà assegnato esclusivamente a fini scientifici attraverso inviti annuali a presentare proposte. Le prime proposte sono già state accettate.

CHEOPS dovrebbe essere portato in orbita entro la fine dell’anno.

Fonte: Space.com