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Prove di vita trovate in un lago a 1000 metri di profondità sotto l’antartide

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Un gruppo di ricercatori ha rinvenuto i resti di tardigradi, alghe, diatomee e piccoli crostacei in un lago antartico sepolto sotto oltre un chilometro di ghiaccio. È quanto risulta secondo un rapporto pubblicato su Nature.

Lo studio è stato effettuato nell’ambito del progetto di accesso scientifico ai laghi antartici subglaciali (SALSA), che in precedenza aveva annunciato che avrebbe esplorato il lago Mercer, posto sotto oltre 1000 metri di ghiacccio, con una trivella larga 60 centimetri. La scoperta segna i primi risultati di quel progetto, finalizzato a comprendere questi strani ambienti acquatici.

Le carcasse rinvenute sono state stimate per un’età tra i 10.000 ed i 120.000 anni, quando l’atmosfera era più calda, prima che il progressivo abbassamento delle temperature ricoprisse il lago con una spessa cortina di ghiaccio, secondo quanto riportato su Nature. Non è ancora chiaro come le forme di vita rinvenute, in particolare quelle normalmente adattate ad un habitat terrestre, siano giunte fino là.

Questa del lago Mercer è stata la terza esplorazione di un lago subglaciale dell’Antartide, in precedenza questo lago era stato soggetto ad esplorazioni radar. La scoperta del lago Mercer risale a circa un decennio fa, si tratta di un lago grande circa 160 chilometri quadrati posto a circa 800 chilometri dal polo sud.

Secondo la relazione pubblicata su Nature, si riteneva improbabile che questo particolare lago potesse avere sostenuto la vita, dato lo spessore dello strato di ghiaccio che lo ricopre che impedisce che la luce solare possa raggiungerlo.

Il capo del progetto SALSA, John Priscu, ha sottolineato che il suo team ha accuratamente evitato possibili contaminazioni da qualsiasi fonte e che esperti esterni al progetto sono stati invitati a verificare i risultati ottenuti. Secondo tutte le verifiche effettuate, gli organismi rinvenuti sembrano essere morti da migliaia di anni e non hanno alcun rapporto con altri organismi rintracciabili nella regioni dell’Antartide prive di un ghiacciaio. Vale la pena rimanere scettici, comunque; non esiste ancora un documento sottoposto a peer review su questa ricerca.

In ogni caso, se confermata, la scoperta è eccitante per ragioni diverse dalla semplice stranezza di trovare la vita in Antartide. Gli astronomi hanno trovato acqua ghiacciata sulla luna di Giove Europa e in profondità sotto le calotte polari marziane. Trovare la vita nelle località più aliene della Terra ci fa sperare che ci possa essere vita negli analoghi su altri pianeti.

Il team cercherà ora di datare i materiali, sequenziare il loro DNA e analizzare campioni di altri laghi studiati dalla missione SALSA per raccontare la storia completa.

Il lander israeliano Lunar è arrivato in Florida. Il lancio a metà febbraio con un Falcon 9

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Spedito in un container a temperatura controllata, il lander è partito dall’aeroporto Ben Gurion vicino a Tel Aviv verso l’aeroporto internazionale di Orlando. Ora sarà portato al Cape Canaveral Air Force Station per i test e l’integrazione finale prima del decollo previsto per metà febbraio dal Launch Complex 40.

Il veicolo spaziale, chiamato “Beresheet” (Inizio in ebraico), volerà come carico secondario della missione Nusantara Satu, un satellite per comunicazioni che SpaceX trasporterà in orbita geostazionaria. L’operatore indonesiano Pasifik Satelit Nusantara lo definisce “il primo satellite ad alta velocità“.

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Il primo lander lunare di Israele viene caricato su un Boeing 747 all’aeroporto Ben Gurion prima del suo volo per l’aeroporto internazionale di Orlando venerdì 18 gennaio 2019. – Eliran Avital / SpaceIL / Israel Aerospace Industries

Costruito da SSL in California, il carico utile primario dovrebbe restare in orbita per 15 anni.

Mentre Nusantara Satu si posizionerà in orbita, Beresheet darà il via a un viaggio di due mesi verso la Luna che dovrebbe portarlo ad un atterraggio autonomo verso metà aprile. Una volta lì, effettuerà foto del sito di atterraggio ed effettuerà misurazioni elettromagnetiche per un esperimento congiunto NASA – Weizmann Institute.

Se avrà successo, sarà contemporaneamente la prima missione interplanetaria per un razzo Falcon 9 e il primo sbarco israeliano sulla superficie lunare.

Ulteriori dettagli sulla missione non sono ancora stati rilasciati da SpaceX. La compagnia sta ancora dando la priorità al suo primo volo dimostrativo senza equipaggio del Crew Dragon dal Kennedy Space Center, che è provvisoriamente in programma per i primi di febbraio.

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Un rendering del lander lunare SpaceIL / Israel Aerospace Industries, noto anche come “Beresheet”.
SpaceIL / Israel Aerospace Industries

ESA e ArianeGroup sulla Luna nel 2025

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ArianeGroup ha annunciato ha annunciato lunedì di aver firmato un contratto di un anno con l’Agenzia Spaziale Europea per studiare la possibilità di preparare una missione lunare, con un obiettivo ancora da regolamentare.

La missione rientrerebbe nell’obbiettivo annunciato un anno fa dall’ESA di stabilire una base scientifica sulla Luna entro il 2030.

Secondo la compagnia francese, la missione sarebbe finalizzata a verificare la possibilità di estrarre acqua, e quindo ossigeno ed idrogeno, dalla regolite. “La regolite è un minerale da cui è possibile estrarre acqua e ossigeno, permettendo così di prevedere una presenza umana indipendente sulla Luna e di produrre il carburante necessario per missioni esplorative più distanti“.

ArianeGroup ha affermato che la missione non comporterà l’invio di uomini sulla luna.

 Il cavaliere di Bardi

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di Oliver Melis

Nell’antico castello di Bardi (Parma), fra il 1400 e il 1500, il prode condottiero Moroello, comandante della guarnigione locale, amava la bella Soleste, la giovane figlia del castellano che, a sua volta, freme per Moroello ma il padre l’ha promessa in sposa ad un feudatario vicino. Un matrimonio che porterà nuove terre ed una solida alleanza.

Solo la balia aiuta Soleste e Moroello e fa di tutto affinché i due ragazzi possano incontrarsi e stare insieme.

Purtroppo la sfortuna sta per accanirsi contro i due giovani innamorati. Moroello dovette partire in battaglia, e ogni giorno Soleste lo attendeva ansiosa e spaventata per la sua sorte. Dopo tanta attesa, finalmente, dall’alto della torre, la giovane vide un manipolo di soldati che cavalcava verso il castello: credette che Moroello stesse per tornare da lei, ma si accorse che quello che sventolava era il vessillo del nemico. Dalla disperazione, Soleste si gettò dal torrione, cadendo ai piedi dell’amato Moroello, che tornava vittorioso sventolando le insegne nemiche sconfitto.

Il Cavaliere, alla vista di lei morta non poté sopportare la tragedia e si suicidò per raggiungere l’amata.

Da allora, si racconta che il castello di Bardi è infestato dallo spirito del condottiero, e forse anche da quello della giovane donna. I visitatori raccontano di gelide correnti d’aria, cerchi di pietre che si compongono da soli, profumi e rumori.

Vent’anni fa circa, verso la fine degli anni 90, alcuni appassionati di paranormale decisero di indagare e durante alcuni sopralluoghi scattarono delle fotografie sia con normali dispositive che con apparecchiature in grado di catturare la traccia a infrarossi di eventuali “presenze”.

In una di queste foto venne immortalata una figura che sembrava quella di “un cavaliere inginocchiato” forse ferito a un braccio in quanto la variazione di temperatura mostrava una zona con un colore diverso all’altezza del braccio. Le immagini all’epoca destarono molto clamore e curiosità e i due ricercatori vennero ospitati in diverse trasmissioni televisive.

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Ad onor del vero, anche il CICAP si mosse e condusse alcuni esami sulla foto concludendo che la figura umana diventava apparentemente più chiara e riconoscibile solo dopo essere stata elaborata in falsi colori, la foto originale mostrava solo una macchia informe e indistinta, dimostrando che l’immagine in falsi colori fu interpretata attraverso il fenomeno noto come pareidolia.

Fonte: Queryonline

Qualcuno può ‘possedere’ la Luna (o parti di essa)?

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Sono parecchie le aziende private che stanno esaminando la possibilità di estrarre dalla Luna acqua e altre materie prime. Chiaramente, questo implica che queste aziende debbano disporre di una concessione che autorizzi l’estrazione lunare. Quali sono, però, le regole previste per lo sfruttamento minerario della Luna?

Semplicemente, non ne esistono.

Sono passati quasi 50 anni da quando Neil Armstrong è diventato il primo uomo a camminare sulla Luna. “Questo è un piccolo passo per un uomo“, disse l’astronauta statunitense, “un passo da gigante per l’umanità“.

Poco dopo, il suo collega Buzz Aldrin si unì a lui a passeggiare sulla superficie del Mare della Tranquillità e, dopo avere disceso i gradini del modulo lunare Aquila, guardò il paesaggio vuoto e disse: “Magnifica desolazione“.

Dalla missione dell’Apollo dell’11 luglio 1969, pochissimi esseri umani hanno posto piede sul nostro satellite e nessuno dal 1972. Questa, però, è una situazione che potrebbe cambiare presto, con diverse aziende che si interessano all’esplorazione lunare e, possibilmente, all’estrazione di alcune materie prime, a cominciare dall’acqua e dall’Elio 3, per arrivare a risorse come l’oro, il platino e minerali di terre rare così tanto utilizzati nell’elettronica e sempre più rari sulla Terra.

All’inizio di questo mese, la Cina ha sbarcato una sonda, la Chang’e-4, sul lato lontano della Luna, ed è riuscita anche ad ottenere la geminazione di un seme di cotone in una biosfera artificiale, dimostrando che la bassa gravità lunare potrebbe non essere un problema per la coltivazione di ortaggi. Purtroppo il germoglio e gli altri semi sono morti a causa di un guasto elettrico che ha impedito il riscaldamento provocando la caduta della temperatura a bordo del modulo a -52 gradi. La Cina intende costituire al più presto una base sulla Luna per la ricerca.

Intanto, l’azienda giapponese iSpace ha in programma di costruire una “piattaforma di trasporto Terra-Luna” per effettuare prospezioni alla ricerca “dell’acqua” ai poli lunari.

E ci sono molte altre aziende private che intendono arrivare sulla Luna a scopi commerciali, siano minerari o turistici. Quindi, quali sono le regole che potrebbero garantire che la desolazione di Aldrin rimanga indisturbata? Oppure il satellite naturale della Terra è destinato ad essere l’obbiettivo di una corsa allo sfruttamento commerciale?

La potenziale proprietà dei corpi celesti è stata considerata un problema fin da quando è iniziata l’esplorazione spaziale durante la Guerra Fredda. Mentre la NASA stava pianificando le sue prime missioni lunari con equipaggio, l’ONU ratificò un trattato sullo Spazio Esterno, firmato nel 1967 da paesi come gli Stati Uniti, l’Unione Sovietica e il Regno Unito.

Nel trattato si afferma che: “Lo spazio esterno, compresa la Luna e altri corpi celesti, non è soggetto all’appropriazione nazionale per rivendicazione di sovranità, per mezzo dell’uso o dell’occupazione, o con qualsiasi altro mezzo“.

Grafico lunare che espone ciò che potrebbe essere estratto - acqua, oro, platino e elementi di terre rare

Joanne Wheeler, direttrice della società spaziale Alden Advisers, descrive il trattato come “la Magna Carta dello spazio“. Fa piantare una bandiera sulla Luna – come fecero Armstrong e i suoi successori – “priva di significato“, in quanto non conferisce alcun “diritto vincolante” a individui, società o paesi, aggiunge.

In termini pratici, la proprietà della terra e i diritti minerari per la Luna non erano ritenuti troppo importanti nel 1969. Ma oggi, con lo sviluppo della tecnologia e l’accesso allo spazio di soggetti privati, lo sfruttamento delle risorse lunari a fini di lucro è diventato una prospettiva più che probabile, e nemmeno troppo lontana.

Nel 1979 l’ONU produsse un accordo che disciplinava le attività degli Stati sulla Luna e altri corpi celesti, meglio noto come accordo sulla Luna. Questo accordo stabilisce che la Luna e gli altri corpi celesti del sistema solare devono essere usati per scopi pacifici, e che l’ONU deve sapere e approvare preventivamente dove e perché qualcuno pianifichi di costruire una base permanente.

L’accordo recita anche che “la Luna e le sue risorse naturali sono patrimonio comune dell’umanità e che dovrebbe essere istituito un regime internazionale “per governare lo sfruttamento di tali risorse quando tale sfruttamento stia per diventare fattibile“.

Il problema con l’accordo sulla Luna, tuttavia, è che solo 11 paesi l’hanno ratificato. La Francia è una, e l’India è un’altra. La nazioni maggiormente impegnate nello spazio, tra cui Cina, Stati Uniti e Russia non hanno mai firmato e ratificato l’accordo. E nemmeno il Regno Unito che pure non è, al momento, particolarmente impegnato in operazioni spaziali, anche se lo è almeno una azienda privata britannica con grandi ambizioni.

Ad ogni modo, Wheeler sostiene che, non sarà così facile” far rispettare le regole delineate nei trattati.

Atto di proprietà della luna, 1955
GETTY IMAGES

La prof.ssa Joanne Irene Gabrynowicz, ex redattore capo del Journal of Space Law, concorda sul fatto che gli accordi internazionali non offrono “alcuna garanzia“. L’applicazione “è una miscela complessa di politica, economia e opinione pubblica“, aggiunge.

E i trattati esistenti, che negano la proprietà nazionale dei corpi celesti, hanno già dovuto affrontare una sfida negli ultimi anni.

Nel 2015, gli Stati Uniti hanno approvato la legge sulla competitività dei lanci spaziali a scopo commerciale, riconoscendo il diritto dei cittadini di possedere le risorse che riescono a estrarre dagli asteroidi. Non si applica esplicitamente alla Luna, ma il principio potrebbe essere esteso.

Eric Anderson, co-fondatore della società di esplorazione Planetary Resources, ha descritto questa legislazione come “il più grande riconoscimento dei diritti di proprietà nella storia“.

Nel 2017, il Lussemburgo ha approvato un proprio atto, fornendo lo stesso diritto di proprietà alle risorse trovate nello spazio. Il vice primo ministro Etienne Schneider ha dichiarato che questa legge renderà il suo paese “un pioniere europeo e leader in questo settore“.

La volontà di esplorare e fare soldi è lì, con i paesi apparentemente sempre più desiderosi di aiutare le aziende.

Chiaramente l’estrazione mineraria, sia che si intenda importare i materiali sulla Terra, sia che si intenda fabbricare prodotti finiti localmente, è l’esatto opposto del non arrecare alcun danno“, afferma Helen Ntabeni, avvocato di Naledi Space Law and Policy.

Aggiunge che si potrebbe sostenere che gli Stati Uniti e il Lussemburgo si sono “tirati fuori” dalle disposizioni del Trattato sullo Spazio Esterno. “Sono piuttosto scettico sul fatto che le alte nozioni morali del mondo che utopizzavano l’esplorazione spaziale come uno sforzo comune dell’umanità saranno preservate“.

Insomma, stanno per cominciare le guerre commerciali nello spazio, guerre cui si uniranno, a quanto pare con entusiasmo, anche gli ambientalisti di ogni tipo.

Ricerca di intelligenze aliene: il paradosso di Fermi e il grande filtro

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Il rilevamento di una nuova serie di Fast Radio Burst (che alcuni scienziati ipotizzano essere la prova di lontanissime attività aliene) e la recente intervista rilasciata da un astrofisico di Harvard a proposito dell’oggetto interstellare ‘Oumuamua, hanno riacceso l’interesse sul dibattito se siamo o meno soli nell’universo.

Una nuova inchiesta pubblicata su Nature ha esaminato le raffiche radio veloci, un mistero astronomico che alcuni hanno sostenuto potrebbe essere di origine artificiale. Fu nel 2007 che rilevammo le prime raffiche radio veloci, o Fast Radio Burst, ma gli attuali aggiornamenti tecnologici ci hanno permesso di rilevarne di nuove e confermare che alcune si ripetono. L’origine di questi segnali ripetuti è sconosciuta, portando alcuni scienziati a ipotizzare che potrebbero avere un’origine aliena.

Pochi giorni dopo, il professore e presidente del dipartimento di astronomia di Harvard, Avi Loeb, ha sostenuto in una nuova intervista che l’oggetto interstellare Oumuamua, che ha attraversato il nostro sistema solare nel 2017-2018, potrebbe essere una vela solare realizzata da un’antica civiltà.

Gran parte del disaccordo sembra radicato sui presupposti in base ai quali al vita potrebbe essere o meno comune nell’universo. Molti scienziati che pensano che lo spazio dovrebbe brulicare di vita aliena, tendono a trovare nell’esistenza degli alieni la spiegazione più probabile per un’ampia varietà di fenomeni astronomici; gli scienziati convinti che probabilmente siamo soli, tendono ad interpretare gli stessi dati in modo opposto.

Alcune delle deduzioni che possiamo ricavare dalla ricerca degli alieni hanno profonde implicazioni per il nostro mondo. In particolare, alcuni scienziati ritengono che non troviamo gli alieni a causa di un vero e proprio filtro contro cui si schiantano le civiltà quando arrivano ad un certo punto del loro sviluppo tecnico e pensano che studiare l’universo possa darci un segno di ciò che il futuro ci riserva.

Se c’è vita là fuori, è distante e difficile da individuare. Una civiltà aliena super sofisticata e tecnologicamente avanzata lascerebbe probabilmente tracce più visibili. Ad esempio, una civiltà che ha goduto di milioni di anni di innovazione tecnologica rispetto alla nostra potrebbe essere in grado di costruire sfere di Dyson (una struttura enorme che racchiude una stella per utilizzarla come fonte di energia) e inviare segnali e sonde ad esplorare l’universo che potrebbero essere facilmente identificabili per quello che sono. È difficile indovinare esattamente cosa farebbero, ma è molto improbabile che le loro azioni non lascino alcun segno rilevabile sull’universo.

Le tracce che abbiamo osservato finora non sono affatto vicine al tipo di prova che dimostrerebbe che esiste una civiltà extraterrestre. Ciò significa che potrebbero esserci ostacoli difficili da prevedere che impediscono lo sviluppo di civiltà galattiche avanzate o che distruggono tali civiltà prima che raggiungano una dimensione tale da poterle individuare. O potrebbe solo significare che la vita stessa è una coincidenza spettacolare.

Come chiarisce il caso Oumuamua, gli scienziati non sono d’accordo su come interpretare questi fenomeni in gran parte perché non sono d’accordo su quanto sia plausibile la vita aliena.

Da un certo punto di vista, l’universo è sorprendentemente grande, pieno di pianeti abitabili come la Terra, dove la vita potrebbe evolvere come ha fatto qui. Probabilmente, in alcuni casi, quella vita è evoluta verso l’intelligenza e quindi ci aspetteremmo che nell’universo vi siano molte civiltà fiorenti, così come molte estinte.

Questa è chiaramente l’aspettativa che motiva Avi Loeb. “Non appena lasceremo il sistema solare, credo che vedremo una grande quantità di traffico là fuori“, ha affermato nell’intervista rilasciata ad Haaretz. Forse riceveremo un messaggio che dice: ‘Benvenuto nel club interstellare’. O scopriremo molte civiltà morte – cioè, troveremo i loro resti.

Ovviamente, se si pensa che lo spazio sia pieno di alieni, non è troppo difficile interpretare i fenomeni astronomici come segni della presenza di alieni.

Allo stesso modo, se si guardano gli stessi dati con l’aspettativa che siamo soli nell’universo, è molto più probabile concludere che esiste una spiegazione naturale per le raffiche di radio veloci e Oumuamua.

Certo, è strano, dato che l’universo è così vasto, trovarci a pensare di essere soli in esso. Il fisico Enrico Fermi fu il primo a enunciare questo dilemma, che, infatti, prende il nome da lui: il paradosso di Fermi. Il paradosso consiste nel fatto che, in base ad alcune ragionevoli supposizioni su quanto spesso la vita abbia origine e raggiunga un certo livello tecnologico, dovremmo essere in grado di rilevare i segni di migliaia o milioni di altre civiltà. Eppure non li troviamo. Recenti indagini suggeriscono che il paradosso può avere una risoluzione banale: partendo da ipotesi più accurate su come la vita possa avere origine, siamo molto plausibilmente soli.

Ma restano ipotesi e continuiamo a non avere prove definitive né in un senso né nell’altro.

Il disaccordo tra i ricercatori che pensano che le civiltà avanzate debbano essere estremamente rare e coloro che pensano che siano comuni, è piuttosto sostanziale. Ma se le civiltà avanzate sono comuni, allora perché non le troviamo? Potremmo essere costretti a concludere che sono piuttosto di breve durata. Questo è il punto di vista di Loeb: “Il periodo durante il quale una civiltà potrebbe essere in grado di comunicare potrebbe essere molto breve. Le vele come Oumuamua potrebbero essere molte ma non avere più nessuno a cui trasmettere“.

Considerare come realistica questa ipotesi avrebbe alcune conseguenze anche per noi. Se c’è un pericolo che annienta le civiltà ad un certo punto del loro sviluppo tecnologico, potremmo essere prossimi a quel punto e finiremo per autodistruggerci a causa di qualche scoperta tecnologica che faremo a breve.

Ad esempio, i Fast radio Burst, potrebbero essere emissioni collegate all’utilizzo di un qualche tipo di energia o di tecnologia ancora da scoprire che, una volta scoperta, porterà, o potrebbe portare, ad un evento di tipo estinzione. I casi, molto più frequenti, in cui il FRB non si ripete potrebbero indicare che una civiltà si è autodistrutta, mentre i casi, molto più rari (solo due scoperti fino ad oggi) in cui la stessa sorgente emette più volte il segnale potrebbero significare che una civiltà è riuscita ad andare oltre scoprendo il modo giusto per sfruttare quella particolare fonte energetica o tecnologia.

C’è da rilevare anche che tutte le sorgenti di FRB rilevate finora si trovano a distanze di centinaia di milioni o miliardi di anni luce di distanza da noi e tra loro, il che significa che, se fossero segni della presenza di civiltà aliene, sarebbero lontane da noi (e tra loro) miliardi di anni in termini di spazio e tempo.

Per concludere, le implicazioni delle diverse ipotesi sulla presenza o meno di civiltà aliene sono particolarmente importanti anche per noi. Le speculazioni sugli alieni tendono ad avere una copertura molto più ampia di qualsiasi altra cosa in astronomia. Sentiamo come una questione profondamente importante il capire se siamo soli o meno nell’universo, per le implicazioni che questa scoperta avrebbe per la civiltà umana.

Ci stiamo dando parecchio da fare per scoprire se esiste vita sui mondi alieni, nel sistema solare e oltre. Se dovessimo scoprire la vita da qualche parte, fosse Marte o una luna di Saturno o un qualsiasi esopianeta, non potremmo non concludere che la vita sia un fenomeno molto comune nell’universo e da questo derivare che, prima o poi, almeno in una parte di questi luoghi brulicanti di vita, prima o poi debba emergere l’intelligenza.

Questo, però, per tornare a Enrico Fermi e al suo “Dove sono tutti quanti?” Significherebbe che, perdurando il silenzio nella nostra ricerca di intelligenza, esiste veramente un limite oltre il quale nessuna civiltà tecnologica, o solo pochissime, è in grado di andare senza autodistruggersi. 

NASA, meglio una nuova Oca di abete rosso o affidarsi a SpaceX?

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Negli anni ’40 Howard Hughes fu finanziato dal governo degli Stati Uniti con 23 milioni  di dollari (circa 300 milioni attuali) per sviluppare lo Hughes H-4 Hercules, soprannominato l’oca di abete rosso, un enorme idrovolante da trasporto realizzato per lo più in legno di abete rosso. All’epoca era il più grande aereo del mondo. Non volò fino a dopo la seconda guerra mondiale. poi, Hughes ha dovuto farlo volare per salvarsi della accuse del governo degli Stati Uniti  che lo accusò di essere un profittatore che in tempo di guerra aveva preso soldi senza consegnare un aereo da trasporto.

Oggi c’è il rischio concreto che una cifra cento volte maggiore finisca in un razzo senza fine con lo Space Launch System.

Già spesi da $ 35 a $ 40 miliardi di dollari per arrivare a un primo lancio integrato di SLS e Orion

Dal 2005 al 2010, gli Stati Uniti spesero circa $ 11,9 miliardi per il mai decollato, è il caso di dirlo, programma Constellation. Questi soldi furono usati per finanziare lo sviluppo del Constellation essenzialmente alle stesse aziende che oggi lavorano sullo Space Launch SystemSostanzialmente il lanciatore pesante detto SLS è un adattamento degli stessi buster che lanciavano lo Space Shuttle.

Space Launch System (SLS) ha speso già $ 14 miliardi dal 2011 al 2018. sono previste ulteriori spese per altri $ 6,8 miliardi dal 2019 al 2021. Per l’SLS ci sono circa $ 2,3 miliardi all’anno. Saranno $ 21 miliardi su SLS per arrivare al suo primo lancio di test se il lancio di test, già programmato e rinviato più volte, avverrà nel 2021.

Altri 15 miliardi di dollari sono stati spesi per il veicolo spaziale con equipaggio Orion che è, sostanzialmente, un aggiornamento alla tecnologia attuale delle capsule Apollo. Sono $ 1,3 i miliardi spesi annualmente per Orion. C’è stato un test di abort su pad nel 2010 e un test orbitale su un razzo Delta IV nel 2014. Ci sarà un altro test senza equipaggio attualmente in programma per dicembre 2019.

La spesa combinata per il programma Constellation e dell’SLS è stata finora di $ 26 miliardi e ha portato a un lancio di prova chiamato Ares 1 nel 2009.

Nel tardo 2019 o all’inizio del 2020 sarà disponibile l’astronave orbitale di SpaceX

SpaceX ha di recente annunciato che Il primo lancio per un test orbitale della sua Starship potrebbe avvenire già alla fine del 2019 o al massimo per i primi mesi del 2020.

Secondo quanto presentato, la nave spaziale di SpaceX, Starship, sarà mandata nello spazio dal lanciatore pesante Super Heavy che supererà di molto lo Space Launch System in ogni metrica.

Il Falcon Heavy di SpaceX ha già due lanci previsti per i primi mesi del 2019

Il Falcon Heavy di SpaceX si sta preparando per i primi due lanci commerciali e dimostrerà, ancora una volta, la sua capacità di rapido riutilizzo dei booster di primo livello.

Il Falcon Heavy già si avvicina alle capacità di lancio teoriche previste per lo Space Launch SystemSe SpaceX dovesse unire quattro side-booster invece di due, il Falcon Heavy-4 supererebbe le capacità del SLS.

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Tutto questo è la premessa per alcune domande da fare con urgenza alla NASA ed al congresso degli Stati Uniti:

  • Davvero vale la pena di continuare a spendere vagonate di dollari per arrivare, in ritardo, a disporre di un lanciatore già obsoleto quando entrerà in servizio? 
  • Già ora la NASA ed i militari si stanno affidando ad aziende private per i lanci spaziali di ogni tipo e nel corso di quest’anno riprenderà i lanci di astronauti dal territorio americano grazie alle capsule riutilizzabili di SpaceX e Boeing. Davvero vale la pena di accontentare i lobbysti buttando una marea di soldi che potrebbero essere spesi meglio, ad esempio per tornare più in fretta sulla Luna, per lasciare ad alcune grandi aziende lo sviluppo di un sistema di lancio che non potrà essere concorrenziale non essendo minimamente riutilizzabile?
  • Non sarebbe meglio sospendere la realizzazione di un mezzo spaziale nato già vecchio e che non porterà importanti ritorni economici alla NASA ma solo ulteriori spese, magari assegnando alle aziende appaltatrici lo sviluppo del Lunar Gateway o di una base lunare, e affidare i lanci spaziali esclusivamente alle aziende private americane, in particolare a SpaceX che ha dimostrato una particolare predisposizione e capacità di innovazione ed il coraggio di sognare in grande?
  • La Dragon Crew è ormai prossima ad iniziare voli regolari per e dalla Stazione Spaziale Internazionale e la Starship potrebbe essere pronta alle missioni previste ancora prima di SLS+Orion e tutto questo anche con fondi messi a disposizione dalla NASA stessa. La ridondanza va bene ma solo se i sistemi possono garantire tutti le stesse prestazioni: SLS + Orion già nel progetto sono inferiori a ciò che può mettere in campo SpaceX.

Perchè si vuole un’altra Oca di abete rosso?

 

Il passato di Marte e il futuro della ricerca della vita

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di Oliver Melis

In passato Marte aveva le giuste condizioni per ospitare la vita sotterranea; cosi suggerisce una nuova ricerca e forse è là che le future missioni spaziali troveranno la vita marziana o ciò che ne rimane.

Abbiamo dimostrato, attraverso calcoli di fisica e chimica di base, che l’antico sottosuolo marziano poteva avere abbastanza idrogeno disciolto per alimentare una biosfera globale sotterranea“, ad affermarlo Jesse Tarnas, uno studente laureato alla Brown University e autore di uno studio pubblicato su Earth and Planetary Science Letters. “Le condizioni in questa zona abitabile sarebbero state simili ai luoghi sulla Terra dove esiste la vita sotterranea“.

Il nostro pianeta ospita ecosistemi microbici litotrofici sotterranei, detti in breve SliMEs. In assenza di luce solare, questi microbi sotterranei possono ottenere energia staccando gli elettroni dalle molecole dell’ambiente circostante, l’idrogeno molecolare disciolto è un donatore di elettroni ed è noto per alimentare SLiME sulla Terra.
Questo nuovo studio mostra che la radiolisi, un processo attraverso il quale la radiazione rompe le molecole d’acqua nelle loro parti costitutive di idrogeno e ossigeno, avrebbe creato idrogeno molecolare nell’antico sottosuolo marziano.

I ricercatori stimano che la concentrazione di idrogeno nella crosta marziana circa 4 miliardi di anni fa, sarebbe rientrata nell’intervallo di concentrazioni che oggi sostengono numerosi microbi presenti sulla Terra.
Le scoperte, però, non svelano se su Marte sia esistita la vita in passato, ci raccontano che, semmai ci fosse stata, il sottosuolo marziano aveva gli ingredienti necessari per sostenerla per centinaia di milioni di anni. Il lavoro ha anche implicazioni per la futura esplorazione di Marte, suggerendo che quelle aree del sottosuolo potrebbero essere siti idonei per cercare prove della vita passata.

Andare sottoterra

Decenni fa sono stati scoperti antichi canali fluviali e letti di laghi su Marte e per questo, molti scienziati hanno pensato che il Pianeta Rosso un tempo ospitasse la vita. Non ci sono ormai dubbi sulla passata attività idrica marziana, anche se non è chiaro quale quantità di acqua nella storia marziana sia effettivamente fluita.

I modelli climatici allo stato dell’arte, per il primo Marte producono temperature che raramente raggiungono il limite massimo di congelamento, il che suggerisce che i primi periodi umidi del pianeta potrebbero essere stati eventi fugaci. Questo non è lo scenario migliore per sostenere la vita in superficie a lungo termine, e alcuni scienziati pensano che il sottosuolo potrebbe essere una scommessa migliore per la vita marziana del passato.

Se vita sotterranea c’è stata, qual era la sua natura? E dove prendeva l’energia?” Si domanda Jack Mustard, professore nel Dipartimento di Terra, Scienze Ambientali e Planetarie di Brown e coautore dello studio. “Sappiamo che la radiolisi aiuta a fornire energia per i microbi sotterranei sulla Terra, quindi quello che Jesse ha fatto è stato quello di verificare la possibilità di radiolisi su Marte

I ricercatori hanno esaminato i dati dello spettrometro a raggi gamma a bordo della sonda spaziale Mars Odyssey della NASA. Hanno mappato l’abbondanza di elementi radioattivi di torio e potassio nella crosta marziana. Basandosi su quei dati, potevano dedurre l’abbondanza di un terzo elemento radioattivo, l’uranio. Il decadimento di questi tre elementi fornisce la radiazione che favorisce la scomposizione in idrogeno e ossigeno mediante radioattività dell’acqua. Sapendo che gli elementi decadono in modo costante, i ricercatori conoscendo il decadimento odierno sono potuti risalire a quello di 4 miliardi di anni fa. Questo ha dato al team un’idea del flusso di radiazioni che innescava la radiolisi in quel lontano periodo.

Le prove geologiche suggeriscono che nelle rocce porose dell’antica crosta marziana si sarebbero formate molte sacche di acqua sotterranea. I ricercatori hanno usato le misurazioni della densità della crosta marziana per stimare approssimativamente quanto spazio poroso sarebbe stato disponibile per riempirle d’acqua. Il team ha inoltre utilizzato modelli geotermici e climatici per determinare quale sarebbe stato il punto giusto, non troppo freddo da gelare l’acqua ne troppo calda a causa del calore del nucleo di Marte.

Combinando queste analisi, i ricercatori hanno concluso che Marte probabilmente aveva una zona abitabile sotto la superficie ampia parecchi chilometri. Secondo i calcoli la produzione di idrogeno attraverso la radiolisi avrebbe generato più che sufficiente energia chimica per supportare la vita microbica, sulla base di ciò che accade sulla Terra. E quella zona sarebbe rimasta idonea ad ospitarla per centinaia di milioni di anni.

I risultati hanno resistito anche quando i ricercatori hanno utilizzato diversi scenari climatici: alcuni più caldi, altri più freddi. È interessante notare che, dice Tarnas, la quantità di idrogeno sotto la superficie disponibile per l’energia aumenta effettivamente quando si considerano gli scenari climatici estremamente freddi. Questo perché uno strato di ghiaccio più spesso sopra la zona abitabile funge da barriera che aiuta a mantenere l’idrogeno nel sottosuolo. Un clima freddo, conclude Tarnas non è dannoso per la vita, anzi, si dimostra che c’è un’energia chimica maggiore per supportarla.

Tarnas e Mustard sono dell’idea che i risultati potrebbero essere utili per capire dove inviare i veicoli spaziali alla ricerca di segni della vita marziana passata.
Una delle opzioni più interessanti per l’esplorazione è guardare ai blocchi di roccia scavati dal sottosuolo dagli impatti di meteoriti“, ha detto Tarnas. “Molti di questi proverrebbero dalle profondità abitabili, e possono trovarsi praticamente inalterati in superficie”.

Mustard, che è stato attivo nel processo di selezione di un sito di atterraggio per il rover Mars 2020 della NASA, dice che questi tipi di blocchi sono presenti in almeno due dei siti che la NASA sta considerando: il nordest Syrtis Major e Midway.
La missione del rover 2020 è cercare i segni della vita passata“, ha detto Mustard. “Le aree in cui si possono trovare i resti di questa zona abitabile sotterranea – che potrebbe essere stata la più grande zona abitabile del pianeta – sembrano un buon posto dove rivolgere lo sguardo”.

Fonte: Sciencedaily.com

Gli insetti sono il futuro dell’alimentazione umana ma non è tutt’oro quel che luce

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Siamo moltissimi, più di sette miliardi e mezzo di persone e le proiezioni dicono che nel 2030 saremo oltre nove miliardi: troppi perché il nostro attuale sistema di approvvigionamento del cibo possa continuare a funzionare per tutti. A questo proposito, le Nazioni Unite hanno varato un programma che tende ad incentivare ed incrementare l’uso di insetti commestibili come fonte di proteine.
Insomma, il futuro ci riserva pasti a base di insetti e farine di insetti, il cui allevamento e produzione è sicuramente più sostenibile rispetto agli allevamenti intensivi di animali: oggi, come vedremo meglio più avanti, il 75% dei terreni coltivabili viene utilizzato per produrre mangimi per gli animali da allevamento, mentre gli allevamenti di animali sono responsabili del 15% delle emissioni di gas serra nell’atmosfera. Se arriveremo ad essere nove miliardi di umani sulla Terra, dovremo mangiare insetti, lo dicono le Nazioni Unite.
Ma rianalizziamo un po’ questa faccenda. Insetti come grilli e scarafaggi sono, infatti, un’ottima fonte di proteine ​​e altri nutrienti. Un’alimentazione a base di insetti non è certo una novità, in molte zone del mondo gli insetti fanno parte della dieta degli esseri umani e nello stesso occidente fino ad un paio di secoli or sono facevano parte della dieta comune, almeno per le fasce meno abbienti della popolazione. Bisogna dire che gli insetti commestibili che vengono consumati attualmente tendono, in massima parte, ad essere catturati in natura e consumati in numeri relativamente piccoli. 
Nulla a che vedere con il futuro da insettivori che l’ONU ha pianificato per gli esseri umani nel 2013. Gli allevamenti intensivi di insetti in grado di allevare, macellare, trattare, confezionare e spedire milioni di insetti richiedono più cibo per nutrirli, producono più rifiuti e sollevano questioni spinose di vario genere, dall’entomologia all’etica. “In realtà, non ne sappiamo molto“, afferma Åsa Berggren, ecologo dell’Università svedese di scienze agrarie di Uppsala, che ha cercato di individuare la sostenibilità di un menu basato sugli insetti. “E la gente non sa cosa che non sappiamo.

Queste carenze dovrebbero preoccupare, perché noi umani abbiamo già indirizzato il nostro sistema alimentare verso una crisi di sostenibilità. Come ogni vegano è in grado di spiegare, il sistema globale basato sull’allevamento di proteine ​​animali a scopo alimentare ha dei difetti.

Utilizziamo il 77% delle terre agricole del mondo per coltivare mangimi per animali da carne, anche se rappresentano solo il 17% delle calorie consumate. Il bestiame emette il 14,5 per cento dei gas serra che causano cambiamenti climatici; l’allevamento di maiali rappresenta un possibile serbatoio di virus influenzali che causano pandemie; l’allevamento di avidi alimenta lo sviluppo di batteri resistenti agli antibiotici.

Ma questi non sono problemi causati dalle proteine ​​animali in sé; sono problemi di scala e capitalismo. E il futuro degli insetti come cibo minaccia di diventare altrettanto industriale. Alcuni paesi europei dispongono già di “strutture per l’allevamento di massa, enormi, grandi come hangar per aerei“, afferma Berggren. Ma non deve essere necessariamente un problema. Il nuovo interesse per gli insetti è, in effetti, un’opportunità. “Se iniziamo ad allevare questi insetti al posto degli animali, dovremmo essere in grado di organizzare il tutto senza ricadere nei vecchi errori.”

Scrivendo sulla rivista Trends in Ecology and Evolution, Berggren ed i suoi colleghi presentano una sorta di articolo anti-revisione, una lista non di ciò che è noto, ma delle incognite che emergono quando moltissime nuove compagnie inizia la produzione di insetti. Secondo un’analisi, gli insetti commestibili costituiranno un mercato globale da 710 milioni di dollari già nei prossimi cinque anni: più specie, macinate in farina o vendute come barrette alimentari e snack vari. Ma allevare tutti quegli insetti significherà più spazio per conseguenze indesiderate.

Per esempio, oggi la gente usa un’enorme quantità di terra per coltivare le piante, necessarie a nutrire gli animali di cui ci nutriamo. Gli insetti hanno bisogno di meno cibo per fornire più proteine.

Il fatto che poche persone stiano pensando alla sostenibilità si adatta a un modello. Secondo Bob Martin, direttore del Food Policy Program della Johns Hopkins School of Public Health, la mancata attenzione alla sostenibilità, già avvenuta con i polli e che sta ripetendosi con l’acquacoltura, è un pericolo, perché polli e pesci vengono letteralmente imbottiti di antibiotici e questo non fa altro che aumentare il rischio che si selezionino ceppi batterici resistenti a quegli antibiotici.

Lo stesso potrebbe verificarsi con gli allevamenti di insetti, magari in modo diverso. Ad esempio, l’Aspire Food Group, che produce grilli e farina di grilli, vende le feci dei grilli agli agricoltori, che le usano come fertilizzante del suolo. Le percentuali di azoto, fosforo e potassio nelle feci di grillo non sono molto migliori dei fertilizzanti attualmente disponibili, afferma Gabe Mott, cofondatore e direttore operativo di Aspire, ma alcuni agricoltori pensano che le feci di grillo amplificano i tassi di crescita delle piante. Ma dalla lavorazione dei grilli trattati a scopo alimentare derivano altre tipologie di rifiuti, parti del corpo e altro. Cosa succederò quando la produzione arriverà a migliaia di tonnellate di grilli?.

Quel giorno sta arrivando. “Stiamo mettendo tra i 5.000 ed i 10.000 grilli per contenitore e abbiamo migliaia di contenitori“, dice Mott. “Possiamo fare ricerche su una scala che nessun laboratorio ha mai fatto“. Questo si traduce nell’elaborazione di 1 milione di grilli al giorno.

Per essere chiari, con alcune misure, il problema con l’alimentazione del mondo non è di quantità ma di distribuzione. Taglia la quantità di proteine ​​che mangiano gli americani e la terra usata per produrre le piante che alimentano quella carne potrebbe invece coltivare frutta e verdura. Gli americani mangiano molte più proteine e grassi rispetto alla media mondiale, e da due a tre volte più carne rossa che negli altri paesi anche considerando che alcuni paesi (e le parti più povere degli Stati Uniti) sperimentano la malnutrizione.

Sarà necessario studiare e predisporre le cose in modo che tutto sia alla portata di tutti, altrimenti rischieremo di avere un mondo in cui il 99% delle persone dovrà nutrirsi di insetti a basso costo e l’1% potrà permettersi una bistecca nel piatto. Inoltre, se non verrà studiata, e applicata, una regolamentazione stringente e con verifiche puntuali, rischieremo di ripetere quanto accaduto con polli e pesci e di continuare a scavarci la fossa.

Venere non è un paradiso

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di Oliver Melis

Il pianeta Venere  è stato fonte di ispirazione nelle opere fantastiche fin dal XIX secolo e allo stesso modo ha ispirato scrittori di fantascienza comparendo in romanzi, fumetti e film. Questo interesse per Venere lo dobbiamo alla sua vicinanza alla Terra, infatti Venere è l’astro più brillante del nostro cielo; 

Venere ha la superficie perennemente coperta da una spessa coltre di nubi che hanno fatto si che la fertile fantasia di tanti scrittori, già dagli anni venti del XX secolo, abbiano immaginato un pianeta ricco di acqua e vegetazione, adatto ad ospitare la vita come noi la conosciamo, un pianeta piovoso e dotato di un clima tropicale o a volte immaginato come coperto da un grande oceano.

Laplace, con la sua ipotesi nebulare, immaginava che i pianeti più esterni fossero stati i primi ad aggregarsi e, di conseguenza, Venere veniva, dagli scrittori di fantascienza, ritenuto un pianeta più giovane della Terra con forme di vita meno evolute nella scala temporale.

Arrhenius, chimico e fisico, postulò che le nubi che ricoprono Venere eranofossero formate d’acqua, quindi ne trasse, per lui ovvia conclusione, che il pianeta fosse ricoperto da paludi paragonandolo alle foreste tropicali del Congo.

Gli scienziati nutrivano non poco scetticismo e nonostante nessuno di loro riuscisse a stabilire con la spettroscopia se su Venere ci fossero ossigeno e acqua, la paragonarono a un immenso deserto arido e polveroso, comunque ipotesi abbastanza ottimistiche che furono completamente e definitivamente accantonate quando vennero inviate le prime sonde spaziali.

Nel dicembre del 1962 il Mariner 2 sorvola Venere e i dati che invia indicano un pianeta caldo e secco. I sovietici, nonostante questo, progettavano ancora delle sonde in grado di ammarare almeno fino al 1964, ritenendo Venere ricca di acqua. Ci vollero ancora alcuni anni per capire veramente le condizioni della superficie di Venere. Nel 1967, grazie alla Mariner 5 e alla Venera 4, si ebbe la conferma che il pianeta era un inferno caldissimo, ricoperto di nubi di acido solforico e con un’atmosfera composta quasi interamente da anidride carbonica. La pressione a un livello dato, paragonabile al nostro livello del mare equivaleva a oltre 90 atmosfere (sulla Terra è di un’atmosfera al livello del mare), una pressione schiacciate con una temperatura cosi elevata da liquefare metalli come il piombo, che ha una temperatura di fusione di 327,5 °C.

Venere era un pianeta morto, un inferno invivibile al di la delle più nere previsioni.

In passato, alcuni scienziati hanno proposto dei metodi per “terraformare” Venere. Carl Sagan propose nel 1961 di utilizzare delle alghe che convertissero l’anidride carbonica del pianeta in ossigeno. Oggi sappiamo che l’acqua sul pianeta è così rara che anche con i migliori risultati della fotosintesi si produrrebbe una quantità trascurabile di ossigeno.

Robert Zubrin, attingendo a uno studio di Paul Birch, del 1991 propose l’utilizzo di un grande scudo solare, progettato per difendere Venere dalle radiazioni del Sole e raffreddarlo in modo da permettere la liquefazione dei gas atmosferici. L’anidride carbonica dell’atmosfera si depositerebbe al suolo sotto forma di ghiaccio secco e potrebbe essere sepolta oppure raccolta e spedita fuori dal pianeta.

La mancanza di acqua sul pianeta, però, rimane un problema che alcuni hanno proposto di risolvere bombardando con le comete. Come scrisse Clarke ne “3001 Odissea finale” o disintegrando una luna ghiacciata di Saturno e bombardando Venere con i frammenti, come propose Birch, con lo scopo di creare dei mari di acqua salata. Questi però sono progetti oggi tecnologicamente irrealizzabili che rimarranno tali per chissà quanto tempo.

Altri hanno cercato soluzioni diverse, forse più in linea con quanto si può fare con la tecnologia che abbiamo a disposizione; Landis ad esempio, ha proposto che una certa quantità di città galleggianti nell’atmosfera potrebbero costituire uno scudo solare attorno al pianeta e potrebbero quindi essere utilizzate per la terraformazione, fornendo allo stesso tempo un mezzo per poter abitare nell’atmosfera venusiana. Utilizzando il carbonio dell’atmosfera si potrebbero realizzare strutture in nanotubi di carbonio che andrebbero a costituire gli involucri degli scudi e fungerebbero da compartimenti abitabili.

Non sappiamo se un giorno sarà possibile terraformare Venere, le sfide sono enormi, nonostante il pianeta sia una copia della Terra sotto certi aspetti, con una gravità molto simile a quella che sperimentiamo sul nostro pianeta.

Purtroppo, la lenta rotazione del pianeta è un problema, infatti una giornata solare su Venere corrisponde a 116 giorni terrestri. Si potrebbe accelerare la sua rotazione con passaggi ravvicinati di asteroidi ma è una soluzione al di là della nostra portata e non abbiamo la più pallida idea se sarà mai possibile farlo.