Batteri che metabolizzano la plastica ci aiuteranno a ripulire gli oceani

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Non c’è dubbio che abbiamo troppa plastica nei nostri oceani, ed è tutta colpa nostra.

Per risolvere questo terribile problema ambientale, però, potremmo ricevere aiuto da una fonte inaspettata: i microbi marini che metabolizzano la plastica. In una nuova ricerca, un team internazionale di scienziati ha studiato in che modo le comunità microbiche si accumulano sulla plastica che inquina l’oceano e contribuiscono al loro degrado, un meccanismo biologico naturale che potremmo essere in grado di sfruttare, se riusciamo ad imparare a capirlo meglio.

Una volta che la plastica entra nell’oceano, comincia ad alterarsi a causa di una serie di fattori non biologici, tra cui la radiazione UV, le escursioni termiche e l’azione abrasiva dell’acqua dell’oceano. Questi processi ambientali provocano il degrado del materiale in frammenti di microplastiche e nanoplastiche sempre più piccole e ora sappiamo che i fattori di stress non agiscono da soli.

La degradazione abiotica precede e stimola la biodegradazione in quanto gruppi carbonilici sono generati sulla superficie della [plastica]“, i, così spiegano i ricercatori, guidati dall’ingegnere ambientale Evdokia Syranidou dell’Università Tecnica di Creta in Grecia, nel loro articolo. “Pertanto, una vasta gamma di organismi può stabilirsi sulla superficie esposta all’azione climatica, utilizzandola come substrato e come fonte di carbonio.”

Per studiare quanto sia efficiente questo l’azione microbica in termini di degradazione della plastica, i ricercatori hanno raccolto campioni di detriti in polietilene (PE) e polistirolo (PS) da due spiagge in Grecia. Dopo averli lavati e sminuzzati, minuscoli frammenti di plastica sono stati immersi in una soluzione salina che fungeva da sostituto dell’acqua oceanica.

I frammenti di plastica sono stati quindi esposti a due diversi tipi di comunità microbiche: organismi naturali presenti in mare (comprendenti diverse specie) e ceppi bio-aumentati modificati per formare biofilm più resistenti su superfici plastiche. Dopo cinque mesi di esposizione microbica, i pezzi di plastica sono stati pesati, rivelando che gli organismi erano riusciti a ridurre il peso del PS esposto all’aria fino dell’11% e del PE fino al 7%.

Il ceppo bioingegnerizzato non ha metabolizzato più plastica, anche se il team ha osservato che “sembra più efficiente nell’aderire ai pezzi alterati e nello sviluppare una comunità di biofilm” di maggiore abbondanza. Significativamente, i risultati di maggior successo sono stati di gran lunga quelli derivati da un esperimento che utilizzava “microbi acclimatati“,  organismi già esposti alla plastica in una simulazione precedente.

In altre parole, sembra che queste cose possano sviluppare un gusto per la plastica e migliorare nel mangiarle con il tempo.

Oltre a consumare la plastica, l’esposizione microbica ha portato anche a cambiamenti chimici sulla superficie dei materiali, producendo gruppi carbonilici e doppi legami, e rivelando processi come la scissione della catena che hanno interessato la plastica a livello molecolare. Questo non è la prima volta che gli scienziati tentano di sfruttare le capacità dei microorganismi per aiutarci ad affrontare i nostri problemi con la plastica.

Per anni, i ricercatori hanno studiato come gli organismi potrebbero essere in grado di mangiare i nostri rifiuti di plastica.

Ogni nuova conoscenza acquisita, non importa quanto piccola, un giorno potrebbe essere d’aiuto per ripulire i nostri mari ed oceani, anche se la soluzione più importante è affrontare il problema all’origine.

Finché ciò non accadrà, tuttavia – e la società non trova un modo per smettere di produrre questo materiale in quantità così devastanti per l’ambiente, sono molti i vantaggi che possiamo acquisire imparando di più su come i microorganismi riescono a degradare la plastica.

La differenza tra l’impiego ipotetico e realistico di reti microbiche per il degrado della plastica potrebbe contribuire allo sviluppo di misure di mitigazione e politiche sostenibili, conclude il team.

I risultati dello studio sono riportati nel Journal of Hazardous Materials.

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