Siamo nel 1909. È il 7 febbraio, giorno in cui a Piacenza nasce Amedeo. Amedeo Guillet. Famiglia nobile di origine sabauda. Amedeo cresce e diventa ragazzo dall’animo sensibile e creativo: quando è il momento di fare la prima scelta terminata l’età della spensierata adolescenza è indeciso tra la carriera musicale e quella militare. Ma la carriera militare presenta un vantaggio esclusivo, ai suoi occhi: permette di rimanere a contatto con i cavalli praticamente ventiquattr’ore al giorno. La sua passione.
Frequentò l’Accademia Militare di Modena, da cui uscì con i gradi di Sottotenente di Cavalleria del Regio Esercito nel 1931. Assegnato al reggimento “Cavalleggeri di Monferrato“, dimostrò ben presto spiccate qualità militari e, soprattutto, di cavaliere. Fu tra i primi Ufficiali della Cavalleria Italiana ad applicare rigorosamente il metodo di equitazione naturale del Capitano Federico Caprilli e per le sue innate capacità equestri fu incluso tra i quattro cavalieri che avrebbero costituito la squadra italiana di equitazione per le Olimpiadi di Berlino del 1936. Tuttavia, alle Olimpiadi di Berlino non arrivò mai. Era iniziata, infatti, la campagna di Abissinia ed il Tenente Guillet non ebbe minima esitazione nella scelta: il suo primo dovere di militare era di servire la Patria in armi e, quindi, la campagna di guerra aveva priorità sulle Olimpiadi.
Assegnato al Regio Corpo delle Truppe Coloniali servì in Libia presso un reparto di Spahis e quindi Nell’ottobre del 1935 partecipò, come comandante di plotone, alle prime azioni di guerra di Etiopia. Il 24 dicembre dello stesso anno venne ferito gravemente alla mano sinistra durante la battaglia di Selaclacà. Al termine delle ostilità, il 5 maggio del 1936, venne decorato a Tripoli dal Maresciallo d’Italia Italo Balbo per il suo esemplare e coraggioso comportamento in combattimento.
Nell’agosto del 1937, accettò la proposta del Generale Frusci di seguirlo nell’avventura della guerra civile spagnola, in cui ebbe la possibilità di distinguersi particolarmente nei combattimenti di Santander e Teruel, dove operò prima al comando di un reparto carri della divisione “Fiamme Nere” e poi alla testa di un tabor di cavalleria marocchina. Dopo un breve periodo di convalescenza in Italia, venne trasferito in Libia al comando del VII squadrone Savari.
Poco prima dell’ingresso dell’Italia nella Seconda Guerra Mondiale, Guillet venne inviato in Eritrea e nominato Comandante del Gruppo Bande Amhara, unità militare multietnica, forte di 1700 uomini di origine etiope, eritrea e yemenita inquadrati da Ufficiali italiani. Il compito assegnato al Gruppo di Guillet era di operare, in massima autonomia e libertà d’azione, contro il nemico che infestava la regione nord-occidentale dell’Eritrea.
Ma riassumere l’esistenza di Amedeo Guillet il poche note biografiche è impresa ingiusta che non rende merito allo spessore di un personaggio la cui poliedricità e le cui gesta al limite del romanzesco sfiorano la leggenda.
Amedeo Guillet, il comandante Diavolo
Come, ad esempio, nel 1939, quando nacque la sua leggenda. La sera del 20 gennaio 1941, il tenente Guillet rientrò al forte di Cheru dopo una lunga attività di pattugliamento del territorio, ma gli venne ordinato di ripartire immediatamente per affrontare i britannici della Gazelle Force che minacciavano di accerchiare migliaia di soldati italiani in ritirata verso Agordat. Il compito attribuitogli era di ritardare di almeno 24 ore la manovra dell’avversario, costringendolo a fermarsi nella piana tra Aicotà e Barentù.
All’alba del 21 gennaio, dopo una furtiva manovra di aggiramento, il Gruppo di Guillet caricò il nemico alle spalle, creando scompiglio tra i ranghi anglo-indiani. Si trattò di uno spettacolo impressionante e, al contempo, incredibile: Guillet e i suoi uomini attaccarono, armati di sole spade, pistole e bombe a mano, le truppe appiedate e le colonne blindate britanniche.
Dopo essere passato illeso tra le sbalordite truppe avversarie, il Gruppo tornò sulle posizioni iniziali per caricare nuovamente. Questo diede tempo ai britannici di riorganizzarsi e di sparare ad alzo zero verso i cavalieri di nuovo all’attacco. In particolare, alcune pattuglie blindate britanniche iniziarono a dirigersi verso il fianco e alle spalle dello schieramento di Guillet, minacciando di accerchiare il manipolo di soldati a cavallo. Il tenente Renato Togni, Vicecomandante del Gruppo, effettuò allora una mortale “carica di alleggerimento” con il suo plotone di trenta indigeni, per consentire al grosso del Gruppo di sganciarsi indenne. All’ordine di “Caricat!” il plotone, con Togni in testa, si gettò su una colonna di carri “Matilda”, che aprirono il fuoco falciando mortalmente tutti gli uomini e i cavalli. Quel sacrificio permise, tuttavia, al resto delle truppe di Guillet di sganciarsi conseguendo appieno l’obiettivo: le truppe italiane in ritirata erano al sicuro dentro le fortificazioni di Agordat.
Durante la seconda carica il cavallo di Amedeo Guillet cadde ucciso ma il giovane tenente se ne fece subito portare un altro dal suo attendente e proseguì la carica alla testa dei suoi uomini. Quando anche questo secondo cavallo fu ucciso da una raffica di mitra, Amedeo imbracciò la mitragliatrice di un caduto e proseguì la carica a piedi, passando miracolosamente indenne attraverso il fuoco nemico.
Guillet pagò un alto prezzo per questa battaglia: 800 tra morti e feriti e la perdita del suo grande amico Togni. Fu quella l’ultima carica di cavalleria nella storia militare dell’Africa. L’ufficiale britannico che subì l’assalto in seguito così descrisse l’avvenimento:
«Quando la nostra batteria prese posizione, un gruppo di cavalleria indigena, guidata da un ufficiale su un cavallo bianco, la caricò dal Nord, piombando giù dalle colline. Con coraggio eccezionale questi soldati galopparono fino a trenta metri dai nostri cannoni, sparando di sella e lanciando bombe a mano, mentre i nostri cannoni, voltati a 180 gradi sparavano a zero. Le granate scivolavano sul terreno senza esplodere, mentre alcune squarciavano addirittura il petto dei cavalli. Ma prima che quella carica di pazzi potesse essere fermata, i nostri dovettero ricorrere alle mitragliatrici». |
Fu in questa occasione che i soldati indigeni che avevano combattuto con lui, sbalorditi per la sua apparente invincibilità, lo soprannominarono Comandante Diavolo, ignari di consegnare così alla leggenda un ‘titolo’ che segnerà ormai per sempre la vita di questo personaggio straordinario.
Già, perché l’uomo che nel 1939 fu chiamato dal viceré Amedeo a comandare in Etiopia un reparto di truppe indigene eritree era un ufficiale unico nel suo genere nel panorama italiano. Il tenente Guillet plasmò così il Gruppo Bande Amhara, un reparto forte di 1700 uomini di origine etiope, eritrea e yemenita inquadrati da ufficiali italiani.
Guillet raccolse sotto i comuni simboli della croce cristiana e della mezzaluna islamica, preferiti ai simboli del fascismo, le identità minori di un’Africa orientale ai bordi del Secondo conflitto mondiale e le strinse in un manipolo compatto che visse oltre la battaglia e le sue regole.
Comandante estremamente empatico e diverso dagli ufficiali coloniali medi del tempo, scevro da qualsiasi pregiudizio razzista o da pensieri concernenti presunte superiorità etniche o morali dei colonizzatori sui colonizzati, Guillet forgiò un forte spirito di corpo che tornò utile alla sua unità quando, tra la fine del 1940 e l’inizio del 1941, l’impero africano dell’Italia iniziò a esser travolto dalla marea montante dell’offensiva britannica in seguito alla dichiarazione di guerra di Mussolini del giugno 1941.
Montando il suo cavallo bianco Sandor e colpendo retroguardie, colonne logistiche e reparti isolati Amedeo Guillet e la sua armata contribuirono nelle settimane successive a dare fiato alle truppe italiane tagliate fuori da ogni collegamento con la madrepatria. Scriveva nel 2004 Il Foglio: “Le imprese del Cummundar-as Sbeitan, il Comandante Diavolo, e dei suoi cavalieri del Gruppo Bande Amhara, danno molto filo da torcere agli inglesi che gli dedicano tuttora ammirati articoli di giornale. Amedeo Guillet è l’italiano che smentisce il luogo comune, ben diffuso tra i britannici, secondo il quale gli italiani sarebbero “useless in combat”, inetti in battaglia, mentre “The Italians’ last action hero” è il titolo con cui l’Observer ha presentato la biografia di Guillet scritta dal giornalista Sebastian O’Kelly e intitolata “Amedeo. A true story of love and war in Abyssinia“.
Quando gli inglesi conquistano Asmara nell’aprile del 1941, Amedeo Guillet prende una decisione folle: se anche l’Italia si fosse arresa, lui avrebbe continuato la ‘sua’ guerra. E così accade: Amedeo Guillet si spoglia della divisa dell’esercito italiano, raduna una formazione di suoi fedelissimi soldati indigeni e inizia una guerriglia senza quartiere, efficace al punto che gli inglesi mettono sul suo capo una taglia enorme. Invano, però: nessuno lo tradisce in nome del denaro, a conferma di quanto questa sorta di Lawrence d’Arabia italiano fosse amato dalle popolazioni locali.
In ottobre, però, dopo una continua ed estenuante serie di operazioni Guillet capisce che non avrebbe più potuto andare avanti ulteriormente: significativo il fatto che la decisione di porre termine alla guerriglia venga da lui presa dopo la cattura del suo cavallo grigio Sandor da parte del maggiore Max Harari, l’ufficiale inglese responsabile delle attività di ricerca del temibile Comandante Diavolo.
Come abbiamo visto in precedenza, dunque, Amedeo Guillet dunque libera i suoi soldati e si nasconde a Massaua sotto la falsa identità di Ahmed Abdallah al Redai, cosa resa possibile anche dalla sua capacità di parlare perfettamente l’arabo. Da lì raggiunge lo Yemen, inizia a lavorare come palafreniere nelle scuderie della guardia del re, l’Imam Yahiah, il quale lo prende a benvolere fino a nominarlo precettore dei suoi figli nonché istruttore delle guardie a cavallo yemenite.
Nel giugno del 1943, dopo aver trascorso un anno intero alla corte dell’Imam Yahiah, Amedeo Guillet riesce a imbarcarsi su una nave della Croce Rossa italiana per infine rientrare in Italia dopo due mesi di navigazione. Grazie alla sua grande esperienza e alla sua conoscenza delle lingue, viene assegnato al Servizio Informazioni Militare per dedicarsi a operazioni molto delicate contro gli alleati angloamericani. Quando però l’8 settembre viene dichiarato l’armistizio, Amedeo Guillet ripudia Mussolini, rimane fedele al re d’Italia e si trasferisce a Brindisi dove si erano installati i componenti della famiglia reale. Amedeo Guillet diventa un agente segreto formidabile ed è proprio a lui che si deve un’operazione diplomaticamente di grande significato nel processo di riappacificazione tra Italia ed Etiopia: il recupero della corona del Negus, prima confiscata dalla Repubblica di Salò e poi nelle mani dei partigiani, e quindi riconsegnata al suo legittimo proprietario.
Finisce la guerra. Dopo il referendum che trasforma l’Italia da Stato monarchico in Stato repubblicano Amedeo Guillet – coerente con il suo giuramento militare di fedeltà alla corona Savoia – rassegna le dimissioni dall’esercito e diventa un cittadino italiano al servizio della Repubblica. Inizia così la sua seconda vita. Si laurea in Scienze Politiche, vince il concorso per entrare nella carriera diplomatica, nel 1950 è segretario di legazione all’ambasciata del Cairo, nel 1954 viene trasferito in Yemen dove ritrova i figli del vecchio Imam che lo accolgono come chi ritorna a casa dopo anni di lontananza, nel 1962 viene nominato ambasciatore e destinato ad Amman dove può condividere la grande passione per i cavalli e per l’equitazione con re Hussein di Giordania (padre della principessa Haya, che sarà presidentessa della Federazione Equestre Internazionale dal 2006 al 2014), nel 1967 è ambasciatore in Marocco, nel 1971 in India, per infine raggiungere il termine della carriera diplomatica nel 1975 e quindi stabilirsi in Irlanda in mezzo ai suoi amati cavalli.
Nel 2000 insieme allo scrittore irlandese Sebastian O’Kelly (autore della biografia di Guillet uscita nel 2002 con il titolo “Amedeo”), Guillet ritorna in Eritrea: viene ricevuto dal presidente della Repubblica che lo accoglie come un suo pari. Poi arriva il 2 novembre di questo stesso anno: il presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, conferisce ad Amedeo Guillet l’onorificenza di Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine Militare d’Italia, uno dei più prestigiosi riconoscimenti previsti nel nostro Paese. Infine il 16 giugno 2010 il Comandante Diavolo ci lascia per sempre.
Questa per sommi capi e in estrema sintesi la vita di Amedeo Guillet. Ma tra le tante storie dentro questa straordinaria storia, ce n’è una che non può non emozionare chi vive per i cavalli e con i cavalli. La storia di un pacchetto che un giorno viene recapitato sulla scrivania dell’ambasciatore Amedeo Guillet.
Una storia che sembra una favola, invece è la realtà di due persone che prima di essere soldati – e nemici – sono stati gentiluomini nell’animo. Loro: Max Harari e Amedeo Guillet. Proprio loro: il maggiore britannico e il Comandante Diavolo, cacciatore e preda a turno l’uno per l’altro sulla scena dell’Africa Orientale.
Ebbene: negli anni Cinquanta, grazie anche all’attività diplomatica di Guillet, i due ‘vecchi’ nemici si incontrano, e tra loro nasce un’amicizia forte come solo l’aver condiviso quel pezzo di storia tremendo avrebbe potuto rendere possibile, seppure da acerrimi rivali. Un’amicizia vissuta nel nome di un cavallo: Sandor. Sì: perché è ovviamente Max Harari il mittente del pacchetto che un giorno viene recapitato sulla scrivania dell’ambasciatore Amedeo Guillet. Sulla scrivania del Comandante Diavolo.
Quel pacchetto conteneva uno zoccolo di cavallo in argento con un’iscrizione: “Sandor. Berbero grigio, 12 anni. Max Harari, Asmara – Giugno 1942”. C’è anche una foto: si vede il bel primo piano di un cavallo grigio affacciato alla porta del suo box. E una dedica autografa a penna: “Ad Amedeo, in ricordo del meraviglioso cavallo che fu causa della nostra amicizia”.
Il Comandante Diavolo si è spento a Roma il 16 giugno 2010, alla veneranda età di 101 anni.