Suona strano e improbabile che degli esseri viventi possano sopravvivere nello spazio, dove non è possibile respirare e non è reperibile cibo, le temperature possono subire sbalzi di centinaia di gradi in pochissimo tempo e imperversano moltissime intense radiazioni, da quelle solari a quelle cosmiche.
Eppure abbiamo constatato che alcune spore batteriche riescono ad aggrapparsi all’esterno della Stazione Spaziale Internazionale e a sopravvivere e proliferare. Ancora non sappiamo come ci riescono ma nuove ricerche ci stanno avvicinando alla soluzione di questo mistero.
Il professor George Fox dell’Università di Houston ha sequenziato il genoma di una specie batterica di Bacillus, il B. safensis FO-36bT, rintracciato all’interno delle camere sterili del Jet Propulsion Laboratory, nonostante tutti i mezzi impiegati per mantenerle “pulite” da contaminazioni batteriche. Questo bacillo produce spore come parte del suo ciclo riproduttivo, spore che possono resistere in condizioni molto difficili, se non proibitive, per poi rianimarsi non appena le condizioni diventano più favorevoli alla vita.
Il professor Fox ha confrontato FO-36bT e sequenze parziali di due ceppi, il B. pumilus SAFR-032 e il B. safensis JPL-MERTA-8-2, che hanno dimostrato di resistere alle misure anti-contaminazione della NASA – con il B. pumilus ATCC7061T, un ceppo noto per non sopravvivere ai trattamenti che la NASA usa per scoraggiare gli autostoppisti microbici.
Il JPL-MERTA-8-2 deve il suo nome per essere stato trovato a bordo del Mars Odyssey Spacecraft e del Mars-Avi Rover. Una sua curiosa caratteristica è quella di crescere addirittura meglio nella microgravità dello spazio di quanto non faccia sulla Terra e di avere nello spazio una maggiore capacità di resistere agli antibiotici.
In una pubblicazione su BMC Microbiology, Fox enumera le molte differenze genetiche tra FO-36bT e ATCC7061T, inclusi 10 geni che non erano presenti in nessuno degli altri ceppi. Non è ancora chiaro quali geni, da soli o in combinazione, spieghino la capacità delle spore di questi ceppi di resistere alle radiazioni e al perossido di idrogeno che la NASA usa per uccidere i batteri nel tentativo di sterilizzare i propri veicoli spaziali.
Tuttavia, Fox spera che ulteriori studi non solo identificheranno le sequenze geniche cruciali, ma riveleranno se si sono trasmesse tra i ceppi.
Tutti i ceppi di questo batterio sono innocui per gli esseri umani, ma il tentare di comprendere cosa permette loro di sopravvivere nello spazio è importante per almeno due ragioni: intanto non vogliamo contaminare con batteri terrestri corpi celesti dove potrebbe già esistere una vita autoctona e poi, se scoprissimo che i batteri, o almeno alcune specie di essi, sono in grado di scroccare un passaggio su una roccia, sopravvivere sotto forma di spore ad un viaggio che potrebbe essere lungo milioni di anni, per poi rianimarsi quando giungessero in un ambiente favorevole, potremmo segnare un punto a favore dell’ipotesi della panspermia che prevede che la vita abbia un unico punto di origine dal quale potrebbe essersi diffusa su molti mondi.
“La ricerca della vita aliena potrebbe essere influenzata dal possibile trasporto di organismi dalla Terra ai corpi celesti di interesse del sistema solare“, ha affermato Fox in una nota.