I frequenti terremoti che colpiscono l’Italia e le terre che si affacciano sul mar Egeo confermano quanto è grande, in tutta l’area del Mediterraneo, il rischio legato ad eventi sismici o vulcanici.
L’Italia, come territorio, è particolarmente esposta anche a causa della presenza di importanti vulcani attivi nelle zone di faglia, quelle zone in cui si incrociano diverse placche continentali che si muovono da direzioni diverse.
Etna, Stromboli, Vesuvio, il Marsili e, soprattutto, il supervulcano dei Campi Flegrei tengono desta l’attenzione di vulcanologi e geologi, consapevoli del fatto che con i vulcani non è mai il caso di abbassare la guardia.
L’Etna, da qualche giorno, è di nuovo in eruzione ed in questa occasione, come altre volte, l’eruzione si accompagna ad uno sciame sismico particolarmente intenso, con terremoti anche abbastanza superficiali e di media intensità, come quello di magnitudine 4,9 che la notte scorsa ha provocato danni in alcuni centri della provincia di Catania. In questi giorni si è risvegliato anche il vulcano Stromboli, la cui eruzione di alcuni anni fa, provocò una frana che diede vita ad uno tsunami che costò la vita a due persone. Da alcune parti si paventa anche la preoccupazione che l’intensa attività attuale dei due vulcani sia collegata e che potrebbe preannunciare un risveglio anche del vulcano sottomarino Marsili, quello che è il più grande vulcano d’Europa.
A cosa è legato il pericolo delle eruzioni vulcaniche in Italia? Bene, L’Italia è uno dei primi paesi al mondo per numero di abitanti esposti a rischio vulcanico. Le eruzioni vulcaniche sono meno frequenti e devastanti dei terremoti ma in Italia rappresentano un pericolo sempre presente perché le aree a rischio sono densamente popolate. I vulcani attivi italiani possono essere inquadrati in tre aree principali: l’area dei Campi Flegrei e del Vesuvio, l’area vulcanica delle Isole Eolie e l’area vulcanica dell’Etna.
Visto che è impossibile impedire che avvenga un’eruzione, per garantire la sicurezza delle popolazioni che vivono in zone a rischio vulcanico diventa fondamentale riuscire a stimare quantitativamente il rischio.
Il Vesuvio è tristemente famoso per la sua attività eruttiva a carattere esplosivo, notissima è la famosa eruzione del 70 dopo Cristo, in epoca romana, che provocò moltissimi morti e cancellò dalle carte geografiche Pompei, Ercolano, Stabia e Oplontis, tutti centri all’epoca densamente popolati che rimasero sepolti sotto una alto strato di pomici proiettati in aria e trasportati dalla nube piroclastica in un’area molto ampia che ne fu completamente ricoperta.
L’area dei Campi Flegrei, conosciuta per i fenomeni di sollevamento del suolo (bradisismo) che affliggono da sempre il comune di Pozzuoli e venuta prepotentemente alla ribalta negli anni 80, precisamente tra l’82 e l’84 per una crisi sismica che mise in ginocchio tutta l’area causando l’evacuazione di migliaia di persone.
Ebbene il Vulcano Flegreo è uno dei dieci supervulcani esistenti al mondo.
Sono solo 10 e in questi 10 non rientrano ne il Vesuvio, ne il Pinatubo o il Krakatoa, ne il Tambora, il Kilauea, il Monte Pelee o il monte Saint Elen che sono responsabili delle peggiori catastrofi della storia dell’uomo.
Un supervulcano è molto peggio, un supervulcano è una struttura la cui eruzione può modificare radicalmente il paesaggio per decine o centinaia di chilometri e condizionare pesantemente il clima a livello mondiale per diversi anni, con effetti cataclismatici sulla vita stessa del pianeta e dell’uomo.
Non parliamo quindi di effetti locali ma di effetti globali.
Gli apparati vulcanici più pericolosi ascrivibili a questa categoria sono solo tre, Yellowstone negli Stati Uniti, il Lago Toba in Indonesia ed i Campi Flegrei in Italia.
La caldera flegrea ha un raggio di 15 km e nella sua ancora controversa storia geologica si riconoscono almeno due catastrofiche eruzioni, la prima (eruzione dell’Ignimbrite campana) avvenuta circa 40 mila anni fa con espulsione di una quantità di materiale vulcanico compresa tra i 200 ed i 250 km cubi. Ceneri e materiale proveniente dall’esplosione di questo supervulcano sono state ritrovate in gran parte d’Europa. La seconda (eruzione del Tufo Giallo Napoletano) avvenuta circa 15 mila anni fa con un’espulsione di circa 40 chilometri cubi di materiale vulcanico.
Tra le due enormi eruzioni e successivamente a quella del tufo giallo, tutta una serie di eventi eruttivi minori hanno creato la struttura attuale dell’area.
L’ultima eruzione storica risale al 1538 quando in una settimana o poco più, dal fondo del mare in una piccola baia vicino Pozzuoli spuntò un vulcano (il Monte nuovo) che distrusse ogni cosa per un raggio di qualche chilometro.
Per quanto riguarda l’Etna, considerato uno dei più attivi vulcani del mondo, la sua pericolosità rappresenta un elemento di importante, delicatissima valutazione nella pianificazione del territorio.
L’Etna produce sia attività eruttiva terminale o sub-terminale che avviene ad oltre 3000 metri di quota, sia attività eruttiva laterale. Nel primo caso le colate di lava non raggiungono i centri abitati che sorgono sulle pendici del vulcano, poiché i flussi lavici si raffreddano arrestandosi prima di raggiungerli. Nel caso delle eruzioni laterali o “di fianco”, invece, il panorama è molto diverso: le bocche eruttive si possono aprire anche a poche centinaia di metri di altitudine sul mare, cioè anche dentro il perimetro urbano di molte città, per cui la pericolosità di questi fenomeni eruttivi risulta decisamente maggiore. L’eruzione in atto in questi giorni sta preoccupando proprio percéè sembra sia presente un serio rischio che si apra una nuova bocca laterale.
Cosa fare, quindi, per prevenire il pericolo? Abbiamo già affermato che l’Etna è un vulcano molto attivo, soprattutto negli ultimi decenni, e le popolazioni etnee lo sanno bene, visto che sono continuamente chiamate a combattere con la ricaduta di cenere durante i parossismi eruttivi prodotti dai crateri sommitali (sono avvenute oltre 50 eruzioni solo negli ultimi 10 anni), o con l’espansione delle colate laviche durante le eruzioni laterali, come nel caso degli eventi del 2001 e del 2002-2003, quando le lave hanno distrutto buona parte degli impianti turistici su entrambi i fianchi del vulcano.
Da alcuni anni alcuni ricercatori hanno focalizzato l’attenzione sulla costruzione di mappe spazio-temporali in grado di individuare le aree dove con maggiore probabilità si apriranno in futuro nuove bocche eruttive laterali, realizzando contemporaneamente sofisticati modelli numerici in grado di simulare l’espansione delle colate di lava.
La sintesi di questi lavori è rappresentata in una serie di diagrammi e mappe di pericolosità del territorio etneo pubblicati in vari articoli scientifici su riviste di respiro internazionale. Ciò è stato possibile attraverso la rivisitazione del data-base geologico-strutturale e storico delle eruzioni etnee, nonché mediante una sempre migliore conoscenza dell’assetto vulcano-tettonico complessivo dell’Etna, soggetto a molteplici campi di stress indotti dalla geodinamica crostale e locale, dal peso del vulcano e dalla spinta esercitata dai magmi durante la loro risalita verso la superficie.
Una delle mappe di maggiore impatto è stata recentemente pubblicata nella rivista Scientific Reports – Nature
Si tratta di una mappa di pericolosità per ricoprimento lavico del Monte Etna, ottenuta attraverso la simulazione di varie decine di migliaia di ipotetiche colate laviche, originate da migliaia di nuove bocche eruttive laterali. Questa mappa mostra i più probabili percorsi delle colate di lava che avverranno nei prossimi 50 anni. E’ evidente che la Valle del Bove, la profonda depressione erosiva presente sul fianco orientale del vulcano, raccoglie molti dei flussi lavici provenienti dalla zona sommitale e rappresenta, quindi, un fattore che mitiga la pericolosità vulcanica del settore orientale. E’ altrettanto evidente, tuttavia, che alcuni centri abitati sono esposti a vario livello al ricoprimento lavico, soprattutto nei settori a ridosso dei “rift etnei” presenti lungo i fianchi Sud, Ovest e Nord-Est, ovvero le zone che si fratturano più frequentemente rispetto alla restante parte dell’apparato etneo, e che innescano le eruzioni laterali.
Strumenti scientifici come questi andrebbero tenuti in opportuna considerazione da chi si occupa di pianificazione dell’uso del territorio, soprattutto in aree vulcaniche particolarmente attive come la regione etnea, al fine di limitare l’espansione urbanistica in aree troppo esposte all’invasione lavica.
In questi giorni sta facendo parlare di sé anche il vulcano Stromboli, per il quale la protezione civile ha già emesso un comunicato di rischio ad allerta gialla, la paura principale è che possa provocare una nuova frana in grado di generare un tsunami. Secondo l’INGV, l’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, ordinariamente le esplosioni di Stromboli sono caratterizzate dal lancio di brandelli di lava, gas e ceneri, anche a centinaia di metri di altezza, a cui è associata la ricaduta di materiali pesanti prevalentemente all’interno della terrazza craterica. A volte l’attività esplosiva del vulcano è accompagnata da emissioni di lava che si riversano in forma di colata all’interno della Sciara del Fuoco, una vasta depressione che si è originata più di 5.000 anni fa dal collasso del fianco orientale dell’edificio vulcanico. L’attività persistente del vulcano e le effusioni laviche non costituiscono una fonte di pericolo diretta per i centri abitati e per gli escursionisti anche se l’attività effusiva può rendere instabile il versante della Sciara del Fuoco, provocare frane e, di conseguenza, maremoti. I fenomeni in grado di recare pericolo al di fuori della Sciara del Fuoco sono le esplosioni di forte energia (parossistiche e maggiori) e i maremoti.
Le esplosioni parossistiche sono improvvise e consistono in vere e proprie “cannonate”, accompagnate da forti detonazioni, con lancio di bombe e blocchi a distanze di alcune chilometri dai crateri. La caduta di materiali pesanti interessa la parte alta della montagna ed occasionalmente i centri abitati. I materiali incandescenti, ricadendo lungo i versanti, possono innescare incendi della vegetazione. Durante gli episodi esplosivi più violenti (eruzione del 1930) si possono formare valanghe di materiale caldo che scorrono all’interno di zone depresse del Vallozzo e della Rina Grande/Schicciole fino a raggiungere il mare.
In coincidenza di esplosioni violente o frane di grosse dimensioni possono verificarsi anche maremoti. Negli ultimi 100 anni si sono verificati cinque maremoti: nel 1916, 1919, 1930, 1944 e nel 2002. Quest’ultimo è stato innescato da una grande frana sottomarina che si è propagata nella parte emersa con un’intensità media superiore a tutti gli altri.
Il Marsili è un vulcano sottomarino localizzato nel Tirreno meridionale e appartenente all’arco insulare Eoliano. Si trova a circa 140 km a nord della Sicilia ed a circa 150 km ad ovest della Calabria ed è il più esteso vulcano d’Europa. È stato indicato come potenzialmente pericoloso, perché potrebbe innescare un maremoto che interesserebbe le coste tirreniche meridionali.
I fenomeni vulcanici sul monte Marsili sono tuttora attivi e sui fianchi si stanno sviluppando numerosi apparati vulcanici satellitari. I magmi del Marsili sono simili per composizione a quelli rilevati nell’arco Eoliano, la cui attività vulcanica è attribuita alla subduzione di antica crosta Tetidea (subduzione Ionica). Si stima che l’età d’inizio dell’attività vulcanica del Marsili sia inferiore a 200 000 anni. Sono state inoltre rilevate tracce di collassi di materiale dai fianchi di alcuni dei vulcani sottomarini i quali potrebbero aver causato maremoti nelle regioni costiere tirreniche dell’Italia Meridionale. Assieme al Magnaghi, al Vavilov e al Palinuro, il Marsili è inserito fra i vulcani sottomarini pericolosi del Mar Tirreno. Mostra, come già avvenuto per il Vavilov, il rischio di un esteso collasso in un unico evento di un crinale del monte. Inoltre, rilievi idrogeologici fatti in acque profonde indicano l’attività geotermica del Marsili insieme a quella di: Enareta, Eolo, Sisifo, la Secca del Capo e altre fonti idrotermali profonde del Tirreno meridionale.
Nel febbraio 2010 la nave oceanografica Urania, del CNR, rilevò rischi di crolli potenzialmente pericolosi che testimoniano una notevole instabilità. Una regione significativamente grande della sommità del Marsili risulta inoltre costituita da rocce di bassa densità, fortemente indebolite da fenomeni di alterazione idrotermale; cosa che farebbe prevedere un evento di collasso di grandi dimensioni.
Fonti: Blog Sicilia; weschool; INGV; Wikipedia