Gli astronomi hanno rilevato “l’impronta chimica” dell primo esopianeta gigante che potrebbe essere migrato nella sua orbita attuale da una zona molto distante dalla stella ospite. L’esopianeta è stato studiato con il metodo del transito.
Il metodo del transito sfrutta il passaggio di un esopianeta davanti alla sua stella ospite. Il questo modo l’esopianeta occulta parte della luce emessa dalla stella che appare leggermente meno luminosa durante il passaggio. Terminato il transito la stella riacquista il suo splendore originario non essendo più coperta dal pianeta.
La differenza di luminosità osservata è un indizio della possibile presenza di un esopianeta. I transiti sono difficili da rilevare perché la variazione di luminosità è molto piccola, ma ci si può riuscire usando telescopi come il CoRoT dell’ESA. Anche la missione CHEOPS dell’ESA lanciata nel 2019 utilizza il metodo del transito. Il metodo del transito permette di analizzare le impronta chimica dell’atmosfera esoplanetaria.
Un team di scienziati dell’Università di Warwick ha studiato l‘impronta chimica dell’atmosfera dell’esopianeta stabilendo che esso si è formato molto più lontano dalla sua stella ospite rispetto all’orbita occupata attualmente. Questa scoperta rafforza quanto ritenuto in precedenza.
L’esopianeta sarebbe migrato da una zona distante dopo la sua formazione portandosi a soli 7 milioni di km dalla sua stella. La distanza dell’esopianeta è pari a circa 1/20 della distanza che separa la Terra dal Sole. Lo studio è stato pubblicate il 7 aprile 2021 sulla rivista Nature.
Per la prima volta grazie ai modelli e dall’interpretazione dei dati è stata determinata la composizione dell’atmosfera di un esopianeta identificando l’impronta chimica di sei molecole diverse.
Grazie alla scoperta di queste molecole per la prima volta gli astronomi possono individuare con certezza la posizione in cui gli esopianeti giganti e caldi si aggregano grazie all’impronta chimica delle loro atmosfere. Con i futuri telescopi gli astronomi saranno in grado di studiare le atmosfere degli esopianeti potenzialmente adatti ad ospitare la vita.
L’impronta chimica dell’atmosfera di HD 209458b
L’o studio ha utilizzato il Telescopio Nazionale Galileo a La Palma, in Spagna, Con questo strumento il team ha acquisito gli spettri ad alta risoluzione dell’atmosfera dell’esopianeta HD 209458b mentre transitava davanti alla sua stella ospite in quattro diverse occasioni.
La luce dell’astro viene alterata mentre attraversa l’atmosfera dell’esopianeta gigante e analizzando le differenze nello spettro risultante gli astronomi possono rilevare quali sostanze chimiche sono presenti e calcolare la loro abbondanza.
L’impronta chimica rilevata per la prima volta dal team di astronomi comprendono sostanze come:acido cianidrico, metano, ammoniaca, acetilene, monossido di carbonio e basse quantità di vapore acqueo nell’atmosfera. L’inattesa abbondanza di molecole a base di carbonio suggerisce che ci sono approssimativamente tanti atomi di carbonio quanti atomi di ossigeno nell’atmosfera di HD 209458b, il doppio del carbonio previsto.
Questo ha suggerito agli astronomi che HD 209458b si deve essere formato a partire da una nube di gas estremamente ricca di carbonio. L’esopianeta ora si trova troppo vicino alla sua stella, quindi la sua formazione deve essere avvenuta molto più lontano, molto probabilmente a una distanza pari a quella che esiste tra Giove e il Sole.
Secondo il dottor Siddharth Gandhi del Dipartimento di Fisica dell’Università di Warwick, le sostanze chimiche chiave sono quelle che producono carbonio e azoto. Il team della Warwick ha usato per la prima volta queste sei impronte chimiche per restringere il punto in cui si sarebbero formate originariamente nel disco protoplanetario.
Un esopianeta, ha spiegato Gandhi, non può avere un’atmosfera cosi ricca di carbonio se si forma all’interno della linea di condensazione del vapore acqueo. Alla temperatura rilevata su HD 209458b (1.500 K), se l’atmosfera contiene tutti gli elementi nella stessa proporzione della stella madre, l’ossigeno dovrebbe essere due volte più abbondante del carbonio e per lo più legato all’idrogeno o al carbonio (H2O e CO).
La scoperta concorda con l’attuale comprensione che i Gioviani caldi come HD 209458b si siano formati lontano dalla loro posizione attuale. Utilizzando modelli di formazione planetaria, gli astronomi hanno confrontato l’impronta chimica dell’atmosfera di HD 209458b con ciò che si aspetterebbero di vedere per un pianeta di quel tipo.
La genesi dei sistemi solari alieni
Un sistema solare si forma a partire da un disco di materiale che circonda la protostella. Da questo disco “protoplanetario” si aggregano i nuclei solidi dei pianeti, che poi accumulano materiale gassoso costituendo un’atmosfera. Vicino alla stella, dove la temperatura è più alta, gran parte dell’ossigeno rimane nell’atmosfera sotto forma di vapore acqueo.
Ii seguito al raffreddamento il vapore condensa in acqua per poi solidificare in ghiaccio che va a costituire parte del nucleo di un pianeta, lasciando un’atmosfera composta da molecole a base di carbonio e azoto. Pertanto, i pianeti in orbita vicino al loro sole dovrebbero avere atmosfere ricche di ossigeno, piuttosto che di carbonio.
HD 209458b è stato il primo esopianeta ad essere identificato utilizzando il metodo del transito, osservandolo mentre passava davanti alla sua stella ospite. È stato oggetto di approfonditi studi, ma questa è la prima volta che si ottiene un’impronta chimica cosi dettagliata di un’atmosfera esoplanetaria
Secondo il dottor Matteo Brogi del team dell’Università di Warwick è assolutamente necessario aumentare questo tipo di ricerche, in modo tale da capire quali classi di pianeti esistono in termini di posizione di formazione ed evoluzione iniziale. Rilevare quante più molecole possibile è utile quando si passa a testare questa tecnica su esopianeti con condizioni adatte ad ospitare la vita.
L’autore principale dello studio è Paolo Giacobbe, ricercatore dell’Istituto Nazionale Italiano di Astrofisica (INAF).
La stragrande maggioranza delle conclusioni che otteniamo sulle atmosfere degli esopianeti grazie ad osservazioni nel vicino infrarosso si è basata sulla presenza (o assenza) del vapore acqueo, che domina questa regione dello spettro. Ma è davvero possibile che tutte le altre tracce attese dalla teoria non lasciano qualche impronta chimica misurabile?
Lo studio ha dimostrato che è possibile rilevare altre molecole, grazie alle migliori tecniche di analisi disponibili e questo apre nuovi orizzonti per l’esplorazione degli esopianeti.