L’universo magnetico nascosto inizia a manifestarsi

Gli astronomi stanno scoprendo che gran parte del cosmo è permeata da campi magnetici. Se questi campi dovessero essere ricondotti al Big Bang, allora contribuirebbero alla soluzione di tanti misteri cosmologici

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Ogni volta che gli astronomi escogitano un nuovo modo per cercare campi magnetici nelle regioni più remote del cosmo, inspiegabilmente, essi li trovano.

Questi campi di forze circondano la Terra, il Sole e tutte le galassie. Circa venti anni fa, gli astronomi hanno iniziato a rilevare la presenza di campi magnetici attorno a interi gruppi di galassie, compreso lo spazio tra una galassia e l’altra. Linee di campo invisibili si librano attraverso lo spazio intergalattico come i solchi delle impronte digitali.

L’anno scorso, gli astronomi dell’Istituto Nazionale di Astrofisica di Cagliari, sono riusciti finalmente a esaminare una lontana regione dello spazio molto rara – la distesa tra ammassi di galassie. In quella regione, è stato scoperto il più grande campo magnetico finora rilevato: 10 milioni di anni luce di spazio magnetizzato che copre l’intera lunghezza di questo filamento di rete cosmica.

Utilizzando le stesse tecniche, è stato individuato, in un’altra regione, un secondo filamento magnetizzato. Ed è probabile che si tratti solo della punta dell’iceberg per questo ambito della ricerca cosmologica.

La domanda che si pongono i ricercatori è da dove provengano questi enormi campi magnetici. Un’ipotesi potrebbe essere che il magnetismo cosmico provenga direttamente dalla nascita dell’universo.

In questo caso, si dovrebbe riscontrare l’esistenza di un magnetismo, anche debole, in ogni regione dell’universo, compresi i “vuoti” della rete cosmica – le regioni dell’universo più oscure e più vuote. Questo magnetismo primordiale avrebbe quindi generato i campi più forti da cui si sarebbero formate successivamente galassie e gruppi di galassie.

L’ipotesi del magnetismo primordiale aiuterebbe anche a risolvere un altro enigma cosmologico, noto come la tensione di Hubble – probabilmente il tema più caldo dell’attuale cosmologia.

Il problema cardine della tensione di Hubble è che l’universo sembra si stia espandendo con una velocità superiore rispetto a quanto dedotto dalla radiazione cosmica di fondo. Secondo i cosmologi Karsten Jedamzik e Levon Pogosian, i campi magnetici deboli dell’universo primordiale sono i responsabili della maggiore velocità che caratterizza l’espansione dell’universo, così come dedotto dalle ultime osservazioni.

La deduzione dei due cosmologi è così chiara che il loro lavoro, sottoposto a revisione sulla rivista Physical Review Letters lo scorso mese di aprile, è stato subito attenzionato dalla comunità scientifica.

Ovviamente, sono necessari ancora ulteriori controlli per garantire che il magnetismo primordiale non elimini altri calcoli cosmologici. E anche se l’idea è stata pubblicata, i ricercatori devono trovare l’evidenza conclusiva del magnetismo primordiale per essere sicuri che si tratti dell’agente mancante che ha dato forma all’universo.

Inoltre, in tutti gli anni in cui è stato affrontato il tema della tensione di Hubble, sembra strano che finora nessuno abbia mai pensato al magnetismo. Secondo il professor Pogosian, la maggior parte dei cosmologi è restia a pensare al magnetismo.

Per decenni, non c’era alcun modo di scoprire la presenza globale del magnetismo e di considerarlo quindi come componente primordiale del cosmo; per questo motivo i cosmologi non hanno mai focalizzato l’attenzione su questa prospettiva.

Nel frattempo, gli astrofisici hanno raccolto un’enorme mole di dati, dai quali emerge la presenza di campi magnetici in ogni zona dell’universo.

L’anima magnetica dell’universo

Intorno al 1600, gli studi dello scienziato inglese William Gilbert sulle calamite – rocce magnetiche naturali che per centinaia di anni sono state utilizzate come bussole – lo hanno portato a pensare che la loro forza magnetica si comportasse come un’anima. Egli ha infatti correttamente assimilato la stessa Terra a un grande magnete, con le calamite che guardano ai poli della Terra.

Sappiamo che i campi magnetici si generano come conseguenza di un flusso di cariche elettriche. Il campo magnetico terrestre, per esempio, è generato dalla sua dinamo interna, il flusso di ferro liquido che circola al centro della Terra. I campi dei magneti da frigo e delle calamite sono generati dagli elettroni che ruotano attorno ai loro atomi costituenti.

Comunque, una volta che cariche elettriche in movimento generano un campo magnetico originale, questo può crescere e acquisire più forza allineandosi con campi più deboli.

Torsten Enslin, un astrofisico teorico del Max Planck Institute for Astrophysics di Garching (Germania), assimila il magnetismo a un organismo vivente, perché i campi magnetici attingono energia da ogni sorgente libera e quindi tendono a crescere, facendo sentire la loro presenza in altre regioni circostanti.

Un altro scienziato, Ruth Durrer dell’Università di Ginevra, spiega che quella magnetica è l’unica forza, a parte la gravità, che può modellare la struttura su larga scala dell’universo, perché solo il magnetismo e la gravità possono essere rilevate anche a grandi distanze. L’elettricità, di contro, si manifesta localmente e per brevi periodi, perché in ogni regione le cariche positive e negative si annullano. Invece non è possibile eliminare i campi magnetici, che tendono a crescere e a sopravvivere.

Nonostante la loro importanza, questi campi di forza rimangono comunque immateriali e si percepiscono solo quando agiscono su altre cose.

Un altro gruppo di astronomi, guidato da Reinout van Weeren dell’Università di Leida, in un articolo pubblicato lo scorso anno, ha dedotto la presenza di un campo magnetico nel filamento tra i gruppi di galassie Abell 399 e Abell 401, studiando il modo in cui il campo devia gli elettroni ad alta velocità e le altre particelle cariche che lo attraversano. Nel loro transito all’interno del campo, queste particelle rilasciano una radiazione di sincrotrone.

Il segnale di sincrotrone è più intenso alle frequenze radio, e può dunque essere captato dal LOFAR (LoW Frequency ARray), un insieme di 20.000 antenne radio a bassa frequenza sparse su tutto il territorio europeo.

I dati erano stati già acquisiti nel 2014, durante una singola osservazione durata otto ore, ma ci sono voluti alcuni anni prima che gli astronomi individuassero il modo migliore per calibrare le misurazioni del sistema LOFAR.

L’atmosfera terrestre rifrange le onde radio che la attraversano; pertanto il LOFAR vede il cosmo come se si trovasse nel fondo di una piscina. I ricercatori hanno risolto il problema rintracciando l’oscillazione dei fari nel cielo – emettitori di onde radio la cui posizione è nota – e correggendo questa oscillazione per mettere meglio a fuoco i dati.

Quando è stato applicato l’algoritmo di defocalizzazione ai dati provenienti dal filamento, è stato subito osservato il bagliore delle emissioni di sincrotrone.

Il filamento appare magnetizzato dappertutto, non solo nei pressi dei gruppi di galassie che si muovono l’uno verso l’altro da entrambe le estremità. I ricercatori quindi sperano di poter trarre maggiori dettagli dall’analisi dei dati acquisiti dopo un’osservazione di 50 ore.

Inoltre, recenti osservazioni evidenziano l’esistenza di campi magnetici anche in un secondo filamento. Lo stesso van Weeren afferma che la presenza di questi campi magnetici di elevata intensità, osservati nei due filamenti, apre la strada per l’acquisizione di nuove informazioni.

Una luce attraverso i “vuoti”

Nel 1991, Tanmay Vachaspati, dell’Arizona State University, ha cercato di fornire una risposta alla domanda della comunità scientifica riguardante in che modo i campi magnetici si sarebbero formati nell’universo primordiale.

Secondo la sua teoria, questi campi magnetici si sarebbero generati durante la transizione di fase elettrodebole – quel particolare momento, subito dopo il Big Bang, in cui la forza elettromagnetica e la forza nucleare debole si sarebbero distinte.

Altri scienziati hanno ipotizzato che il magnetismo si sarebbe realizzato dopo la formazione dei protoni. Nel 1973, quando fu esposta la prima teoria della magnetogenesi primordiale, l’astrofisico Ted Harrison aveva pensato che il plasma turbolento dei protoni e degli elettroni avesse causato la rotazione dei primi campi magnetici.

Altri ancora hanno proposto che lo spazio si è magnetizzato prima di tutto ciò, durante l’inflazione cosmica – l’espansione esplosiva dello spazio che presumibilmente ha dato origine allo stesso Big Bang. Ed è anche possibile che non sia accaduto nulla per almeno un miliardo di anni.

Il modo per testare le teorie di magnetogenesi è quello di studiare i percorsi dei campi magnetici nelle zone più incontaminate dello spazio galattico, come alcune zone tranquille dei filamenti e i vuoti ancora più vuoti. Alcuni dettagli – come sapere se le linee del campo siano lisce, elicoidali o che si intrecciano in qualche modo, come in un gomitolo di lana – apportano tutta una serie di informazioni che possono essere confrontate con la teoria e con le simulazioni.

Per esempio, se i campi magnetici si sono formati durante la transizione di fase elettrodebole, come proposto da Vachaspati, allora le linee di campo risultanti devono necessariamente essere elicoidali, come un cavatappi.

Il problema è che risulta molto difficile rilevare campi di forza che non agiscono su nulla.

Uno dei metodi, escogitato già nel 1845 dallo scienziato inglese Michael Faraday, rileva un campo magnetico dal modo in cui esso riesce a ruotare la direzione di polarizzazione della luce che lo attraversa. L’intensità della rotazione di Faraday dipende dalla forza del campo magnetico e dalla frequenza della luce. In questo modo, misurando la polarizzazione a frequenze diverse, è possibile ricavare l’intensità del magnetismo lungo la linea di osservazione.

Pertanto, i ricercatori hanno iniziato a fare delle misurazioni approssimative della rotazione di Faraday utillizzando il sistema di satelliti LOFAR, ma il telescopio ha manifestato dei limiti nel captare segnali estremamente deboli. Qualche anno fa un’astronoma dell’Istituto Nazionale di Astrofisica, Valentina Vacca, ha ideato un algoritmo per captare i deboli segnali della rotazione di Faraday, con metodi statistici, aggregando insieme molte misurazioni di spazi vuoti.

La tecnica delle rotazioni di Faraday potrà veramente prendere piede quando, nel 2027, entrerà in funzione il radio telescopio di prossima generazione, frutto di un progetto internazionale, noto come Square Kilometer Array (SKA). Per adesso, l’unica evidenza del magnetismo nei vuoti è data da ciò che gli osservatori non vedono quando guardano degli oggetti chiamati blazar che si trovano al di là dei vuoti.

I blazar (dallinglese: blazing quasi-stellar object) sono fasci luminosi costituiti da raggi gamma, altra luce ad alta energia e da materia, alimentati da buchi neri supermassicci. Poiché i raggi gamma viaggiano attraverso lo spazio, i blazar qualche volta collidono con le microonde già esistenti, dando origine a un elettrone e a un positrone. Queste particelle quindi si consumano e si trasformano in raggi gamma a bassa energia.

Ma se un fascio luminoso blazar passa attraverso un vuoto magnetizzato, i raggi gamma a bassa energia sembreranno assenti. Il campo magnetico devierà gli elettroni e i positroni fuori dalla linea di osservazione. Quando queste particelle decadono in raggi gamma a bassa energia, questi raggi gamma usciranno dal campo di osservazione sperimentale.

Infatti, quando nel 2010 sono stati analizzati i dati provenienti da un blazar ottimamente disposto rispetto agli osservatori, è stato possibile osservare i raggi gamma ad alta energia, ma non quelli a bassa energia. Secondo Vachaspati, è proprio l’assenza di segnale che rappresenta un segnale.

La tecnica del non-segnale appare però molto debole, e sono state quindi proposte delle ipotesi alternative per spiegare la mancanza dei raggi gamma, la più accreditata delle quali è quella dei vuoti magnetizzati, avanzata da Neronov e Vovk. Nel 2015, poi, un gruppo di ricercatori ha sovrapposto molte misurazioni di blazar al di là dei vuoti riuscendo a captare un debole alone di raggi gamma a bassa energia attorno ai blazar stessi.

Si è ottenuto lo stesso effetto che ci si sarebbe aspettato se le particelle fossero state deviate da campi magnetici deboli – la cui intensità è di circa 10^18 volte più piccola del magnete di un frigo.

Il più grande mistero della cosmologia

Sorprendentemente, questa esatta quantità di magnetismo primordiale potrebbe essere la chiave di volta per risolvere la tensione di Hubble – il problema legato alla veloce espansione dell’universo. Nel mese di luglio 2019, Karsten Jedamzik e Andrey Saveliev hanno pubblicato un articolo su Physical Review Letters, riportando i dati di una simulazione su computer della problematica.

I due ricercatori hanno aggiunto dei campi magnetici deboli ad un universo giovane, simulato, riempito con plasma e hanno scoperto che i protoni e gli elettroni all’interno del plasma fluivano lungo le linee del campo magnetico e si accumulavano in quelle regioni dove il campo era più debole.

A seguito di questa aggregazione i protoni e gli elettroni si sono combinati per formare idrogeno – un cambiamento di fase veloce chiamato ricombinazione – più presto di quanto avrebbero fatto in un’altra situazione.

Queste deduzioni potrebbero aiutare alla comprensione della tensione di Hubble. I cosmologi calcolano la velocità con cui si dovrebbe espandere oggi lo spazio osservando la luce primordiale emessa durante la ricombinazione. Questa luce mostra un universo giovane coperto di macchie che si sono formate da onde sonore che oscillavano nel plasma primordiale.

Se la ricombinazione fosse avvenuta prima di quanto ipotizzato, a causa dell’effetto di aggregazione dei campi magnetici, le onde sonore non si sarebbero potute propagare con così tanto anticipo, e le macchie risultanti sarebbero più piccole.

Questo significa che le macchie che vediamo nel cielo dal tempo della ricombinazione devono essere più vicine di quanto i ricercatori suppongano. Per raggiungerci la luce proveniente dalle macchie deve aver percorso una distanza minore, e quindi la luce deve aver percorso uno spazio che si espande più velocemente. È come cercare di correre su una superficie in espansione, dove si percorre meno distanza.

Il risultato è che macchie più piccole portano alla deduzione di una più alta velocità di espansione cosmica – facendo sì che la velocità calcolata si avvicini moltissimo alle misurazioni della velocità raggiunta dalle supernove e da altri oggetti.

Lo scorso mese di febbraio sono stati effettuati altri calcoli dai quali si è dedotto che la quantità di magnetismo primordiale, necessario per valutare la tensione di Hubble, concorda anche con le osservazioni dei blazar e con le dimensioni stimate dei campi primordiali, necessari per garantire la crescita di enormi campi magnetici sparpagliati tra ammassi di galassie e filamenti.

Fonte: Quanta Magazine