Pandemia e Psiche

Gli effetti sulla psiche della pandemia di Covid19 dovranno essere studiati ed approfonditi nel corso dei prossimi mesi, un'idea della loro incidenza può darcela il parallelo con la spagnola.

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In questi mesi molto si è discusso ed analizzato sugli effetti sanitari ed economici della pandemia da Covid19, meno, almeno per quanto riguarda il grande pubblico, sugli effetti psichiatrici e psicologici derivanti direttamente o indirettamente dalla malattia indotta da SARS-COV-2.

Eppure non si tratta di effetti marginali o limitati ad un numero poco significativo di persone. Secondo uno studio condotto dallo psicologo Gordon Asmundson, per valutare i livelli di paura e ansia tra quasi 7000 adulti provenienti dal Canada e dagli Stati Uniti, ben il 25% dei soggetti ha sviluppato quella che è stata definita come “sindrome da stress di Covid19”.

Secondo Steven Taylor, professore e psicologo clinico nel dipartimento di psichiatria dell’Università della British Columbia, bastano anche pochi giorni di rigido isolamento sociale per causare le premesse di un’ansia duratura.

Uno studio pubblicato su Psychiatry Research che ha come campione 369 persone in 64 città della Cina, confermano gli effetti psicologici negativi della quarantena ipotizzati da Taylor: a risentirne sono soprattutto le persone più dinamiche e chi non lavora a causa della pandemia, che sembrano stare peggio dopo un mese di isolamento.

Ancora da esplorare a fondo sono le conseguenze indotte dalle misure di isolamento che hanno riguardato bambini ed adolescenti costretti ad interrompere una vita scandita da una serie di rassicuranti “routine” e confinati in uno spazio, quello domestico, che non soltanto li ha esclusi dai contatti sociali ed amicali, ma li ha privati di quella dimensione individuale e privata fondamentale per il proprio sviluppo.



Né si deve pensare che quando la pandemia si concluderà definitivamente la sofferenza psichica accumulata in questi mesi si dissolverà automaticamente come nebbia al sole. In attesa delle ricerche e degli studi che seguiranno l’auspicabile fine di Covid19, può essere di una qualche utilità fare alcuni raffronti, senza nessuna pretesa di esaustività, con gli effetti sulla psiche provocati dalla “madre di tutte le pandemie”, la pandemia più devastante del ventesimo secolo e forse dell’intera storia dell’umanità: la spagnola.

Sia in anedottica che in studi affidabili è emersa la sussistenza di una gigantesca ondata depressiva che si propagò per diversi anni a venire anche dopo il termine della pandemia del 1918-1919. Si potrebbe obiettare che il mondo usciva da una terribile guerra e che pertanto discernere tra ansia e depressioni provocate dal conflitto o dalla pandemia di spagnola sia alquanto problematico. E’ questo è vero, soprattutto per i paesi belligeranti.

Ci può dare una mano a risolvere questo dubbio, però, uno studio effettuato dall’epidemiologo norvegese Svenn Erik Mamelund che ha studiato gli archivi degli ospedali psichiatrici del suo paese dal 1872 al 1929,constatando come negli anni in cui il paese non era interessato da epidemie influenzali i ricoveri negli ospedali psichiatrici erano pochissimi.

La Norvegia durante la Grande Guerra era un paese neutrale e quindi non sopportò le devastazioni, le privazioni e i lutti del resto d’Europa. Eppure in ciascuno dei sei anni successivi alla pandemia del 1918 la media dei ricoveri di questo tipo fu sette volta la media degli anni non pandemici.

Gran parte dei pazienti ricoverati in quegli anni soffrivano di quello che oggi definiamo come sindrome da fatica cronica che viene descritta come una «malattia sistemica, complessa, cronica e grave», caratterizzata da una profonda stanchezza, disfunzioni cognitive, alterazioni del sonno, manifestazioni autonomiche, dolore e altri sintomi, che sono peggiorati da uno stress prolungato di qualsiasi tipo.

Questa sindrome pare sia stata la causa principale della grave carestia alimentare che colpì la Tanzania verso la fine del 1918. Lo Stato africano era stato duramente colpito dalla pandemia influenzale che aveva provocato migliaia di morti e malati. La carestia dei cormi, come fu chiamata dal nome del bulbo da cui nasce il banano primaria fonte di alimentazione per quelle popolazioni, durò due anni.

A volte gli effetti dei sintomi psichiatrici furono, fortunatamente, provvisori, come accadde a Boston nel 1919, dove 200 personeguarite” dalla spagnola furono ricoverati in un ospedale psichiatrico con la diagnosi obsoleta di “demenza precoce”. Si trattava in realtà di forme schizofreniche generalmente considerate incurabili. Tutti e 200 pazienti invece si ripresero entro cinque anni dalla manifestazione dei sintomi.

Un’altra condizione neurologica associata all’influenza spagnola fu l’encefalite letargica, detta anche volgarmente malattia del sonno, la cui sintomatologia era molto simile all’influenza, con l’aggiunta di una spiccata sonnolenza che colpiva i malati.

Dal 1917 al 1925 l’encefalite letargica si diffuse per tutto il globo, con un picco nel 1921. Delle 500.000 persone colpite in tutto il mondo un terzo morì entro una settimana, un terzo guarì e il restante terzo contrasse a distanza di qualche anno una forma avanzata e grave del morbo di Parkinson.

Tutt’ora, scienziati, epidemiologi e storici della medicina si dividono sulla stretta correlazione tra l’encefalite letargica e la spagnola. Questa malattia si era già presentata nei decenni precedenti ed in quelli successivi, ma l’unica manifestazione epidemica di encefalite letargica è quella che si sviluppò in quegli anni con il picco, come detto, nel 1921.

Accanto a manifestazioni gravi e diffuse di disturbi psichiatrici e neurologici, la pandemia di spagnola lasciò una vasta e diffusa area di sofferenza psichica, fatta di ansia e depressione, che condizionò per molti anni a venire la vita non soltanto di una parte importante dei 500 milioni di persone che ne furono direttamente colpiti ma anche di coloro che pur non contraendo la malattia vissero in prima persona lo stress e gli orrori di una delle più devastanti pandemie della storia umana.

Fonti:

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