“Clearly worthless security is like a ship without a rudder.
But value without security is like a rudder without a ship”.
(HENRY KISSINGER)
In ogni azienda la sicurezza e la tutela del patrimonio aziendale rappresenta un aspetto fondamentale per la sua continuità operativa, la sua stessa “esistenza fisica”; un capitale che si esprime nelle sue forme più comuni, quali infrastrutture, beni, dati, valori, brevetti, proprietà intellettuale, etc.
Una condizione che richiede un forte e costante impegno, che richiede specifiche competenze manageriali sulle tecnologie, i materiali, gli impianti, i sistemi, e non ultimo sulle normative di settore, sempre in continua evoluzione, ma non sempre un “dominio” conoscitivo dei professionisti di settore.
Ecco che, per un Security Manager, rendere compliance il proprio ambito della sicurezza fisica significa tener conto di tutte le esigenze di protezione (safety e security), valutando attentamente, in fase di Risk Analysis, tutte le possibili vulnerabilità e le carenze latenti dell’organizzazione, trasformando tali analisi in concreti sistemi tecnologici di protezione (antintrusione, controllo accessi, videosorveglianza, building automation, etc).
Procedure, istruzioni di lavorazioni, capitolati per servizi esternalizzati, ordini di lavoro per specifici impianti, e così via, devono essere attentamente valutati, come abbiamo appena detto, anche sotto l’aspetto della compliance, con una particolare attenzione verso l’aspetto della conformità normativa tecnico-giuridica di ogni sistema progettato e successivamente installato.
Il professionista della sicurezza aziendale (UNI 10459) opera quotidianamente insieme ad altri professionisti di settore (installatori, progettisti), un ambito, quello della sicurezza (security, safety, building automation), dominato da una serie infinita di norme e disposizioni normative, spesso disomogenee tra loro, quando non curiosamente in antitesi, in fatto di responsabilità civili/penali.
Affine per specializzazione al comparto industriale degli impianti elettrici, è del tutto evidente come anche gli adempimenti normativi del settore sicurezza siano fortemente comuni ad entrambi, e seppur con talune sfumature, sempre ricadenti nel perimetro vincolato delle norme CEI, UNI, del DM 37/08 e della Legge n° 186/68, tanto per citarne alcune.
Peraltro, il manager della sicurezza deve sempre affidare i progetti aziendali, per legge, a professionisti del settore di comprovata e certificata affidabilità, all’altezza del compito loro affidato.
Questo perché, quando i professionisti vengono meno ai vincoli contrattuali, convenuti con la committenza, ne risponderanno in sede civile e penale del “danno contrattuale” cagionato, come anche del “danno extracontrattuale”, effetto contemplato quando il professionista non è rispettoso della buona “regola dell’arte”, e si concretizza, inoltre, quando non presta la dovuta “diligenza tecnica” propria delle sue capacità e cognizioni “tecnico-normative”.
Ciononostante, abbiamo due casi nei quali il professionista non risponde del danno, ovvero: quando nel contratto di commessa sarà espressamente prevista una certa “discrezionalità tecnica” gestita dallo stesso, che dovrà però sempre muoversi nell’alveo dell’obbligatorietà tecnica, mentre in secondo luogo, quando la committenza imponga le sue esigenze, laddove poi il professionista renderà edotta la stessa sulla reale possibilità di una “risultanza tecnica imperfetta” dei lavori commissionati.
Sebbene la nozione regola dell’arte abbia registrato una vasta divulgazione e il suo concetto inserito nei contratti, come nelle sentenze, pur essendo espressamente citata nell’art. 2224 del Codice Civile (C.C.) dove è scritto che “il prestatore d’opera è tenuto a procedere all’esecuzione dell’opera secondo le condizioni stabilite dal contratto e a regola d’arte”, ebbene, nonostante ciò mai è stata fornita una esplicazione tangibile della “regola”.
Invero, è proprio nel settore impiantistico elettrico che rinveniamo una prima definizione della regola dell’arte, infatti, all’interno dei due unici articoli che compongono la Legge n° 186/1968 sulle “Disposizioni concernenti la produzione di materiali, apparecchiature, macchinari, installazioni e impianti elettrici ed elettronici”, così è scritto:
Art. 1, tutti i materiali, le apparecchiature, i macchinari, le installazioni e gli impianti elettrici ed elettronici devono essere realizzati e costruiti a regola d’arte;
Art. 2, i materiali, le apparecchiature, i macchinari, le installazioni e gli impianti elettrici ed elettronici realizzati secondo le norme del Comitato Elettrotecnico Italiano (CEI) si considerano costruiti a regola d’arte.
Del resto, è lo stesso significato contenuto nella Legge n° 46/1990 sulle “Norme per la sicurezza degli impianti”, sostituita poi nel prosieguo del tempo dal Decreto Ministeriale DM n° 37/2008 “Regolamento sul riordino delle disposizioni in materia di attività di installazione degli impianti all’interno degli edifici”, attività regolatoria che interesserà ancor di più i professionisti del settore, decreto che nell’art. 6 dice:
“Le imprese realizzano gli impianti secondo la regola dell’arte, in conformità alla normativa vigente e sono responsabili della corretta esecuzione degli stessi. Gli impianti realizzati in conformità alla vigente normativa e alle norme dell’UNI, del CEI o di altri Enti di normalizzazione appartenenti agli Stati membri dell’Unione europea o che sono parti contraenti dell’accordo sullo spazio economico europeo, si considerano eseguiti secondo la regola dell’arte”.
Una disciplina di applicazione, questa, basilare in quanto, a caratterizzazione speciale per gli impianti elettrici (residenziali/industriali) ed elettronici (security/safety), completa negli aspetti progettuali, procedurale e documentali, oltremodo precisa nel dettato installativo degli impianti tecnologici.
Concetti questi, ulteriormente rimarcati quando si realizzano installazioni, elettriche o elettroniche che fossero, negli ambienti di lavoro la dove impera il D.Lgsl n° 81/2008, meglio conosciuto come il “Testo Unico” sulla “Tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro”, dove nell’art. 81 riafferma parimenti il concetto:
comma 1. tutti i materiali, i macchinari e le apparecchiature, nonché le installazioni e gli impianti elettrici ed elettronici devono essere progettati, realizzati e costruiti a regola d’arte;
comma 2. ferme restando le disposizioni legislative e regolamentari di recepimento delle direttive comunitarie di prodotto, i materiali, i macchinari, le apparecchiature, le installazioni e gli impianti di cui al comma precedente, si considerano costruiti a regola d’arte se sono realizzati secondo le pertinenti norme tecniche;
Ma tuttavia, quando le norme tecniche (CEI/UNI, etc) non trovano applicazione, ebbene, una risposta alla definizione della regola dell’arte la dobbiamo pur trovare!
Sul punto troviamo una possibile soluzione nella locuzione legislativa “Bonus pater familias”, ovvero, l’attenzione del buon padre di famiglia, che si concretizza giuridicamente con l’agire con perizia, prudenza e diligenza, secondo quanto contenuto nell’art. 1176 C.C.; indubbiamente, ciò posto rappresenta la diligenza media che si deve presuppone nell’uomo medio, ovverosia, la valutazione di quella diligenza che il codice sollecita affinché non sussista una colpa.
Pertanto, in questa fattispecie, sarà più laborioso e particolarmente macchinoso poter dimostrare come si applichi concretamente la regola d’arte, non avendo più nessun riferimento positivo e vincolante, proposto, ad esempio, dalla normativa tecnico-giuridica.
Orbene, alla luce di quanto accennato sin qui appare chiaro il fatto di non poter certificare, questa “astratta” regola dell’arte, né come realizzarla in una maniera certa, tale da non prestarsi a svariate ed equivoche interpretazioni.
E’ tuttavia indubbio, alla stregua di quanto detto, come nel settore elettrotecnico si imponga, per progettare prima e realizzare poi impianti tecnologici “a regola”, il rispetto delle regolamentazioni (leggi e norme) che sono articolate in due tipologie di riferimento: la norma tecnica e la norma giuridica.
Peraltro, la conoscenza delle normative, nella esatta distinzione dottrinale tra norma giuridica e norma tecnica, rappresenta il presupposto fondamentale, imprescindibile per un approccio professionale alle problematiche tipiche del settore impiantistico elettrico ed elettronico; sistemi che andranno realizzati al solo scopo di conseguire quel “livello di sicurezza accettabile” che la norma impone, ma che non è mai assoluto, perché al progredire tecnologico seguirà sempre una consequenziale rideterminazione regolatoria fatta sia dall’ente normativo (CEI/UNI, etc), che dal legislatore (Leggi, DPR, DM, D.Lgs, etc).
E allora diamolo uno sguardo, seppur sommario, alla differenza che intercorre tra la norma tecnica e quella squisitamente giuridica.
Per definizione le norme giuridiche appartengono alla “famiglia” delle norme di diritto, che impongono, in uno specifico settore, “regole” di condotta da seguire e quelle da evitare, mentre le leggi (scomponibili anche in più norme specifiche) hanno una caratterizzazione di applicabilità di larga portata.
D’altra parte, sebbene queste terminologie siano spesso prese come sinonimi, la norma non va mai erroneamente confusa con la legge, perché anche avendo sì le stesse caratteristiche (imperatività, positività, etc), si sostanziano, e dunque si differenziano, per la portata: la norma possiede un valore limitato in uno specifico settore, al contrario della legge che assume un valore di rilevanza generale, su regole di vita, di condotta e di comportamento.
Diversamente, l’osservanza delle norme tecniche non è obbligatoria per volontà espressa dal legislatore, che non le connota come “leggi”, ma le considera piuttosto come “documenti” che definiscono talune prassi, caratteristiche, processi, secondo uno “stato dell’arte” tecnologico del momento, dichiarandone pertanto la volontarietà di queste fonti.
Quindi, a ben vedere, non rappresentano l’esercizio in capo al potere legislativo, in quanto rappresentano il prodotto dell’elaborazione e dell’aggiornamento continuo che gli enti di normazione, in base allo sviluppo tecnico-scientifico, pongono in essere in delegazione di tutte le parti socioeconomiche interessate.
Questo è sempre vero laddove le norme volontarie sono considerate “isolatamente”; diversamente, non è mai vero quando le norme tecniche e giuridiche si condizionano a vicenda, esercitando un impatto “giuridico” le une sulle altre, nella fattispecie applicativa propria dei loro ambiti di appartenenza, meglio conosciuta come “sfera di influenza”.
Un effetto di tal genere diventa cogente nel momento in cui la norma tecnica è richiamata all’interno di una legge, e dunque, questo richiamo fa valere il principio giuridico per cui qualsiasi norma richiamata assume la forza di legge.
E’ ben vero allora, e ora lo sappiamo con certezza, che solo quando il professionista applicherà con diligenza tali “indirizzi” dimostrerà un metodo deontologicamente corretto nel soddisfare il dettato applicativo della legge 186, garantendo peraltro, quel “livello minimo di sicurezza” rispondente proprio alla regola dell’arte, e dunque, applicando la normativa tecnica di riferimento non è più tenuto a dimostrare di avere lavorato secondo legge.
Detto ciò, appare evidente come la regola dell’arte vada considerata quale elemento in continua evoluzione dottrinale, ma riferita sempre allo “stato dell’arte” tecnologico in cui si opera, alla conoscenza tecnica del periodo, della normazione e delle vigenti leggi.
Quanto appena sostenuto sottolinea con forza l’obbligo per il professionista nel mantenersi sempre aggiornato sulla evoluzione tecnico-normativa (CEI, EN, UNI, etc), e su quella legislativa (Leggi, DPR, DM, DLgs, etc.), perché il mancato rispetto delle “Norme”, a prescindere dall’osservazione o meno dei singoli vincoli contrattuali, determinerà sempre una giudiziale responsabilità per danni, confermata peraltro dalle molteplici pronunce giurisprudenziali (civili/penali), tanto di merito (Tribunali, Corti d’Appello) quanto di legittimità (Suprema Corte di Cassazione).
Né può, del resto, essere mai sottovalutata la responsabilità contrattuale ed extracontrattuale del professionista che opera nel settore della sicurezza, dato che la tal cosa nasce per effetto dell’entrata in vigore di indirizzi specifici contenuti nell’allegato K, appendice nella norma CEI 79/3:2012, oltre all’azione delle sentenze di condanna nel risarcire danni per negligenza, colpa, errata progettazione/realizzazione, mancato o cattivo funzionamento dei sistemi di sicurezza in occasione di eventi criminosi.
A tale riguardo, ogni professionista è tenuto a mantenere sempre un comportamento diligente necessario alla realizzazione dell’opera, adottando puntualmente tutte quelle misure e cautele necessarie, idonee per la corretta esecuzione della prestazione commessagli, secondo un modello di accuratezza e di abilità tecnica.
Ora, la diligenza si evidenzia nei profili della cura, della cautela, della perizia, della legalità sotto l’aspetto dell’integrità materiale, come nella mancanza di vizi.
Mentre, la perizia si sostanzia invece nell’uso delle abilità supportate da appropriate nozioni tecniche caratterizzanti la professione svolta, anche mediante l’utilizzo della strumentazione adeguata e necessaria all’attività professionale.
Solo per citare qualche esempio, richiamiamo l’attenzione del professionista su alcune sentenze della Cassazione, come la sentenza n° 12879/2012, dove è scritto che se un sistema di sicurezza antirapina non funziona correttamente per difetti imputabili alla manutenzione, allorquando il sito protetto è soggetto ad evento rapina, l’azienda incaricata dell’appalto manutentivo ne rispondere in solido dei danni sofferti, visto che: “… se non si ritenesse che un impianto di allarme specifico possa in qualche misura essere utile per evitare il furto o per attenuarne le conseguenze non vi sarebbe allora alcuna ragione per installarlo (sicché la sua potenziale utilità allo scopo può dirsi costituire nozione di fatto rientrante nella comune esperienza per gli effetti di cui all’art. 115, secondo comma, c.p.c.)…”
In un’altra sentenza, la n° 12995/2006, si ribadisce ad esempio come il professionista, anche laddove si attenga rigidamente alle indicazioni del progettista, può essere chiamato alla corresponsabilità per i “vizi dell’opera” in quanto, conservando in ogni caso una sua autonomia, non esegue gli impianti secondo la regola dell’arte, o in assenza di specifica formazione; quindi, quando il danno è provocato da elementi non contemplati nei precetti dottrinali, andrà sicuramente esercitato il comportamento del Buon padre di famiglia (perizia, prudenza e diligenza) che l’installatore deve sempre osservare, quando la norma è carente.
Tuttavia, anche quando l’installatore, nei limiti e in base alle cognizioni tecniche da lui conosciute, non segnala al committente le carenze progettuali o gli errori macroscopici dell’opera da realizzare, sarà comunque ritenuto corresponsabile in caso di danno, anche quando abbia eseguito fedelmente il progetto e le indicazioni in esso contenute, nonostante la presa di coscienza degli errori rilevati.
Diversamente, se il professionista rende edotta la committenza, documentando compiutamente i rilievi sulle eventuali carenze e/o errori progettuali, ma quest’ultima gli ordina comunque di eseguire le indicazioni palesemente errate del progettista, lo stesso sarà esente da ogni responsabilità, perché privato oggettivamente dalla libertà decisionale quale “nudus minister”, perché indotto comunque ad eseguirle su insistenza del committente, e a totale rischio di quest’ultimo (Cassazione sentenza n° 538/2012).
Partendo da questi capisaldi la Suprema Corte si è spinta oltre, stabilendo un assunto, secondo il quale, anche in assenza specifica normazione tecnica che obblighi precisi adempimenti, è configurabile la responsabilità per danni extracontrattuali conseguenti alla mancata osservanza delle generiche norme di salvaguardia.
D’altra parte, nel caso dell’installatore, tale figura opera spesso in un contesto eterogeneo, dove regolarmente vengono coinvolti più professionisti, e dunque, costretto a confrontarsi con progettisti, direttore dei lavori, responsabili della sicurezza, un fattore questo che implica possibili e significativi “effetti” in termini di responsabilità legali di “terzi” verso la committenza, però ascrivibili indirettamente anche allo specialista estraneo ai fatti.
Un classico esempio, che racchiude il tutto, è ben rappresentato da installazioni realizzate in zone classificate, e dunque altamente pericolose; ebbene, il mercato offre soluzioni di protezione per ambienti classificati di tipo “Ex d” ed “Ex tb” che consentono l’impiego, altrimenti impossibile, di strumentazioni e/o tecnologie non progettate per aree pericolose o a rischio di esplosioni.
In questo caso di “scuola” osserviamo diverse figure professionali coinvolte, ma con responsabilità interdipendenti tra loro:
- il produttore;
- il progettista;
- l’installatore;
Il produttore garantisce l’adeguato livello di sicurezza delle apparecchiature e ne certifica l’idoneità all’installazione nel corretto ambito operativo, vincolato a fornire specifiche tecniche chiare ed esaustive, su impiego, utilizzo, installazione e manutenzione.
Viceversa, il progettista è il responsabile del dimensionamento e della corretta selezione dei componenti certificati, sempre vincolata alle esigenze impiantistiche, operative e di utilizzo, nel pieno rispetto della conformità alle norme e ai limiti delle attestazioni funzionali dei componenti.
Invece, la responsabilità dell’installatore assume una posizione decisamente più ambigua, nel momento che riceve la documentazione progettuale, giacché a seguire, ricadranno più incombenze su di lui, che sono quelle di attenersi alle indicazioni dettate dal progetto, verificandone però la fattibilità, come il rispetto dei limiti di utilizzo e installazione delle apparecchiature imposti dal produttore, e mai sindacabili, senza apportare modifiche di nessuna natura, anche quando effettuate “a regola d’arte”, considerando che ogni modifica arbitraria annullerà la sicurezza funzionale, pregiudicandone, peraltro, la conformità alle norme di riferimento e, quindi, la validità stessa del certificato, pregiudicando nel suo complesso l’intera realizzazione.
Proprio su tali motivazioni, la magistratura a preso delle contromisure processuali, affidando sempre più tutte le “indagini tecniche”, che riguardassero violazioni nel settore degli impianti tecnologici, con specifici incarichi investigativi volti a verificare la sussistenza giuridica di quell’accorgimento (bonus pater familias) che, quando non diversamente normato, avrebbe potuto evitare il concretizzarsi del danno e/o di un possibile reato, che si realizza in concreto con quanto già raccontato nella parte iniziale del nostro ragionamento, ossia: Perizia, Prudenza e Diligenza!
Ma la responsabilità dei professionisti del settore non si esaurisce esclusivamente nel solo ambito civile, perché per talune fattispecie viene estesa anche in quello penale, che ricordiamo, nell’ordinamento italiano è tipicamente “personale”.
Al riguardo è bene tenere a mente il disposto dei due commi dell’art. 40 del Codice Penale (C.P.) che dice:
- c1, nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se l’evento dannoso o pericoloso, da cui dipende l’esistenza del reato, non è conseguenza della sua azione od omissione;
- c2, non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”.
Altri punti chiave del Codice sono l’art. 5 ignoranza della legge penale (leggasi conoscere le leggi della propria professione), l’art. 483, attestazione di falso in atto pubblico (leggasi falsa dichiarazione di conformità), l’art. 449, incendio colposo (leggasi l’errato dimensionamento di un impianto, la sua cattiva realizzazione, l’utilizzo non conforme di materiale e tecnologie), l’art. 451 omissione colposa di cautele/difese (leggasi per colpa, omissione, ovvero rimuovere o rendere inservibili apparecchi destinati alla sicurezza).
Quindi, da questa summa lettura emerge chiaro come in tutti i campi professionali è l’omissione colposa ad essere punita, e dunque, è certamente sulla base di questo elemento principe, ad esempio, che si possono ascrivere ai professionisti fattispecie penali per reati consumati nell’esercizio della propria attività, quando questa ne comporta l’assunzione di una “posizione di garanzia” (Cassazione sentenza n° 38624/2019), quale ad esempio quelle del progettista o dell’installatore degli impianti tecnologici, quando quest’ultimi sono sottoposti a certificazione di legge.
In aggiunta a quanto scritto qualche riga più sopra, per concretizzare la condizione di una qualsiasi responsabilità penale del professionista, non occorre necessariamente l’accadimento reale dell’evento, perché in ambito penale sussistono anche i reati di “mero pericolo”, una fattispecie penale dove viene punito già il semplice insorgere del possibile pericolo per l’incolumità pubblica.
Riassumendo, possiamo affermare che:
- la regola dell’arte va intesa come quel complesso di regole tecniche da rispettare per garantire la realizzazione di opere con un livello minimo di accettabilità, in termini di gestione, efficienza, sostenibilità, durata e sicurezza del sistema reso;
- un professionista, in buona sostanza, per poter operare conformemente secondo la regola d’arte deve anzitutto conoscere e applicare le relative norme tecniche di settore supportate dalla normativa giuridica di salvaguardia; sul punto, solamente gli impianti realizzati in conformità alle normative CEI/EN, sono, per la nostra legislazione, considerati realizzati a regola d’arte;
- ricevendo un progetto, dovrà essere sempre all’altezza di interpretarlo correttamente, come, peraltro, capace di stabilirne le carenze e le non rispondenze, compatibilmente alle conoscenze e capacità tecniche limitate al suo profilo professionale;
- al termine dei lavori dovrà sempre effettuare tutte le prove funzionali e le verifiche di sicurezza, certificando il tutto in accountability agli obblighi normativi.
In conclusione: uscire erroneamente, o peggio ancora dolosamente, dal “fil rouge” che unisce le normative tecniche a quelle giuridiche, danneggerà sempre la credibilità del professionista, giacché le non conformità rappresentano una chiara responsabilità amministrativa, civile e penale, della quale tanto i professionisti, quanto la committenza, ne risponderanno inequivocabilmente di fronte all’Autorità.