Gente comune, appassionati di astronautica o sostenitori più o meno consapevoli di teorie complottiste, tutti o quasi conoscono gli uomini che per primi camminarono sulla Luna: Neil Armstrong, che fu il primo uomo a mettere piede sul nostro satellite naturale, ed Edwin Buzz Aldrin che scese sul suolo lunare poco dopo.
Pochi, però, ricordano il nome dell’astronauta che rimase, solitario, sulla capsula Apollo mentre i compagni che attuavano lo storico sbarco scolpendo i propri nomi sui libri di storia: Michael Collins. Molti ignorano il nome di questo astronauta forse rimasto un po’ nell’ombra rispetto ai colleghi di missione, ma che ha contribuito alla riuscita dell’impresa più rande che l’umanità possa ricordare.
Come i suoi forse più celebrati compagni, anche Collins è nato nel 1930, anche lui veterano al secondo volo spaziale, ma cui venne assegnato il compito, forse ingrato ma fondamentale, di restare nell’ombra mentre i compagni dell’impresa venivano celebrati.
Mentre Neil e Buzz manovravano con non poche difficoltà il lander Aquila, allunavano e scendevano sul suolo lunare dove piantavano la bandiera americana sul suolo del Mare della Tranquillità, Michael Collins restava per più di venti ore nell’orbita lunare a bordo del Modulo di Comando, che lo condusse dietro il satellite, nell’oscurità del cielo, senza la minima possibilità di comunicare con la base spaziale di Houston, o con i propri compagni di missione: durante quelle ore Collins fu l’uomo più solo dell’universo.
Collins, costretto in una struttura a forma di cono di 3,5 m di altezza e 4 m di diametro,con un volume di 6 m³ abitabili realizzati tra motori, serbatoi, batterie, display vari, controlli e postazioni di guida per tutto l’equipaggio, doveva riportare a casa sani e salvi tutti e tre, Armstrong, Aldrin e sè stesso. Per farlo fu necessario applicare tutto l’addestramento, le conoscenze ed il sangue freddo derivati dalle millemila ore di addestramento al controllo del modulo di Comando fino al punto più favorevole al ricongiungimento col Modulo Lunare Aquila.
Michael Collins nacque al numero 16 di via Tevere a Roma, dove il padre svolgeva servizio come Generale Maggiore dell’Esercito presso l’ambasciata statunitense, Raggiunta l’età giusta, tornò negli Stati Uniti e si arruolò all’Accademia Militare di West Point, dove decise di intraprendere la carriera di aviatore. Questo lo portò a sviluppare e ad affinare il suo autocontrollo e la propensione alla solitudine; infatti come amava ricordare sempre a chi gli chiedesse come si era sentito da solo all’interno del piccolo modulo lunare: “ho volato da solo su aeroplani per diciassette anni, l’idea di essere da solo su un veicolo non mi allarma” e anche “nel Columbia avevo una casa felice. Quella costruzione è come una cattedrale in miniatura”.
Nel suo primo volo spaziale Michael Collins aveva effettuato una passeggiata spaziale mentre, durante la missione Apollo 11 dovette gestire situazioni ben più complicate. Se il decollo del Modulo Lunare dal satellite e il riaggancio col Modulo di Comando non fossero stati possibili, cosa che temevano i tecnici della NASA, Collins sarebbe passato alla storia come il sopravvissuto, riportando sulla Terra il peso della tragedia e della sconfitta.
La missione, grazie ai tre astronauti, fu un successo e Collins, da un certo punto di vista, forse fu più fortunato dei suoi compagni che, dopo il rientro e la fama acquisita, caddero uno nel vortice della depressione e dell’alcolismo uno mentre l’altro si chiuse nella solitudine. Entrambi lasciarono le rispettive mogli.
Forse la sua attitudine alla solitudine e la sua metodicità lo preservarono dal fatto che il suo nome rimase meno impresso nella memoria collettiva rispetto ai suoi compagni.