Materia oscura e buchi neri primordiali

Torna alla luce una teoria, basata su un lavoro di Hawking e Carr, secondo cui la materia oscura deriverebbe da buchi neri formatisi agli esordi dell'universo.

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A causa della loro intrinseca oscurità, è difficile oggi fare una stima di quanti buchi neri siano presenti nel cosmo e quanto siano le loro dimensioni. Per questo motivo, quando nel 2015, le prime onde gravitazionali hanno vibrato attraverso i rilevatori del Laser Interferometer Gravitational – Wave Observatory (LIGO), l’evento ha suscitato non poca sorpresa. In precedenza, le dimensioni massime che venivano rilevate per i buchi neri, erano, in media, venti volte la massa solare. I nuovi buchi neri hanno invece delle masse che raggiungono 30 volte il valore della massa del Sole. Inoltre, dopo che LIGO ha avviato la sua attività e ha iniziato a “sentire” le fusioni tra questi oggetti, gli astrofisici hanno percepito che ci potrebbero essere molti più buchi neri di quanto si fosse pensato fino a ora.

La scoperta di questi strani esemplari ha rivitalizzato una vecchia idea, che, recentemente, era stata tenuta ai margini. Sappiamo che dalla morte di una stella possono formarsi dei buchi neri. Ma è anche probabile che dei buchi neri si siano potuti formare durante il Big Bang. Una quantità nascosta di questi buchi neri “primordiali” potrebbe aver dato origine alla materia oscura. Dopotutto, nonostante la decennale ricerca, finora non si sono avute manifestazioni di particelle di materia oscura. A questo punto sorge spontanea la domanda se, quanto necessario per spiegare la materia oscura, ovvero la presenza di buchi neri, non fosse sempre stato sotto i nostri occhi.

Secondo Marc Kamionkowski, un cosmologo della Johns Hopkins University, che ha effettuato ricerche su questa idea già nel 2016, questa ipotesi è abbastanza strana, ma non del tutto folle.

Nel 2017, Yacine Ali-Haimoud, un astrofisico della New York University, ha scritto un articolo nel quale ha esaminato in che modo questi buchi neri “primordiali” vanno a interferire sul tasso di rilevamento di LIGO. Egli ha calcolato che, se l’universo primordiale avesse generato la quantità di buchi neri necessaria per giustificare la presenza di materia oscura, nel tempo, questi buchi neri si sarebbero dovuti disporre in coppia, orbitare sempre più vicini l’uno rispetto all’altro, e fondersi con dei ritmi centinaia di volte più elevati rispetto a quelli osservati da LIGO. Questo articolo ha quindi suggerito ai ricercatori di continuare a perseguire questa idea, ma con altri tipi di approccio. Ma molti hanno abbandonato la speranza, e lo stesso Kamionkowski sembra aver perso interesse per il problema.

Recenti articoli hanno però ridato respiro all’idea dei buchi neri primordiali. In uno di questi, pubblicato sul Journal of Cosmology and Astroparticle Physics, il cosmologo Karsten Jedamzik, della University of Montpellier, ha dimostrato come un’ampia quantità di buchi neri primordiali avesse dato origine a delle collisioni che invece si allineano perfettamente con le osservazioni di LIGO. I calcoli svolti da Jedamzik sembrano essere abbastanza precisi, e ciò potrebbe essere una dimostrazione che effettivamente questi buchi neri possano rappresentare la materia oscura.

L’idea originale dei buchi neri primordiali risale al 1970, sulla base di un lavoro condotto da Stephen Hawking e Bernard Carr. Secondo i due scienziati, nei primissimi istanti dell’universo, piccole fluttuazioni della densità avrebbero potuto dotare regioni, più o meno fortunate, di una massa eccessiva. Ognuna di queste regioni sarebbe potuta collassare in un buco nero. La dimensione del buco nero sarebbe collegata all’orizzonte della regione – quella zona attorno a ogni punto raggiungibile alla velocità della luce. Qualunque materia nei pressi dell’orizzonte risentirebbe della gravità del buco nero, cadendovi dentro. I calcoli approssimativi di Hawking dimostravano che se i buchi neri fossero più grandi di piccoli asteroidi, è plausibile che ancora oggi si trovino in giro per il cosmo.

Negli anni Novanta furono fatti altri progressi, quando è stata inoltre introdotta la teoria dell’inflazione, secondo la quale l’universo, subito dopo il Big Bang, avrebbe subito una forte esplosione. La teoria dell’inflazione potrebbe dare delle spiegazioni sulla provenienza delle fluttuazioni di densità iniziali.

Oltre a queste fluttuazioni di densità, i fisici hanno considerato anche una transizione particolare che avrebbe agevolato il collasso.

Nelle prime fasi dell’universo, tutta la sua materia e la sua energia ribollivano in un plasma incredibilmente caldo. Dopo i primi centimillesimi di secondo, l’universo si è leggermente raffreddato, in modo che i quark e i gluoni del plasma, una volta liberi, hanno iniziato a legarsi insieme per dare vita a particelle più pesanti. Il rapido legame di queste particelle ha avuto come conseguenza la diminuzione della pressione e per questo motivo molte regioni sarebbero collassate in buchi neri.

Ma negli anni 90 non vi era ancora una approfondita conoscenza della fisica di un fluido di quark e di gluoni, tale da fare delle previsioni precise su come questa transizione avrebbe potuto contribuire alla formazione dei buchi neri. I teorici, allora, non erano in grado di dire quali potessero essere le dimensioni di un buco nero primordiale, o il loro numero.

Inoltre, i cosmologi non sembravano aver bisogno di buchi neri primordiali. Le indagini astronomiche hanno scansionato intere zone di cielo, con la speranza di trovare un mare di oggetti densi e scuri, come buchi neri galleggianti nelle zone esterne della Via Lattea, ma non hanno avuto molto successo. E quindi, la maggior parte dei cosmologi si era fatta l’idea che la materia oscura fosse costituita da un particolare tipo di particelle, chiamate WIMPS (Weakly Interacting Massive Particles – Particelle pesanti debolmente interattive). E si sperava che i rilevatori WIMP, appositamente costruiti, o il Large Hadron Collider, in fase di costruzione, avrebbero potuto dare maggiore evidenza di queste particelle.

È noto che, da allora, non è mai stata trovata evidenza delle particelle WIMP, né di una qualunque nuova particella (eccetto il bosone di Higgs, che però era stato previsto molto tempo prima). La materia oscura rimaneva pertanto oscura.

Eppure oggi, abbiamo maggiori conoscenze sull’ambiente da cui si sarebbero potuti generare i buchi neri primordiali. I fisici oggi sono in grado di calcolare come si sarebbero evolute la pressione e la densità, dal plasma formato da gluoni e quark, all’inizio dell’universo. Con tutte le informazioni disponibili, i fisici teorici hanno impegnato anni dei loro studi per prevedere che l’universo primordiale avrebbe potuto generare una serie di buchi neri.

In un primo momento, quark e gluoni sono stati aggregati per formare protoni e neutroni. Ciò ha determinato una caduta di pressione, con conseguente probabile formazione di buchi neri primordiali. Man mano che l’universo si raffreddava, si sono venute a formare altre particelle, come i pioni, creando un ulteriore abbassamento di pressione e la possibile esplosione di un buco nero.

Tra queste due epoche, lo stesso spazio si è espanso. Dall’orizzonte che li circonda, i primi buchi neri avrebbero potuto aspirare del materiale equivalente ad almeno una massa solare. Nella seconda fase, invece, si sarebbero potuti depositare oggetti per un totale di 30 masse solari – come quelli visti per la prima volta da LIGO: ovvero, le onde gravitazionali.

Subito dopo l’annuncio sulle prime onde gravitazionali, rilevate da LIGO nel 2016, ha iniziato a riprendere vita l’ipotesi dei buchi neri primordiali. Ma l’anno successivo, sempre Ali-Haimoud, che nel frattempo non aveva mai abbandonato le ricerche su questa ipotesi, ha affermato che i buchi neri si sarebbero scontrati troppo spesso, creando un grosso ostacolo da superare per i sostenitori della teoria.

A questo punto, Jedamzik ha accettato la sfida e ha creato delle simulazioni numeriche del problema, che invece Ali-Haimoud aveva affrontato analiticamente, attraverso delle equazioni. E Jedamzik ha trovato una svolta.

I buchi neri primordiali formerebbero veramente delle coppie. Secondo Jedamzik, in un universo con innumerevoli buchi neri, un terzo buco nero potrebbe avvicinarsi alla coppia e scambiare il posto con uno dei due. Un processo, questo, che si ripete continuamente.

Nel tempo, questo continuo scambio di partner porterebbe i buchi neri binari ad avere delle orbite quasi circolari. Le collisioni tra questi buchi neri sarebbe molto lente. Anche in presenza di un’ampia popolazione di buchi neri primordiali, le fusioni avrebbero una frequenza così bassa che l’intera ipotesi sarebbe perfettamente compatibile con il tasso di fusione osservato da LIGO.

Nello sviluppare il suo studio, Jedamzik si è basato anche su un lavoro secondo il quale i buchi neri primordiali potessero stare in ammassi scuri il cui diametro è ampio quanto la distanza tra il Sole e la stella più vicina. Ciascuno di questi aggregati potrebbe contenere circa un migliaio di buchi neri, stipati insieme. Quelli con la massa 30 volta quella solare si trovano al centro del cluster; i buchi neri più piccoli invece vanno a occupare il resto dello spazio. Questi cluster si nascondono ovunque gli astronomi pensano ci sia materia oscura. Come le stelle in una galassia, o i pianeti che orbitano attorno al Sole, il moto orbitale di ogni buco nero evita di scontrarsi con un altro – eccetto durante le insolite fusioni.

Jedamzik ha successivamente calcolato quanto dovessero essere rare queste fusioni. I calcoli sono stati eseguiti sui grandi buchi neri osservati da LIGO, oltre che su quelli più piccoli, che non sono stati presi in considerazione dell’osservatorio (Buchi neri di piccole dimensioni producono dei segnali deboli, che necessitano di una distanza picccola per essere rilevati). E i risultati sono stati molto soddisfacenti.

Nonostante questi risultati, i sostenitori dell’ipotesi dei buchi neri primordiali devono ancora fare tanto per convincere il resto della comunità scientifica. La maggior parte dei fisici è ancora convinta che la materia oscura sia costituita da qualche tipo di particella elementare, che ancora risulta difficile da rilevare. Inoltre, i buchi neri rilevati da LIGO non differiscono tanto da quelli che sarebbero generati dalle stelle ordinarie. È come riempire una lacuna in una teoria che ancora non esiste. Vi sono cose che risultano ancora strane su alcune delle fonti LIGO, ma tutto ciò che è stato visto può essere spiegato attraverso il normale processo evolutivo delle stelle.

Se si riuscisse a trovare un solo buco nero con massa inferiore a quella del Sole – che, in accordo con lo scenario dei buchi neri primordiali, è possibile e non derivante da stella – ciò darebbe una scossa al dibattito. E con i successivi miglioramenti, LIGO ha aumentato la sua sensibilità, permettendo eventualmente di rilevare i piccoli buchi neri o di porre dei limiti su quanti ne possano esistere.

Nel frattempo, altri astrofisici stanno mettendo alla prova aspetti differenti della teoria. Per esempio, forse i vincoli più forti sui buchi neri primordiali provengono dalle ricerche sulle microlenti gravitazionali, iniziate negli anni 90. In questi esperimenti, gli astronomi controllano delle sorgenti luminose e lontane, in attesa di vedere se un oggetto scuro passa di fronte a loro. Queste ricerche hanno da tempo escluso una popolazione dispersa di piccoli buchi neri.

Ma se i buchi neri primordiali esistessero con diverse masse, e se fossero aggregati in cluster densi e massivi, quei risultati avrebbero meno significato di quello effettivamente dato dai ricercatori.

Le prossime osservazioni potrebbero risolvere anche questa questione. Recentemente la European Space Agency ha contribuito con la NASA allo sviluppo del Nancy Grace Roman Space Telescope, che dovrebbe permettere di implementare studi innovativi sulle microlenti gravitazionali.

Gunther Hasinger, direttore scientifico dell’ESA, è convinto che la teoria dei buchi neri primordiali possa spiegare molti misteri, perché non prende in considerazione nuove particelle o nuove teorie, e si rifà solo a vecchi paradigmi.

Secondo Hasinger, molti degli enigmi ancora irrisolti potranno trovare una spiegazione solo quando si deciderà di guardare il TUTTO con occhi diversi.

Fonte: Quanta Magazine