Sono ormai oltre settant’anni che astronomi e astrofisici cercano una risposta empirica alla domanda circa l’esistenza di vita intelligente nell’universo al di fuori della Terra.
Il primo a tentare di proporre una stima matematica fu Frank Drake, che propose l’equazione, poi battezzata con il suo nome in equazione di Drake ma è chiamata anche formula di Green Bank.
Questa equazione, o formula, tenta di stimare il numero di possibili civiltà aliene presenti nella Via Lattea capaci di inviare e ricevere segnali radio.
L’equazione venne presentata nel ’61 da Drake, che un anno prima aveva condotto la prima ricerca di segnali radio provenienti da civiltà extraterrestri presso il National Radio Astronomy Observatory di Green Bank, in Virginia Occidentale.
Il lavoro di Drake ricevette spietate critiche, non tanto sulla forma ma sulla sostanza della stessa equazione. Perché?
Vediamola per un attimo:
N = R * • fp • ne • fl • fi • fc • L
Dove:
N = Il numero di civiltà rilevabili nella nostra galassia. Questo è il numero che l’equazione cerca di determinare.
R * = La velocità adatta che le stelle hanno per lo sviluppo della vita intelligente e che si stanno formando.
fp = La frazione di quelle stelle che hanno sistemi solari.
ne = Il numero di pianeti in ciascuno di quei sistemi solari che potrebbero supportare la vita.
fl = La frazione di quei pianeti abitabili che contengono effettivamente vita.
fi = La frazione di quei pianeti viventi che in realtà hanno una vita intelligente.
fc = La frazione di civiltà intelligenti che sviluppano una tecnologia che rilascia segni visibili della loro esistenza nello spazio.
L = Il periodo di tempo durante il quale verrebbero effettivamente trasmessi segnali radio.
La critica, come si può capire, deriva dal fatto che molti dei termini di questa equazione vengono determinati non sulla base di reali osservazioni bensì attraverso congetture, pertanto se anche si può dare una qualche validità teorica alla formula, il risultato non riveste un grande valore pratico alla luce delle conoscenze attuali per cui una gran parte dei termini assume valori non suffragati da fatti.
Se in passato non si riteneva importante la ricerca degli esopianeti e molti sorridevano ai tentativi di scoprire la vita fuori dalla Terra e ricercare segnali radio provenienti da civiltà intelligenti, oggi le cose sono molto diverse.
La NASA, con telescopi spaziali come Kepler, Hubble, TESS, e il James Webb Space Telescope ha documentato l’esistenza di migliaia di esopianeti attorno a stelle lontane, tra questi alcuni potrebbero essere piccoli mondi rocciosi come la Terra e forse potrebbero avere le caratteristiche giuste per ospitare la vita, anche quella evoluta, intelligente e magari tecnologicamente avanzata.
Ma partiamo dalla ricerca della vita o perlomeno dalle tracce che potrebbero aiutarci a capire se essa è presente in qualche esopianeta. Al momento il telescopio spaziale più performante resta il JWST che completerà e amplierà le scoperte del telescopio spaziale Hubble osservando l’universo a lunghezze d’onda infrarosse. Il successore di Hubble dovrebbe permettere agli astronomi di capire se gli esopianeti rocciosi contengono ossigeno nelle loro atmosfere.
Sulla Terra la presenza di ossigeno nell’atmosfera è dovuta doprattutto alla fotosintesi, un processo metabolico attraverso il quale batteri e piante lo producono. Su eventuali esopianeti simili alla Terra, la presenza di ossigeno nelle loro atmosfere, rilevabile attraverso analisi spettroscopica, potrebbe essere una traccia lasciata da qualche tipo di forma vivente. In molti casi, però, la presenza di ossigeno potrebbe essere causata da processi abiotici, quindi dovremmo trovare il modo di distinguere le diverse tipologie.
Chiaramente, è ncessario selezionare i candidati migliori su cui focalizzare le ricerche, ma come farlo?
Serve un nuovo modo per trovare i candidati esopianeti migliori e a questo ha pensato un gruppo interdisciplinare di ricercatori, guidato dalla Arizona State University (ASU), con uno strumento chiamato “indice di rilevabilità” che può aiutare a stabilire quali esopianeti richiedono ulteriori studi. I dettagli del loro lavoro sono stati pubblicati sull’Astrophysical Journal della American Astronomical Society.
“L’obiettivo dell’indice è fornire agli scienziati uno strumento per selezionare gli obiettivi migliori per l’osservazione e per massimizzare le possibilità di rilevare la vita”, afferma l’autore principale Donald Glaser della School of Molecular Sciences dell’ASU.
Un criterio potrebbe essere stabilito nell’indice di rilevabilità dell’ossigeno, dove più alto è il suo valore maggiori dovrebbero essere le probabilità che questo gas venga prodotto da attività biologiche.
Il gruppo ha anche compiuto una scoperta che ha sorpreso, l’indice di rilevabilità si abbassa notevolmente per gli esopianeti non troppo diversi dalla Terra. Ad esempio, se la superficie della Terra è per il 70% ricoperta dall’acqua, gli stessi oceani sono lo 0,025% della massa terrestre. Questo dato confrontato con quello delle lune del sistema solare esterno vicine al 50% di ghiaccio d’acqua e ben poca cosa.
“È facile immaginare che in un altro sistema solare come il nostro, un pianeta simile alla Terra potrebbe essere composto dallo 0,2% di acqua”, afferma il co-autore Steven Desch dell’ASU School of Earth and Space Exploration. “E questo basterebbe a cambiare l’indice di rilevabilità. L’ossigeno non sarebbe indicativo della vita su tali pianeti, anche se fosse osservato. Questo perché un pianeta simile alla Terra con lo 0,2% di acqua, circa otto volte quello che ha la Terra, non avrebbero continenti o terre emerse”.
Senza terre emerse, la pioggia non corroderebbe le rocce e non rilascerebbe importanti nutrienti come il fosforo. La vita fotosintetica non potrebbe produrre ossigeno a velocità paragonabili ad altre fonti non biologiche. “L’indice di rilevabilità ci dice che non è sufficiente osservare l’ossigeno nell’atmosfera di un esopianeta. Dobbiamo anche osservare gli oceani e la terra”, afferma Desch. “Ciò cambia il modo in cui ci avviciniamo alla ricerca della vita sugli esopianeti. Ci aiuta a interpretare le osservazioni che abbiamo fatto sugli esopianeti. Ci aiuta a scegliere i migliori esopianeti target su cui cercare la vita. E ci aiuta a progettare la prossima generazione di telescopi spaziali in modo da ottenere tutte le informazioni necessarie per un’identificazione positiva della vita”.
L’indice di rilevabilità è il frutto di una ricerca multidisciplinare e la formazione del team che lo ha calcolato è stata facilitata dal programma Nexus for Exoplanetary System Science (NExSS) della NASA, che finanzia la ricerca interdisciplinare per sviluppare strategie per cercare la vita sugli esopianeti. Le loro discipline includono astrofisica teorica e osservazionale, geofisica, geochimica, astrobiologia, oceanografia ed ecologia. “Questo tipo di ricerca ha bisogno di team diversi, non possiamo farlo come singoli scienziati”, afferma il coautore Hilairy Hartnett, che tiene appuntamenti congiunti presso la School of Earth and Space Exploration e la School of Molecular Sciences dell’ASU.
Oltre all’autore principale Glaser ed i co-autori Harnett e Desch, il team comprende co-autori Cayman Unterborn, Ariel Anbar, Steffen Buessecker, Theresa Fisher, Steven Glaser, Susanne Neuer, Camerian Millsaps, Joseph O’Rourke, Sara Imari Walker, e Mikhail Zolotov che rappresentano collettivamente la School of Molecular Sciences dell’ASU, la School of Earth and Space Exploration e la School of Life Sciences. Altri scienziati del team includono ricercatori dell’Università della California Riverside, della Johns Hopkins University e dell’Università di Porto (Portogallo). La squadra spera che l’indice di rilevabilità venga impiegato nella caccia della vita aliena.
“Il rilevamento della vita su un pianeta al di fuori del nostro sistema solare cambierebbe la nostra intera comprensione del nostro posto nell’universo”, afferma Glaser. “La NASA è profondamente impegnata nella ricerca della vita ed è nostra speranza che questo lavoro venga utilizzato per massimizzare la possibilità di rilevare la vita quando la cerchiamo”.
Probabilmente nei prossimi anni i nuovi telescopi riusciranno a rilevare l’ossigeno e altre sostanze adatte alla vita come la conosciamo. Grazie a questi strumenti gli astronomi riusciranno a stabilire se dietro queste molecole c’è la vita e magari con un ulteriore passo in avanti si potrà stabilire la presenza di molecole prodotte da una qualche forma di vita che, come la nostra, produce sostanze di origine indiscutibilmente artificiale.
Forse quel giorno non è lontano e allora potremo rispondere al paradosso di Fermi, la cui risposta per ora possiamo solo immaginarla e non sappiamo quale sarà, se la vita su altri pianeti possa essere andata oltre forme cellulari semplici organizzandosi in strutture complesse che si sono evolute sfociando poi nell’intelligenza oppure no. Potremmo essere gli unici esseri capaci di pensiero razionale in tutto l’universo ma, per ora, nessuno può dare una risposta definitiva a questo enigma.
Secondo alcuni ricercatori le probabilità che esista vita intelligente, o anche solo elementare, sono troppo basse perché possa essersi sviluppata più di una volta in tutto l’universo, altri ritengono che possa esistere in settori dell’universo che non possiamo raggiungere.
Ci sono tuttavia degli scienziati che ritengono possibile l’esistenza di forme di vita simile alla nostra nella nostra galassia.
Perché non ne vediamo segno? Perché non abbiamo captato almeno un segnale tra i miliardi di stelle studiate?
Forse che tutte le specie, come ha teorizzato lo scrittore di fantascienza cinese Liu Cixin seguono due regole, la sopravvivenza e l’espansione?
La nostra specie oggi attraversa un momento cruciale tra tensioni politiche, guerre in corso o minacciate e la sfida dei cambiamenti climatici innescati dal riscaldamento globale e deve anche fare i conti con il consumo di risorse non rinnovabili, tutte cosa che presto potrebbero mettere la parola fine alla nostra capacità di rimanere una civiltà tecnologica.
Insomma, potrebbero esistere forme di vita intelligente non ancora arrivate alla tecnologia della radio, altre potrebbero essersi già estinte. Solo il tempo ci darà queste risposte.
Fonte: The Astrophysical Journal (2020). DOI: 10.3847/1538-4357/ab822d
