Il virus dell’Apocalisse

Non è Covid19 la pandemia apocalittica che molti virologi ed epidemiologi si aspettano entro pochi anni. Il pericolo viene dal cielo?

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The “Big One” è la definizione giornalistica che negli Stati Uniti è stata attribuita ad un probabile terremoto catastrofico destinato a colpire prima o poi la faglia di Sant’Andrea, in California, con conseguenze devastanti.

Lo stesso attributo, meno noto mediaticamente, è stato assegnato da virologi ed epidemiologi ad una possibile pandemia, altamente letale, che falcerebbe duramente la popolazione del pianeta.

Non stiamo parlando, fortunatamente, di Covid19 la cui letalità, per altro concentrata tra le persone più anziane, non raggiunge quei livelli che gli “meriterebbero” la definizione di Big One. Quando si prospetta un simile scenario gli esperti indicano in un virus influenzale il principale candidato.

In questi mesi, più volte i media hanno ricordato il vero e proprio cataclisma sanitario e sociale causato dalla pandemia di spagnola nel 1918 che fece circa 50 milioni di morti in tutto il mondo. Ogni anno la comune influenza soltanto in Italia provoca circa 8.000 decessi a causa delle sue complicazioni ed almeno 36.000 morti nei soli Stati Uniti.

E’ una malattia molto pericolosa che colpisce centinaia di milioni di persone in tutto il mondo e che potrebbe provocare, a certe condizioni, una vera e propria apocalisse.



L’influenza è causata da tre tipi di virus il più preoccupante e diffuso dei quali è contrassegnato con la lettera A. I virus di tipo A hanno alcune caratteristiche comuni: sono virus a RNA con un solo filamento divisi in otto segmenti diversi che servono da stampo per undici proteine.

In altri termini, hanno otto pezzi “discreti” di RNA che trasportano undici diverse molecole che costituiscono la struttura portante ed i meccanismi di funzionamento del virus.

La loro forma precisa serve alla sottoclassificazione dell’influenza di tipo A: H5N1, H5N2 e così via. La sigla H5N1 sta per un virus che ha un’emoagglutinina di tipo 5 e neuraminidasi di tipo 1. L’emoagglutinina  è una glicoproteina antigenica presente sulla superficie di alcuni virus, come appunto quello dell’Influenza, ed è responsabile, insieme alla neuraminidasi, dell’adesione del virus alla cellula destinata ad essere infettata.

Durante la pandemia di influenza denominata spagnola, nel biennio 1918-19 nessuno conosceva le cause della malattia e la virologia stava muovendo i primissimi passi. Il virus della spagnola, che era una variante del virus H1N1, fu identificato con sicurezza soltanto nel 2005!

Nel frattempo l’umanità è stata colpita da altre pandemie influenzali, quella del 1957 che causò 2 milioni di vittime, quella del 1969, detta di “Hong Kong” dal luogo di origine che di vittime nel pianeta ne fece circa 1 milione e più recentemente quella del 2009, detta la “suina” che si stima abbia provocato oltre 400.000 decessi in tutto il mondo. L’influenza è una malattia che non colpisce soltanto l’uomo ma imperversa anche tra gli animali: maiali, cavalli, gatti, furetti, anatre e polli.

Ma da dove provengono questi patogeni? Si tratta di una zoonosi, ovvero di una malattia degli animali che si trasmette agli uomini?

I primi indizi in tal senso furono raccolti già nel 1961, quando in un gruppo di uccelli marini morti in Sud Africa furono trovate tracce del virus. E’ stato grazie agli studi di Robert Webster (classe 1932), uno dei maggiori esperti mondiali di influenza, che è stata fatta un bel po’ di luce su questo virus. Il suo lavoro ha fatto chiarezza sull’alta capacità di mutazione di questo virus che obbliga ognuno di noi a doversi vaccinare ogni anno per ottenere una protezione efficace.

Inoltre prima che Webster e i suoi colleghi separassero il virus dell’influenza in diverse particelle, l’intero virus dell’influenza veniva iniettato in un paziente come vaccino – ora, solo alcune parti del virus sono necessarie per creare la stessa risposta, riducendo gli effetti collaterali del vaccino.

Ogni sottotipo del virus ha affinità con specie diverse, ad esempio H7N7 vive bene dentro i cavalli, gli uccelli trovati morti in Sud Africa nel 1961 erano infetti di H5N3. Soltanto i virus con emoagglutinina H1,H2,H3 provocano epidemie tra gli esseri umani.

Nei maiali i virus trovano condizioni intermedie tra quelle dei volatili e quelle umane, pertanto questi animali si infettano con entrambi i ceppi. Sembra accertato che gli uccelli acquatici selvatici siano stati l’origine di tutte le influenze, nondimeno ci sono sottotipi come H5 e H7 che ogni tanto tentano, per adesso fortunatamente con scarso successo, di aggredire gli esseri umani. Infettano gli esseri umani ma non hanno ancora acquisito la capacità di passare con facilità da essere umano ad essere umano.

Nel 1997 un bambino di tre anni di Hong Kong morì di influenza. In un tampone tracheale fu trovata traccia di un virus che successivamente fu identificato come un H5, un sottotipo aviario. Si trattava del primo caso documentato di un’infezione aviaria. Webster volò ad Hong Kong dove per la fine di quell’anno i casi di influenza aviaria salirono a 18, il 33% dei quali mortali. Il sottotipo aviario era molto virulento.

Webster, aiutato da una serie di colleghi che avevano studiato con lui, alla fine scoprì che il virus era presente nei mercati umidi di Hong Kong dove si vendevano uccelli vivi. Anche se le autorità ordinarono l’abbattimento di tutte le specie di uccelli domestici, circa 1,5 milioni di esemplari, il virus continuò a circolare nelle anatre domestiche di alcune province cinesi.

Queste anatre erano tutte asintomatiche e, quando i ragazzini (in genere erano loro incaricati di questo compito) al termine di una giornata di pascolo, riportavano le anatre nei pollai queste infettavano le galline che si ammalavano come spesso accadeva a chi le accudiva abitualmente.

Sei anni dopo la prima epidemia H5N1 tornò alla carica infettò una famiglia di tre persone e ne uccise due, si era però in piena epidemia SARS e non fu semplice identificare la differente causa. L’epidemia di aviaria sulle ali degli uccelli si sparse per tutto il Sud Est asiatico ed anche a centinaia di chilometri di distanza dalle coste.

Probabilmente le oche che nidificano nel Tibet hanno portato il virus ad ovest fin nel cuore dell’Europa. Nel 2006 è certamente arrivato in Egitto dove ha infettato gran parte degli animali e provocato negli anni alcune decine di vittime tra gli esseri umani.

L’infezione ha interessato soggetti a stretto rapporto con il pollame vivo e in scarsissime condizioni igieniche. In qualche caso c’è stato contagio interumano che però non si è esteso oltre una prima generazione di contatti.

Seppure sporadica la malattia si è presentata con una mortalità elevata (più del 50%) come mai si era verificato per alcun virus aviario noto.

Per tali motivi l’OMS e i maggiori virologi ed epidemiologi mondiali ritengono H5N1, nel caso dovesse acquisire la capacità di replicarsi efficacemente negli umani, il miglior candidato  per una eventuale nuova pandemia influenzale, particolarmente letale, entro i prossimi 5-10 anni.

Robert Webster ha dichiarato che se il virus sarà capace di migliorare la trasmissibilità tra uomo e uomo, attualmente piuttosto inefficace, allora l’umanità si troverà davvero davanti ad un pericolo che fa impallidire l’attuale pandemia di Covid19.

Sarà una forma di influenza aviaria l’Apocalisse prossima ventura?

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