Eterna giovinezza: trasfusioni di sangue giovane e litio funzionano veramente?

Negli Stati Uniti spopola la tendenza di sottoporsi a trasfusioni di sangue da soggetti in età puberale per ringiovanire. Funziona veramente?

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Nel 2016 provocò un certo interesse la tendenza, negli Stati Uniti, di procurarsi plasma estratto dal tessuto sanguigno di soggetti adolescenti per garantire l’elisir di eterna giovinezza a chi giovane non lo era più.

Noi stessi, nel 2017, ci occupammo del fenomeno, evidenziando come persone anziane abbastanza abbienti, che soprannominammo “vampiri moderni” avevano preso l’abitudine di farsi fare periodiche, e costose, trasfusioni di sangue di adolescenti nell’illusione di poter in questo modo ringiovanire e vivere più a lungo.

Il falso mito che il sangue di donatori molto giovani possa procurare benefici a ricevitori anziani, nacque da una pessima interpretazione degli studi sulla parabiosi condotti dallo uno scienziato francese Paul Bert.

Successivamente ci si è spinti oltre: il plasma proveniente da soggetti in età puberale prometteva non solo di combattere l’invecchiamento, ma anche una serie di patologie annesse quali la perdita di memoria, la demenza, il morbo di Parkinson, la sclerosi multipla e le malattie cardiache.

Inutile dire che qualche mese fa questa nuova tendenza è stata smentita poiché non esistono evidenze scientifiche né nessuno studio è stato pubblicato in riviste del settore.



Irina e Michael Convoy, scienziati della University of California at Berkeley si sono dedicati a lungo e seriamente allo studio degli effetti del plasma sul ringiovanimento e hanno dichiarato che: “esiste un’alta probabilità che facciano male all’organismo: nella comunità scientifica è ben noto – e questo è il motivo per cui non facciamo trasfusioni se non è indispensabile – che nella metà dei pazienti si registrano effetti collaterali. Se vieni trasfuso con il sangue di qualcun altro e non c’è compatibilità si può avere una forte reazione immunitaria.

ll sangue vecchio sembra avere qualche effetto negativo, ma quello giovane non sembra capace di evitare l’invecchiamento. Dopotutto, il rapporto tra sangue originale e sangue trasfuso è troppo alto perché quest’ultimo abbia effetto. Finché qualcuno non lo dimostrerà oltre ogni ragionevole dubbio io non ci crederò” Ha concluso Michael Convoy.

Il mito dell’eterna giovinezza: cos’è la parabiosi

Ben 150 anni fa, il fisiologo francese Paul Bert si addentrò in esperimenti abbastanza arditi: prese due topi e rimosse porzioni di pelle dal corpo di entrambi e unì le cavie tramite sutura proprio nel punto in cui li aveva privati del derma; in un arco di tempo ristretto i vasi sanguigni dei roditori si erano uniti. Bert, per verificare che il sangue scorresse tra i due corpi iniettò dei marcatori liquidi ad uno degli animali e riuscì a verificare che questi scorrevano anche nei vasi sanguigni dell’altro. Per questo esperimento, lo scienziato francese ricevette il premio della Accademia delle Scienze di Parigi.

Questo fenomeno prese il nome di parabiosi e gli effetti sull’invecchiamento furono verificati più tardi, nel 1956. Utilizzando la stessa procedura del fisiologo francese, il biochimico e gerontologo Clive McCay della Cornell University di New York, unì due topi: uno giovane (2-3 mesi) con uno più anziano (19 mesi): i ratti rimasero uniti per diversi mesi e quello più anziano ebbe il beneficio di un miglioramento della densità ossea.

Naturalmente ci furono dei risvolti negativi, legati alla scarsa sensibilità alle esigenze dei poveri topi: non essendo animali abituati ad avere un contatto così stretto, alcune coppie si mordevano sino a procurarsi la morte. Non solo ma ben 11 delle 69 coppie di roditori svilupparono la c.d. malattia parabiotica, causata probabilmente da una reazione violenta del sistema immunitario.

Nel 2005 un gruppo di ricerca guidato da Thomas Rando, allora assistente professore presso la Stanford University School of Medicine, continuò sulla strada della probiosi, concentrandosi in modo particolare sull’effetto che questa pratica aveva sui muscoli dei roditori. Il team di Rando unì due topi di età diversa per un periodo di sei-sette mesi.

Trascorse cinque settimane, gli scienziati danneggiarono volontariamente i muscoli della zampa posteriore di entrambi i roditori rilevando che cinque giorni dopo, le ferite inferte all’esemplare più anziano erano guarite in egual misura rispetto a quelle causate sui tessuti del più giovane, poiché  le cellule staminali dei soggetti più vecchi erano state stimolate. Lo stesso esperimento, ripetuto con coppie di topi della stessa età, dimostrò che, invece, entrambi i topi faticavano a guarire.

Il mito dell’eterna giovinezza: il litio

Gli studi scientifici basati sulla somministrazione di litio hanno evidenziato risultati interessanti: somministrando la sostanza a dosi contenute, l’aspettativa di vita aumenterebbe del 16%. “La conoscenza di questo meccanismo potrebbe anche rivelare il segreto per contrastare l’insorgenza di malattie legate all’età: Alzheimer, diabete, cancro e Parkinson” ha spiegato Jorge Ivan Castillo-Quan, autore principale dello studio pubblicato su Cell Reports.

Il litio oltre a inibire la  proteina dell’invecchiamento Gsk-3, stimolerebbe una seconda molecola ,la Nrf2, che ha il compito di prevenire e difendere i danni cellulari. La ricerca si è sviluppata analizzando la reazione degli insetti alla cura e dopo di essi si dovrebbe procedere a continuare gli esperimenti su animali più complessi e di maggiori dimensioni, come topi e conigli, infine si passerà alla sperimentazione umana.

Il mito dell’eterna giovinezza: perché non si vuole invecchiare?

Dalla mitologia greca con Selene, la Dea della luna, che si innamorò del mortale  Endimione, tanto da chiedere a Zeus di concedere al giovane il privilegio di  un’eterna giovinezza pur di non rinunciare al suo amore, alla letteratura decadente con Dorian Gray che grazie ad un patto col diavolo, vede invecchiare un suo ritratto al suo posto, il desiderio di essere esternamente giovani è un sentimento che accomuna molti e che paradossalmente, non viene incrinato dallo scorrere del tempo.

Che sia la paura della malattia, con tutte le sofferenze annesse, o una visione distorta della vecchiaia, complice anche una società diventata poco accogliente verso l’anziano, a vantaggio di corpi agili, scattanti e performanti e perché no, anche attraenti, il desiderio di rimanere sempre giovani è difficile da scardinare.

Nel De Senectute, Cicerone diceva che “Nessuno è tanto vecchio da non sperare di vivere ancora un giorno né alcuno tanto giovane da essere sicuro di vivere ancora un giorno”.

La Professoressa Maria Paola Graziani, psicologa e psicoterapeuta, ricercatore del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR), ha spiegato la differenza della paura di invecchiare nell’uomo e nella donna: “Occorre distinguere non solo fra uomo/donna, ma anche fra la “prima vecchiaia” o della terza età, e la “grande vecchiaia” o della 4 età (oltre gli 80anni +/-). Esordisce la studiosa.

L’allungamento della vita, recentemente apparso nella società dei consumi, è uno dei fattori che ha influito a rendere precoce questo così detto stato di “paura della vecchiaia”, già molto prima della terza età. Come sempre nei fatti della vita, non si può generalizzare, ma per sommi capi si può dire che la paura è sempre un effetto che consegue “fatti” “eventi” “emozioni”, in genere imprevisti e che, comunque, ci appaiono devastanti.
L’invecchiare invece, se il termine di vita non si presenta in età “giovane”, non solo è prevedibile, ma è anche un fenomeno naturale e inevitabile e, essendo ampiamente conosciuta e prevedibile, dovrebbe convivere con la vita, non destare paura“. Spiega Graziani

Collettivamentechiarisce la psicologa per molti secoli è andata così, nel senso che la paura della vecchiaia era inserita in un certo range di accettazione sociale e si presentava, in base a stili di vita e salute, più o meno, per tutti, ad un certo stadio della vita abbastanza omogeneo. Nel nostro secolo invece, l’evento è stato riconsiderato. Le cause? Fra le molte, una diversa cultura dei valori e disvalori della vecchiaia, una diversa attribuzione a fattori come l’identità fisica, sociale e relazionale più rappresentata dalla capacità di consumare beni superflui, con attribuzioni di importanza, più che per il loro valore d’uso, per le emozioni che possono suscitare”.

Un ruolo fondamentale è stato svolto anche dal progresso sia in campo medico che tecnologico: “Nel secolo post 900, il pensiero sociale collettivo, per via delle scoperte tecnologiche, ha visto diminuire la fatica fisica del lavoro, sia con l’introduzione di macchine, sia con l’impiego di mezzi di trasporto, di conservazione e preparazione degli alimenti ecc., donando più tempo alle persone. Queste, hanno cominciato ad impiegarlo più per se stesse che per gli altri. Col passare degli anni, i modificati stili di vita e alimentari, il maggiore benessere economico e della salute, hanno influito su alcuni fattori sociali che hanno privilegiato e messo al centro delle aspettative, l’affermazione di sé attraverso la capacità di produrre. A tutto ciò ha fatto eco il successo, il danaro e il possesso delle cose, come forma di identità accessoria e, in alcuni casi, anche sostitutiva“. Continua Maria Paola Graziani.

In buona sostanza non invecchiare significa erroneamente essere ancora riconosciuti, avere un valore come essere umano, dare un contributo, essere produttivi. Poco importa se c’è un prezzo da pagare, se viviamo in un mondo sovrappopolato con risorse limitate.

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