Anche se la foresta amazzonica è un concentrato di vita ancora sensazionale, bisogna precisare come circa il 18% di essa è stato abbattuto a partire dagli anni ’70. Per poter riportare la foresta agli antichi splendori i ricercatori si sono rivolti a un terreno ricco creato dalle attività degli amerindi circa 2000 anni fa.
All’epoca gli amerindi vivevano ancora in quel territorio conosciuto oggi come Amazzonia, creando inavvertitamente un suolo incredibilmente ricco. Il territorio in questione è conosciuto come ADE (Amazonian dark earth) o terra preta. Il suolo, che potrebbe contribuire alla salvezza della foresta amazzonica si è formato come il carbone dei falò combinato con altri frammenti della vita quotidiana, ad esempio letame, resti di animali e pezzi di ceramica rotti.
Il suolo che potrebbe salvare la foresta amazzonica
Non solo il suolo della foresta amazzonica contiene questi antichi componenti della vita umana, ma si è scoperto che ospita anche un ricco microbioma. Curiosi di sapere se l’ADE potrebbe aiutare a ripristinare alcune delle ricche foreste pluviali dell’Amazzonia, i ricercatori dell’Università di San Paolo in Brasile hanno intrapreso una simulazione. Hanno riempito i contenitori con tre diversi tipi di terreno: come controllo, hanno utilizzato il terreno prelevato da aree coltivate dell’Amazzonia, quindi hanno creato una miscela dei terreni coltivati con il 20% di ADE in un contenitore e hanno messo ADE puro al 100% in un altro.
Successivamente, hanno seminato l’erba in ciascuno dei contenitori. Una volta che l’erba ha raggiunto la maturità, l’hanno tagliata, lasciando le radici al loro posto, e hanno piantato una varietà di alberi nei contenitori. Questo processo ha simulato ciò che accadrebbe naturalmente quando il terreno coltivato viene lasciato incustodito e si converte prima in prateria e poi in foresta.
I ricercatori hanno scoperto che dopo che gli alberi erano cresciuti per 90 giorni, tutti i suoli avevano meno nutrienti perché erano stati assorbiti dalle piante, ma i suoli di ADE ne conservavano di più rispetto al suolo di controllo. Entrambi i suoli di ADE avevano anche una maggiore biodiversità di batteri e altri microbi rispetto al controllo.
I microrganismi contenuti da ADE
L’autore principale congiunto Anderson Santos de Freitas, ha spiegato in un’intervista rilasciata al sitp New Atlas: “I microbi trasformano le particelle chimiche del suolo in sostanze nutritive che possono essere assorbite dalle piante. I nostri dati hanno mostrato che ADE contiene microrganismi che sono migliori in questa trasformazione dei suoli, fornendo così più risorse per lo sviluppo delle piante. Ad esempio, i suoli ADE contenevano taxa (raggruppamento di oggetti o organismi nda) più benefici delle famiglie batteriche Paenibacillaceae, Planococcaceae, Micromonosporaceae e Hyphomicroblaceae”.
La miscela di ADE
La cosa più impressionante è il fatto che quando coltivata in questo terreno ricco di microbi, la massa secca raccolta dell’erba era 3,4 volte maggiore nella miscela ADE al 20% e ben 8,1 volte maggiore nel terreno ADE al 100%. Anche gli alberi se la sono cavata meglio. La miscela al 20% ha prodotto alberi che sono cresciuti 2,1 e 5,2 volte più alti per specie rispetto al terreno di controllo, e ben 6,3 volte più alti nel terreno 100% ADE.
Il team di ricerca mette in guardia dall’usare l’ADE effettivo nelle strategie di rimboschimento della foresta amazzonica, ma afferma che la creazione di un suolo ricco degli stessi microbi trovati nell’ADE potrebbe produrre più o meno gli stessi effetti, contribuendo così a incoraggiare i terreni coltivati impoveriti per far crescere nuove foreste.
Ha impiegato migliaia di anni per accumularsi
“ADE ha impiegato migliaia di anni per accumularsi e impiegherebbe lo stesso tempo per rigenerarsi in natura se utilizzato”, ha affermato l’autore senior dello studio Siu Mui Tsai. “Le nostre raccomandazioni non sono di utilizzare l’ADE stesso, ma piuttosto di copiare le sue caratteristiche, in particolare i suoi microrganismi, per l’uso in futuri progetti di ripristino ecologico”.
La ricerca è stata pubblicata sulla rivista Frontiers in Soil Science.