L’otto agosto 1953 un feroce delitto scuote il paesino di Entrèves, in Val d’Aosta; sul greto del fiume Dora, in località Val Veni, viene trovato il cadavere di una ragazza barbaramente uccisa a coltellate.
Si tratta di Angela Cavallero, giovane torinese di 24 anni, che giace su di un fianco, il capo appoggiato al braccio sinistro, con indosso soltanto la camicetta lacerata dalle coltellate e nient’altro: i suoi indumenti, anche quelli intimi, sono ordinatamente piegati ad una decina di metri. Dal braccio della giovane mancano l’orologio ed un braccialettino d’oro, ma si tratta di due oggetti di scarso valore che non giustificherebbero un’aggressione così violenta.
Si pensa piuttosto ad un tentativo di violenza finito in tragedia, ma l’autopsia rivela che la ragazza è ancora vergine.
Angela è arrivata ad Entrèves da qualche settimana, con un gruppo di amici che, ogni anno, affittano la vecchia casa della signora Bocca nel centro del paese per trascorrervi le vacanze dividendo le spese, in un’atmosfera cameratesca e spartana: si dorme su delle brande, l’unico divertimento è ballare, la sera, al suono della fisarmonica. Gli amici, interrogati dalla polizia, non sanno o non vogliono dire gran che: era una brava ragazza, seria, riservata, niente di più, amante della montagna; desiderava tornare a Torino abbronzata e quindi si recava ogni giorno in riva al fiume a prendere il sole.
Le indagini si spostano a Torino, ma non hanno risultati: la famiglia consegna alla polizia il diario di Angela, nel quale, però non c’è niente di utile.
L’impressione è quindi che il colpevole vada cercato tra gli amici di Entrèves, e il cerchio si stringe attorno ad una ragazza di 26 anni: Jolanda Bergamo.
Jolanda è un’estranea in quel gruppo di vecchi amici: è una giovane veneta che nel 1950 è entrata al servizio di una famiglia aristocratica romana, venendo in seguito sedotta e resa madre dal loro figlio maggiore, Enrico. Messo il bambino in un istituto, Jolanda ha trovato un altro posto di lavoro, ma continua a vedersi col giovane, il quale, invitato da un amico torinese che fa parte della compagnia, la porta con sé a Entrèves per le vacanze, e il caso vuole che la sua vicina di “branda” sia proprio Angela Cavallero.
Jolanda non si trova bene all’accantonamento, come viene chiamata la casa della signora Bocca: tutti si frequentano da parecchi anni, mentre lei non conosce nessuno, ai balli serali lei, piccola, non bella e per di più un po’ zoppa, viene lasciata a fare da tappezzeria, mentre le altre ragazze ballano tutta la sera.
Durante l’interrogatorio cui tutti sono sottoposti il 9 agosto, Jolanda afferma che Angela era la sua migliore amica, mentre un giovane del gruppo dice di averla vista fare scenate di gelosia ad Enrico ogni volta che questi ballava con lei: la polizia decide quindi di interrogarla nuovamente e la ragazza, che aveva lasciato Entrèves già dal 10 agosto, viene rintracciata a Noventa di Piave, in casa dei genitori, e fermata.
Interrogata, dirà che con Angela “si conoscevano appena”, una contraddizione che sembra confermare il teorema accusatorio: Jolanda, gelosa delle attenzioni che Enrico rivolgeva ad Angela si sarebbe assentata da casa per raggiungerla in riva al fiume ed ucciderla a coltellate. Questa tesi sembra confermata dal fatto che nessuno degli ospiti della signora Bocca ricorda di averla notata in casa all’ora del delitto, ed uno anzi asserisce di averla vista rientrare proprio alle 13.
Jolanda, dal canto suo, giura di non essersi mai mossa dal terrazzo dove il Gribaudo, un altro ospite, suonava la fisarmonica, ma questa affermazione contrasta con la deposizione del figlio della padrona di casa, il quale si trovava proprio lì ed assicura che la ragazza, sul terrazzo, non c’era.
Un confronto tra Jolanda ed Enrico sembra aggravare la posizione della ragazza: il giovane riferisce che Jolanda era morbosamente gelosa e lo aveva minacciato, in caso di abbandono, di ucciderlo.
Trovata la colpevole quindi? Sembrerebbe di sì, anche se ci sono dei punti ancora da chiarire: come avrebbe fatto Jolanda, piccola ed esile com’era, a sopraffare la ben più forte e robusta Angela? Dove si era procurato il coltello?
Inoltre la ragazza non confessa malgrado tutti gli interrogatori, ed anzi continua disperatamente a protestarsi innocente.
Mentre le indagini registrano un punto di arresto, un orefice di Aosta vede sul giornale le fotografie dei monili scomparsi e crede di riconoscere un orologio che, qualche tempo prima, gli è stato portato in negozio perché gli cambiasse il cinturino.
L’uomo che glielo ha portato è un giovane di ventisei anni, dallo strano nome di Nadir Chiabodo, di professione imbianchino, con un passato avventuroso alle spalle: ha passato 5 anni nella Legione Straniera, combattendo in Indocina e raggiungendo il grado di sergente. Rimpatriato nel 1950 ha commesso qualche piccolo reato, poi nel 1952 ha sposato una giovane francese, Nicole Pouly, e da una quindicina di giorni si trova a Palermo dove sta svolgendo il servizio militare non avendo ancora adempiuto agli obblighi di leva.
Una perquisizione in casa Chiabodo fa subito trovare l’orologio e il braccialetto di Angela; Chiabodo viene prelevato dalla caserma e subito condotto ad Aosta dove il capitano dei carabinieri De Luca, che conduce le indagini, gli mette subito davanti i due monili.
Il giovane non si scompone: “Li ho trovati”, dice, precisando il giorno, 19 agosto, e la località, sotto un ponticello a pochi chilometri da Entrèves, a Villair. Gli viene obiettato che a Villair non ci sono ponticelli e lui si stringe semplicemente nelle spalle, gli viene chiesto perché abbia fatto cambiare il cinturino e lui risponde che la pioggia e le intemperie lo avevano corroso.
Nadir Chiabodo è, dunque, un “duro”. Dopo una giornata intera di interrogatori continua a resistere agli attacchi del capitano De Luca, finché un’osservazione fatta in tono casuale, “Bel gusto regalare un orologio guasto a tua moglie!” provoca la sua risposta seccata: “Ma l’orologio funzionava perfettamente!” Subito dopo il Chiabodo si rende conto della contraddizione in cui era caduto; come avrebbero potuto le intemperie consumare il cinturino dell’orologio in modo tale da renderlo inutilizzabile senza peraltro guastare i congegni della macchina?
Ci sono altri capi d’accusa contro Nadir Chiabodo: nelle tasche della sua tuta di lavoro era stato trovato un fazzoletto sporco di sangue, forse utilizzato per pulire l’arma del delitto. In attesa che i periti stabiliscano se si trattava di sangue umano, erano state notate macchie verdastre, che facevano pensare ad un coltello già ripulito sommariamente con l’erba del prato.
Ma nemmeno a questa constatazione l’uomo aveva dato segni di turbamento, e del resto si trattava soltanto di indizi: il sangue poteva essere suo, i monili potevano essere stati effettivamente trovati oppure addirittura tolti dal cadavere di Angela, in fondo uno che era stato 5 anni nella Legione Straniera e partecipato alla guerra d’Indocina aveva sicuramente il coraggio di fare una cosa simile.
Manca dunque la prova decisiva, o la confessione.
Ed è proprio quest’ultima ad arrivare, dopo un confronto di Chiabodo con la moglie. La povera ragazza, interrogata, dice: “Sono sicura che è innocente. In ogni caso, io non lo lascerò mai… lo aspetterò” e di fronte a questa promessa Nadir Chiabodo capitola e rende una completa confessione.
Quella mattina dell’8 agosto Nadir era salito da Courmayeur verso il Monte Bianco. Il giorno precedente si era licenziato dal posto di imbianchino che aveva fino allora occupato. Aveva quattromila lire in tasca, alla cintura un pugnaletto ricordo della Legione ed una fionda: aveva inoltre dei foschi pensieri per la testa. Tra pochi giorni avrebbe dovuto abbandonare Aosta e recarsi a Palermo a fare il soldato.
Rimuginava seduto sul greto della Dora, quando vide ad una certa distanza Angela Cavallero uscire mezza nuda da una specie di nicchia naturale formata dai salici. La seguì dapprincipio con lo sguardo, incuriosito da quella bella ragazza che non sospettava di essere vista, quando le vide brillare al polso il famoso braccialetto d’oro.
Certo, quando l’ex legionario raggiunse la ragazza di sorpresa trascinandola nel cespuglio al riparo da sguardi indiscreti, non pensava di ucciderla. Pensava semplicemente di sottrarle, col minor trambusto possibile, il braccialetto che le aveva visto brillare al polso: se non che Angela si mise a gridare. “Allora”, dice Nadir, “la prima cosa che mi trovai tra le mani fu il pugnale: per farla tacere cominciai a colpire. Seppi il numero di colpi che avevo vibrato dalla lettura dei giornali”.
Quello che avvenne in seguito ha dell’incredibile.
Per poco, quello che fu definito il mistero dell’anno ed ebbe il potere di tenere col fiato sospeso migliaia di lettori, non fu scoperto a qualche ora di distanza dal momento in cui era stato commesso.
Sul pugnale (un secondo premio ottenuto per una gara di tiro) era inciso a chiare lettere il nome dell’assassino. Dopo avere ucciso e depredato la sua vittima, il Chiabodo si allontanò dimenticandosi questa specie di biglietto da visita accanto al cadavere. Se ne ricordò che era già lontano, sulla via del ritorno, ed ebbe tuttavia il tempo di rifare il cammino percorso, riprendersi l’arma e andarsene prima che qualcuno lo vedesse. In tal modo la strada per la nascita del mistero di Entrèves era aperta. Il caso, ma non solo il caso, vi aveva concorso.
Se il mistero di Entrèves, prima di giungere alla soluzione, dovette passare attraverso tutti quegli errori ai quali, in fondo, deve la sua celebrità, la ragione sta in un equivoco.
Dato l’abbigliamento succinto con cui fu trovata la vittima, nessuno poté risolversi ad ammettere che l’interesse dell’aggressore fosse rivolto soltanto a quegli oggetti che, messi insieme, valevano sì e no trentamila lire, una discreta cifra per l’epoca ma non certo sufficiente a rischiare l’ergastolo.
Equivoco comprensibile, nel quale per la prima cadde la stessa Angela Cavallero, che se avesse compreso quali erano le vere intenzioni del suo aggressore avrebbe probabilmente consegnato quanto aveva indosso.
La ragazza torinese morì, dunque, per errore.
Per questo ci volle tanto tempo per scoprire il suo assassino, il quale sarebbe rimasto impunito se avesse lasciato il suo bottino in una cavità della Porta Romana, ad Aosta, dove sin dal giorno seguente al delitto lo aveva nascosto.
Prima di partire per Palermo si recò invece a prelevare l’orologio e il braccialetto che furono notati dall’orologiaio. Se l’assassino, dunque, non fosse stato innamorato di sua moglie al punto da commettere l’imprudenza di regalarle quei due “corpi del reato”, il mistero di Entrèves avrebbe continuato ad angosciare la problematica della criminologia.
La supposizione esatta, che sin dal primo momento era stata avanzata, consisteva nel classico cherchez la femme.
Il che era vero: tutto stava nel capire chi fosse questa donna.