martedì, Marzo 4, 2025
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Flottillas, ebanis e credulità…

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Uno dei più grandi misteri dell’era moderna sono sicuramente gli UFO. Da decenni in ogni parte del mondo vengono avvistati dischi, sfere, sigari, triangoli o congegni dalle forme più bizzarre e tra di esse possiamo sicuramente inserire le “flottillas UFO e gli Ebanis o “UFO whorm”, misteri almeno a leggere quanto circola in rete nonostante le palesi e ingenue bufale che circolano.

Come quasi tutti gli argomenti ufologici, le flottillas e gli Ebanis sono quegli argomenti che non fanno altro che ridicolizzare ulteriormente l’ufologia. Certo, a dare retta ai cospirazionisti più incalliti sarebbero, flottillas e ebanis, ulteriori argomenti creati ad arte per distogliere l’attenzione, per confondere le acque e chi più ne ha più ne metta, in realtà sono argomenti che sicuramente attirano e hanno un potenziale economico, per chi ci specula con libri, conferenze e quant’altro, notevole.

Flottillas

Le flottillas nascono grazie a foto o riprese effettuate da grande distanza di ciò che resta nel cielo dopo il lancio di semplici palloncini gonfiati con l’elio e trascinati dal vento. Essenzialmente si tratta proprio di filmati di gruppi palloncini lanciati in aria in seguito ad un evento, che vengono spacciati per UFO. La bufala poi prende piede grazie ai tanti creduloni che acriticamente vedono in queste formazioni in balìa del vento movimenti intelligenti.

Come per tutte le cose, anche nel mondo dell’ufologia ci saranno sempre persone disposte a credere ciecamente a racconti ormai sbufalati o a video evidentemente falsificati, questo grazie alla sfiducia nei confronti della scienza e dei ricercatori seri che svelano le tante menzogne, scienziati spesso accusati di partecipare al grande insabbiamento delle verità che a loro fanno comodo.

I sogni e le illusioni, come sappiamo, sono duri a morire.

Gli ebanis o UFO whorm

Gli Ebanis sono in stretto collegamento con le flottillas UFO essendo nient’altro che palloncini uniti assieme in gruppi più o meno numerosi. Quando vengono lanciati in aria tendono ad assumere forme diverse, talvolta ondeggiando, oppure, se abbastanza lunghi, tendono ad attorcigliarsi, i loro movimenti dovuti al vento sono scambiati dagli ufofili più incalliti come movimenti intelligenti.

I “fenomeni” chiamati flottillas e ebanis, come detto, non sono altro che palloncini rilasciati in occasione di eventi o a scopo pubblicitario. L’ingegno umano non ha confini e questi semplici palloncini spesso sono spacciati dai tanti furbi in circolazione come ufo o come forme di vita aeree non identificate, su internet i video si sprecano e questi personaggi ci guadagnano sopra grazie ai click sui filmati e sulla pagine dove vengono mostrati.

Moon express sta per iniziare lo sfruttamento commerciale della Luna

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Moon Express ha grandi progetti per diventare la prima società privata a portare un veicolo sulla superficie lunare e a creare una stazione di allunaggio-decollo automatizzata nei prossimi tre anni.

La scorsa settimana, la startup con base a Cape Canaveral ha annunciato i suoi piani per stabilire un avamposto lunare per l’estrazione, la ricerca e da utilizzare come un porto per ulteriori esplorazioni nel sistema solare.

Moon Express intende avviare questa missione con l’ MX-1 Scout Class Explorer ,  la “navicella spaziale planetaria più economica mai costruita“, che è in fase di sviluppo. L’aspetto più interessante è che prevedono di effettuare il lancio verso la Luna entro il 2020.

Dopo lo sbarco del primo scout, seguiranno una serie di veicoli spaziali sempre più grandi  – MX-2 , MX-5 e  MX-9 – che, una volta allunati, dovrebbero essere in grado di essere assemblati in una struttura unica in grado di diventare operativa. insieme. Alla fine, un lander robotizzato diventerà espressione della prima impresa commerciale che riporterà con successo campioni di terreno lunare sulla Terra.

La società Moon Express è nata nel 2010 partecipando al premio Google Lunar X , una “gara” lanciata dal gigante di Mountain view che mettevano in palio 20 milioni di dollari per la prima società privata in grado di mandare sulla Luna un lander robotizzato, capace di spostarsi sulla superficie lunare per almeno 500 metri e inviare alcuni video ad alta definizione sulla terra. Le aziende impegnate devono far partire i propri progetti entro la fine del 2017. Sono finora cinque le società private che si sono impegnate a lanciare la loro navicella spaziale nella speranza di vincere il premio di 20 milioni di dollari: SpaceIL, Moon Express, Synergy Moon, TeamIndus e HAKUTO.

Secondo i dirigenti di Moon Express, la Luna è “l’8° Continente della Terra” ed è maturo per la raccolta. L’aspetto minerario della Luna è centrale nella loro visione dal momento che  le rocce ed ii suolo della superficie lunare sono ricchi di materie prime utili, ma pesanti (e quindi costose da lanciare dalla Terra) come il magnesio, l’alluminio, il silicio, il ferro e il titanio. Gran parte di queste riserve intatte sono anche relativamente accessibili in quanto sono vicine alla superficie.

Attraverso la commercializzazione dello spazio con navicelle economiche e riutilizzabili, Moon Express ritiene di avere la chiave per rendere lo spazio accessibile a tutti.

“Ecco dove è il mio cuore, nell’esplorazione del sistema solare su larga scala, aperta a tutti i competitors per renderla più veloce e conveniente ed accrescere le nostre conoscenze attraverso nuove scoperte per creare nuove occasioni, economiche e sociali. Non qualcosa di limitato a pochi, costosi viaggi sponsorizzati da re e governi la conoscenza e la scoperta, non solo alcuni viaggi costosi sponsorizzati da re e governi. La storia dell’umanità ci insegna che le grandi esplorazioni, prima fatte da pochi poi da sempre più uomini e imprese, sono sempre state il punto di partenza per costruire qualcosa di grande”, È quanto affermato a Space.com da Bob Richards, co-fondatore e CEO di Moon Express “Abbiamo bisogno di allargare i nostri orizzonti e aprire lo spazio a tutti”.

Combustione umana spontanea

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di Oliver Melis per Aenigma

Circola da anni una “leggenda” che racconta di uomini e donne che spontaneamente e senza ragione apparente prendono fuoco, un fenomeno noto come “autocombustione spontanea umana

L’autocombustione spontanea umana avverrebbe a causa di reazioni cellulari e senza fonti esterne che la inneschino.

Il primo caso di combustione umana spontanea risalirebbe addirittura al XV secolo e sarebbe accaduto in Italia. La storia racconta che un cavaliere di Milano, Polonius Vorstius prese fuoco dopo aver bevuto un bicchiere di vino. Era il 1470 e la vicenda fu raccontata quasi 200 anni dopo dal medico e matematico danese Thomas Bartholin. Altro caso di combustione spontanea che ci raccontano gli annali è quello occorso alla Contessa Cornelia Di Bandi, nel 1731 a Cesena. La Contessa venne trovata con la testa, le dita e le gambe carbonizzate, il resto del corpo non presentava segni di bruciature e la camera non fu coinvolta nell’incendio.

Nel 1967 un viglile del fuoco raccontò di aver visto un barbone bruciare spontaneamente dopo aver emesso una fiammata azzurra dal ventre e in Florida una donna venne trovata carbonizzata in salotto; con lei bruciarono una pila di giornali e una parte della moquette dove si trovava il corpo, il resto della stanza non fu, invece, coinvolto nell’incendio.

Come spiegare il fenomeno? alcuni studiosi hanno puntato il dito contro il consumo smodato di alcolici, altri invece attribuiscono la causa al grasso corporeo assorbito dai vestiti che si comporterebbero come lo stoppino di una candela. Ma un docente di Cambridge sostiene di aver anche capito cosa può provocarla.

Il professor Brian J.Ford, un biologo molecolare, ha condotto delle prove per capire come la combustione spontanea possa avvenire. Egli mise a marinare nell’etanolo della carne di maiale proveniente dall’addome dell’animale che, una volta messa a contatto con una garza imbevuta di alcol etilico, avrebbe dovuto accendersi. Purtroppo per il ricercatore, non accadde invece nulla. Il ricercatore concluse che il responsabile dell’autocombustione umana potrebbe essere l’acetone. Secondo lui, infatti, in presenza di alcolismo, una dieta priva di grassi, il diabete e problemi di dentizione il corpo sviluppa chetosi che produce acetone. Sono state fatte delle prove imbevendo carne di maiale con l’acetone e vestendole. Dopo aver acceso un fuoco in circa mezz’ora la carne era completamente ridotta in cenere.

Ma è sufficiente la presenza dell’acetone per avviare la combustione spontanea? Forse no anche perché è difficile che le cellule producano abbastanza acetone da essere determinante per l’avanzamento della combustione. È però possibile che la presenza di una piccola percentuale della sostanza abbia reso gli abiti infiammabili. Forse queste ricerche bastano a convincere i tanti sostenitori del fenomeno di combustione spontanea ma c’è da aggiungere ancora un tassello, una logica obiezione posta dello scettico Benjamin Radford:

Se la combustione umana spontanea è un fenomeno reale, perché non accade più spesso? Ci sono 7 miliardi di persone nel mondo, e ancora non vediamo casi di persone che vengono avvolte dalle fiamme mentre camminano per strada. Nessuno è mai stato visto, filmato o ripreso (per esempio, da una videocamera di sorveglianza) mentre improvvisamente bruciava. È sempre successo a singole persone che si trovavano sole vicino a una fonte di accensione.

Molti medici hanno rifiutato la spontaneità del fenomeno notando che in tutti i casi erano coinvolte persone inferme che non sarebbero state in grado di reagire prontamente e in molti casi non mancavano indizi di inneschi esterni, quali caminetti, lampade, mozziconi di sigarette…

Insomma, fino a prova contraria, il fenomeno dell’autocombustione spontanea umana non esiste ed è solo l’ennesimo specchietto per le allodole dietro cui si celano i soliti mistificatori e profittatori…

Oliver Melis è owner su facebook delle pagine NWO ItaliaPerle complottare e le scie chimiche sono una cazzata

Spiriti e fantasmi, contatti con la vita dopo la morte

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Sappiamo tutti di dover morire e questo ci distingue dagli animali che non hanno questa consapevolezza ma che comunque fanno di tutto per autoconservarsi il più a lungo possibile. Esiste un confine tra la vita e la morte e questo confine, questa linea di separazione, divide due mondi. C’è chi crede che questi due mondi possano in qualche modo entrare in contatto, a certe condizioni. È davvero possibile o chi ci crede lo fa solo per esorcizzare in qualche maniera la paura della morte? I fantasmi esistono? La vita continua dopo la morte? Domande che attanagliano l’umanità da sempre e che per alcuni hanno risposte certe, seppur diverse.

La nostra storia è piena di tracce, di rituali e di mistero. Le sepolture più antiche che abbiamo ritrovato sono datate a 90 mila anni fa. Esistono pitture rupestri di 20 mila anni fa che raccontavano viaggi nell’aldilà dove si credeva che i corpi contenessero un’anima raffigurata da un uccello. Anche gli Egizi credevano nell’oltretomba dove la vita, dopo la morte, seguiva regole ben precise. In passato si riteneva che i defunti non amassero essere disturbati e per questo i rituali associati servivano anche a tenerli tranquilli ma possiamo produrre delle prove per confermare l’esistenza dell’anima? Cosa ci dice la Fisica in proposito?

Se esistesse una vita oltre la nostra percezione sensoriale i fisici del CERN probabilmente l’avrebbero scoperta.

Brian Cox, fisico britannico, afferma che nel modello standard che descrive la materia e le quattro forze che tengono insieme l’universo non c’è spazio per una forza che possa veicolare informazioni su di noi dopo la morte e che non possa essere rivelato dal LHC. “Se vogliamo che ci sia uno schema persistente che porti informazioni sulle nostre cellule viventi, allora bisogna specificare in quale mezzo è inserito e come interagisce con la materia di cui è fatto il nostro corpo” afferma Cox.

«Se ci fosse una sostanza che guida i nostri corpi, facendo muovere le braccia e le gambe, dovrebbe anche interagire con le particelle di cui siamo fatti. E poiché sono state fatte misurazioni precise delle modalità con cui le particelle interagiscono, si può concludere che non esiste tale forza o energia.»

I più accaniti sostenitori della vita dopo la morte potrebbero farci notare che il modello standard ha dei punti deboli ma scordano una cosa fondamentale: spiriti, spettri, fantasmi o anime, insomma chiamateli come volete, non sono in accordo con la seconda legge della termodinamica che dice che l’entropia, o più semplicemente il disordine, di un sistema isolato con il passare del tempo tende ad aumentare e quindi una vita eterna e estremamente ordinata sotto forma di spirito è impossibile.

Chiaramente, in tutto questo, la religione, la fede, l’incrollabile desiderio di continuare ad esistere che alberga dentro ognuno di noi spesso non possono accettare spiegazioni e ragioni scientifiche che neghino la vita dopo la morte e, in fondo, sono innumerevoli le manifestazioni sovrannaturali attribuite alle anime dei defunti, così come sono moltissime castelli e case dove c’è chi giura di avere incontrato il fantasma degli antichi proprietari.

Insomma, non c’è vita dopo la morte ma rispettiamo i defunti, si sa mai che si presentino davvero a tirarci i piedi nel sonno…

Il gioco dell’uomo della mezzanotte (midnight man)

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Il “gioco di mezzanotte” è un rituale che veniva utilizzato nelle antiche religioni pagane per punire chi non aveva rispettato le leggi. Si tratta di un gioco che non è consigliabile eseguire poiché consiste in un rito che permette ad uno spirito di entrare nella propria casa e chi lo esegue rischia la pazzia o la morte.

Per eseguire il rituale avrete bisogno delle seguenti dei seguenti oggetti: carta, matita, ago, candela, una scatola di fiammiferi, la porta di casa in legno e una saliera piena di sale.

La prima cosa da fare è accendere la candela e spegnere tutte le luci artificiali.
Il passo successivo consiste nello scrivere il proprio nome sul foglio di carta, nella metà inferiore.
A questo punto è necessario pungersi un dito con l’ago e stillarne una goccia di sangue che dovrà cadere sulla carta ed esserne assorbita.

Il figlio di carta con il nome e la goccia di sangue va posizionato davanti alla porta di casa che DEVE essere di legno.

Quando mancano pochi secondi a mezzanotte si deve bussare 22 volte sulla porta. La 22° volta deve cadere in concomitanza con lo scoccare della mezzanotte.
Ora bisogna aprire la porta, soffiare sulla candela e richiudere. A questo punto l’uomo della mezzanotte è stato convocato.
Riaccendere immediatamente la candela.

Il gioco è iniziato. Lo scopo è evitare di essere presi dall’uomo della mezzanotte fino alle 3.33.

Per farlo è consigliabile muoversi per tutta la casa, tenendo la candela accesa, senza fermarsi a lungo in nessun ambiente. Se la candela dovesse spegnersi, significa che l’uomo della mezzanotte è nei pressi, bisogna riaccenderla immediatamente oppure usare la saliera per costruire un cerchio di sale intorno a sé e rimanervi dentro.

Restare senza la protezione della candela o del sale comporta il rischio di essere presi dall’uomo della mezzanotte e ritrovarsi immersi nelle proprie peggiori paure, fino alla pazzia o alla morte.

Se si è ancora vivi e sani di mente alle 3:33, si è vinto il gioco. In caso contrario sarete, probabilmente, immersi un modo di terrore, sfiorando la pazzia o, forse, sarete morti.

Nel video sottostante potete vedere cosa può accadere durante una partita al gioco dell’uomo della mezzanotte. Se deciderete di provare a giocare questa partita, tornate, se potrete, e fateci sapere come è andata.

La maledizione del film “Poltergeist”

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di Oliver Melis per Aenigma

I tanti fan del genere lo ricorderanno benissimo, Poltergeist, il primo di tre film di una trilogia  cinematografica, rispettivamente: Poltergeist (1982, scritto da Steven Spielberg e diretto da Tobe Hopper), Poltergeist II (1986, diretto da Brian Gibson), e Poltergeist III (1988, diretto da Gary Sherman), dove una normale famiglia di periferia viene perseguitata da malefiche presenze che daranno vita a eventi terrificanti. Il film costituisce una delle avventure più note del genere Horror.

Alcuni dei protagonisti del film furono vittime di eventi tragici che per molti divennero il segno di una maledizione che gravava sul cast del film.

Diverse sono stati i decessi tra i membri del cast della Trilogia “Poltergeist” e le morti hanno finito per ammantarsi di un mito quasi leggendario, dando ai films della serie la fama di “maledetti”, come se gli spiriti ed i demoni maligni citati nella pellicola abbiano preso vita sottraendola a diversi dei protagonisti dei tre film.

Quattro furono i decessi tra gli attori del cast, Dominique Dunne (Dana Freeling), Heather O’Rourke (Carol Ann Freeling), Will Simpson (Taylor, uno spirito buono) e Julian Beck (Hanry Kane, uno spirito cattivo). Una delle interpreti, Dominique Dune venne strangolata dal suo ex davanti casa sua, aveva appena 22 anni.

L’idea della maledizione nacque a causa delle tante morti improvvise e misteriose che vennero attribuite alla colpa di avere preso parte a un film sugli spiriti maligni che si sarebbero vendicati in qualche modo.

Non è la prima volta che un film acquista una fama simile e, anzi, succede spesso che morti accidentali di personaggi particolarmente giovani diano il via alla circolazione di voci su qualche presunta maledizione gravante sui personaggi e sugli attori del film. O’Rourke, ad esempio, prese parte a tutti e tre i film, interpretando la protagonista, ma morì prima dell’uscita dell’ultimo film, fatto che fece nascere la voce della sua presunta scomparsa durante la realizzazione della pellicola.

Le altre due morti non furono certamente accidentali ma dovute a malattie contro le quali gli attori combattevano da tempo. Infatti le loro morti non sono contemplate tra quelle definite “maledette” . Il 60enne Julian Beck morì di tumore allo stomaco nel settembre 1985 dopo aver lottato per quasi due anni, e il 53enne Will Sampson nel giugno di due anni per problemi che si portava dietro dall’infanzia.

La coincidenza è la chiave di lettura giusta in casi del genere anche se spesso, menti poco razionali, creano legami che in realtà non ci sono.

Come abbiamo visto, le varie morti e i decessi per malattie, molte volte pregresse, nulla hanno a che fare con la superstizione che in tanti hanno voluto vedere nella trilogia di Poltergeist e in altri film ugualmente noti.

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I razzi fantasma

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di Oliver Melis per Aenigma

Razzi fantasma, cosi venivano chiamati alcuni presunti ordigni, descritti nella grande maggioranza dei casi come oggetti di forma affusolata con delle fiamme nella parte posteriore, osservati nel 1946 nei cieli della Svezia e e in alcuni paesi vicini alla Scandinavia. Nel periodo che andava da febbraio a dicembre di quell’anno vennero contati circa 2000 avvistamenti e almeno 200 furono i contatti radar.

Le indagini svolte dagli investigatori portarono alla conclusione che la maggior parte degli avvistamenti erano causati da meteore, infatti molti degli avvistamenti avvennero di la notte e il picco delle osservazioni si verificò tra il 9 e il 16 agosto in concomitanza con il passaggio dello sciame delle Perseidi.

Vennero però registrati anche dei passaggi di “razzi fantasma” le cui traiettorie erano totalmente dissimili da quelle delle meteore. Furono allora avanzate diverse ipotesi per spiegare il misterioso fenomeno.

L’IPOTESI V1/V2

v2

Una delle prime ipotesi formulate sui razzi fantasma fu che potevano essere delle armi di origine nazista, i razzi V1 e V2 che dalla base di Peenemunde devastarono l’Inghilterra nel corso della seconda guerra mondiale. La base, dopo la caduta del regime nazista, finì nelle mani dei Sovietici. Allarmato, l’Esercito Svedese stabilì una direttiva che vietava ai giornali di rivelare la precisa localizzazione degli avvistamenti dei razzi fantasma e i dettagli delle traiettorie e della velocità degli ordigni per non avvantaggiare chi eseguiva i presunti lanci.

I razzi fantasma furono segnalati anche in nazioni dell’Europa del sud e dell’Africa del nord. In Grecia i razzi fantasma furono avvistati nella zona di Tessalonica. Il Governo allora decise di formare una commissione d’indagine guidata dal fisico Paul Santorini, già membro del progetto Manhattan. Anni dopo, lo stesso Santorini rivelò che la commissione aveva stabilito che il fenomeno osservato non aveva attinenza con i razzi fantasma segnalati altrove e le indagini furono chiuse in seguito a colloqui con ufficiali Statunitensi. Secondo il fisico Greco le indagini furono bruscamente interrotte per non dover ammettere l’esistenza di tecnologie superiori.

I RAZZI FANTASMA ERANO UFO?

Nel 1997 vennero declassificati dei documenti secretati in possesso dell’Usaf dal 1948 dove si rivela che gli investigatori militari avessero all’epoca avanzato l’ipotesi che i razzi fantasma potessero essere fenomeni di natura aliena.

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Ma tale ipotesi è attendibile? Niente lo dimostra, nessun ritrovamento di materiale presumibilmente alieno venne effettuato e l’unica spiegazione possibile è quella delle meteore che, al netto dei pochi avvistamenti apparentemente inspiegabili per via delle loro traiettorie non convenzionali, continua a sembrare la più probabile.

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Con due sole ondate migratorie i gatti conquistarono il mondo

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Stiamo cominciando a capire quando e come i gatti si trasformarono da felini selvatici in animali domestici, amanti delle comodità e coccoloni. A quanto pare, i gatti sono stati probabilmente addomesticati per la prima volta in Medio Oriente poi iniziarono a diffondersi, al seguito delle loro famiglie, prima via terra poi anche via mare, nel resto del mondo. Tutto questo ci viene riportato dai ricercatori impegnati nell’analisi del DNA di questi felini.

I primi agricoltori portarono con loro i gatti in Europa dal Medio Oriente, attraverso una lunga migrazione via terra, circa 6.400 anni fa. Questa è la conclusione dello studio effettuato sul DNA di 352 antichi gatti. Una seconda ondata di migrazione, forse via mare, sembra sia avvenuta circa 5.000 anni dopo. Fu allora che i gatti egiziani rapidamente colonizzarono l’Europa e il Medio Oriente.

I ricercatori descrivono come arrivati a queste date in un nuovo studio pubblicato il 19 giugno su Nature Ecology & Evolution .

L‘addomesticamento (Doh-MES-ti-kay-shun) è un processo lungo e lento attraverso il quale gli uomini hanno adattato animali o piante selvatiche alla convivenza nella società umana fino ad arrivare ad essere utili e di compagnia. Per esempio, i lupi sono diventati cani. I buoi selvatici sono diventati bestiame da allevamento. E i gatti selvatici sono diventati gatti domestici.

Sul dove e quando questo sia accaduto ai gatti, si è lungamente dibattuto. I ricercatori avevano solo il DNA dei gatti moderni su cui lavorare. I dati ricavati dimostrarono che i gatti domestici sono discendenti dei gatti selvatici africani. restava, però, poco chiaro quando esattamente i gatti addomesticati cominciarono a diffondersi in tutto il mondo. Ora, le nuove tecnologie per estrarre e studiare il DNA antico cominciano a fornire alcune risposte.

Eva-Maria Geigl e Thierry Grange sono i responsabili di questa profonda immersione nella storia genetica dei gatti. Sono biologi molecolari. Entrambi lavorano all’Istituto Jacques Monod di Parigi, in Francia. I mitocondri (My-tow-KON-dree-uh) sono piccole strutture che producono energia all’interno delle cellule. Contengono un po’ di DNA. Il DNA mitocondriale si trasmette solo in linea materna. Gli scienziati usano varietà leggermente diverse di DNA mitocondriale, chiamate mitotipi , per tenere traccia del lato femminile delle famiglie.

Geigl, Grange ed i loro colleghi hanno raccolto DNA mitocondriale proveniente da 352 antichi gatti e 28 gatti selvatici moderni. Si tratta di casmpioni risalenti fino a 9000 anni fa e raccolti in regioni che vanno dall’Europa all’Africa.

Gatto egiziano

Gli antichi egiziani spesso rappresentavano gatti in dipinti e statue. I gatti furono descritti inizialmente come cacciatori, abili uccisori di serpenti. Raffigurazioni successive mostravano i felini acciambellati sotto le sedie. Quella progressione rispecchia la trasformazione del gatto da cacciatore selvatico a cacciatore domestico intento a catturare i parassiti intorno ai depositi di grano degli antichi agricoltori fino a diventare un animale domestico e socievole. ANNA (NINA) MACPHERSON DAVIES © ASHMOLEAN MUSEO / UNIVERSITÀ DI OXFORD

Tra i 10.000 ed i 9.500 anni fa, i gatti selvatici africani ( Felis silvestris lybica ) entrano in scena come domestici. probabilmente questi felini cacciavano topi, serpenti ed altri parassiti intorno ai granai e i primi agricoltori, riconosciutane l’utilità, finirono per incoraggiarli a restare intorno alle case, dando loro gli scarti alimentari. Questa collaborazione si rivelò vantaggiosa per entrambe le parti e i gatti finirono per diventare parte integrante della famiglia anche durante gli spostamenti migratori.

Pian piano il gatto finì per entrare nelle case, conquistandosi sempre di più la fiducia e l’affetto degli esseri umani. Sull’isola mediterranea di Cipro, 9.500 anni fa, un notabile del luogo fu sepolto con il suo gatto. È quindi molto probabile che a quell’epoca ci fossero già parecchie persone che avevano stretti legami con i propri gatti.

Prima che i primi agricoltori iniziassero a migrare dal Medio Oriente all’Europa, i gatti selvatici europei ( Felis silvestris silvestris ) svilupparono un mitotipo. Si chiama clade I. Un gatto bulgaro di 6.400 anni e un gatto rumeno di 5.200 anni avevnoa un diverso tipo di DNA mitocondriale. Entrambi avevano mitotipo IV-A. Si tratta di un mitotipo precedentemente rilevato solo nei gatti domestici rinvenuti in Turchia.

I gatti sono territoriali e di solito non vagano molto. Ciò suggerisce che siano stati gli esseri umani a migrare portandosi dietro i gatti.

Modelli di gatto

I gatti selvatici ed i primi gatti domestici sembrano avere tutti lo stesso tipo di mantello tigrato a righe. Oggi, però, circa l’80 per cento dei gatti domestici moderni porta una mutazione che dà a un gatto un tipo di mantello detto tabby blusato. Nuovi dati genetici suggeriscono che questa mutazione si è verificata  in Asia sudorientale durante il Medioevo. (I quadri nella tabella rappresentano i gatti antichi campionati come parte di uno studio del DNA. L’azzurro indica mantelli tigrati e rosso i mantelli a macchie di tabby). Si ipotizza che la mutazione si sia diffusa rapidamente perchè il nuovo tipo di mantello permetteva alle persone di distinguere più facilmente il proprio gatto. C. OTTONI ET AL / NATURA ECOLOGIA E EVOLUZIONE 2017

Le Mummie (e altro) raccontano un’altra storia

I gatti domestici africani, comprese tre mummie di gatto ritrovate in Egitto, presentavano, però, un altro mitotipo ancora. È conosciuto come IV-C. Fino a circa 2.800 anni fa, quel tipo è stato trovato in gran parte in Egitto. Ma poi ha cominciato ad apparire in Europa e in Medio Oriente. E tra i 1.600 ed i 700 anni fa si è diffuso molto velocemente. Sette dei nove dei gatti europei antichi testati dai riceractori presentano questo tipo di DNA egiziano. Tra questi, un gatto risalente a circa 1350 anni fa trovato nei pressi del porto di Viking, sul Mar Baltico.

Lo stesso mitotipo è stato rinvenuto in trentadue su 70 gatti provenienti dall’Asia sud-occidentale. La velocità della diffusione di questo mitotipo potrebbe significare che le navi antiche includevano dei gatti nel loro equipaggio e che qualcuno di quei gatti potrebbe aver deciso di fermarsi in qualche porto per accasarsi.

La rapida diffusione del DNA dei gatti egiziani potrebbe significare che qualcosa ha reso questi animali particolarmente attraenti. I gatti domestici non sono molto diversi dai gatti selvatici. La grande differenza è che i gatti domestici tollerano le persone. E i gatti egiziani potrebbero essere stati particolarmente amichevoli. Probabilmente erano più simili al tipo di gatto domestico che troviamo oggi nelle nostre case.

Un’altra possibile ragione che potrebbe avere permesso ai gatti egiziani di diffondersi in modo così capillare potrebbe stare nel fatto che trovandosi lungo i percorsi commerciali e di spedizione potrebbero essere facilmente stati arruolati nelle carovane o sulle navi come cacciatori di topi.

Insomma, nonostante gli studi approfonditi sul DNA ne sappiamo ancora poco e molte delle informazioni appartengono al campo delle speculazioni. Tra le poche sicurezze che abbiamo sui nostri gatti vi è quella che discendono dai gatti egiziani e, chissà, quando li sorprendiamo con lo sguardo spesso nel vuoto, forse stanno rimirando, nella loro mente, lontani deserti e antiche piramidi.

Il killer dello zodiaco

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Killer dello Zodiaco è il soprannome con cui è noto un serial killer statunitense che operò nella zona nord della California alla fine degli anni sessanta del XX secolo. Egli stesso si attribuì il nome in una serie di lettere di sfida alla stampa datate fino al 1974: queste ultime contenevano quattro crittogrammi o messaggi cifrati, tre dei quali rimangono ancora senza soluzione.

“Zodiac” uccise cinque persone a Benicia, Vallejo, al Lago Berryessa e a San Francisco tra il dicembre 1966 e l’ottobre 1969: furono colpiti quattro uomini e tre donne di età comprese fra i 16 e i 29 anni, e due di loro sopravvissero alle aggressioni. A Zodiac sono state attribuite anche numerose altre vittime, senza tuttavia sufficienti prove per confermarle.

L’identità del killer rimane ancora oggi sconosciuta. La polizia di San Francisco ha catalogato il caso come “inattivo” nell’aprile del 2004, ma l’ha riaperto nel marzo 2007; anche in altre giurisdizioni il caso rimane aperto.

Zodiac entra in scena

Domenica, 30 ottobre 1966, lo Zodiac Killer fa il suo debutto. La vittima si chiama Cheri Jo Bates, una studentessa 18enne che frequenta il Riverside City College.

L’assassino la adesca nel parcheggio vicino alla libreria del College. La macchina della ragazza non parte e l’uomo si offre di aiutarla. Purtroppo il motore non si avvia e l’uomo si offre di accompagnare a casa la ragazza. Si sospetta che la macchina fosse stata appositamente sabotata dall’uomo.

I due si avviano insieme ma in un vicolo buio e appartato il killer entra in azione. La ragazza viene uccisa brutalmente con un coltello: tre pugnalate al torace, una alla schiena, il coltello affonda sette volte nella sua gola, troncandole la laringe, la vena giugulare e la carotide. La troveranno quasi decapitata ma non subì violenza né furto. Le ragioni del delitto restano inspiegate.

Non si può certo dire che l’assassino sia stato perfetto. Nelle vicinanze del corpo viene rinvenuto un orologio da uomo, fermo sulle 12.23, con tracce di vernice sul cinturino. C’è anche una impronta di scarpe e tracce di pelle e capelli sono rimaste sotto le unghie della povera Cheri Jo Bates.

Il fatto che l’assassino e la ragazza siano rimasti appartati al buio per più di un’ora suggerisce agli investigatori la pista dell’omicidio passionale. Le indagini vengono quindi indirizzate verso gli amici e gli ex fidanzati della ragazza. È a questo punto che il killer si presenta.

Il 29 novembre 1966, la centrale di polizia di Riverside e la sede del giornale “Enterprise” ricevono la copia carbone di una lettera battuta a macchina. Spedite da una casetta di posta sperduta nella campagna, senza francobollo e senza indirizzo del mittente, le lettere sono intitolate “La Confessione”. La firma, quasi a prendersi gioco dei destinatari, è stata invece sostituita da 12 linee, come in un gioco di enigmistica.

All’interno di questa lettera lo Zodiac Killer descrive, senza risparmiare sui particolari, la dinamica dell’omicidio, dal momento dell’abbordaggio al taglio della gola. La parte più preoccupante è però il finale: “Lei era giovane e bella ma è morta. Non è la prima e non sarà nemmeno l’ultima. Passo notti insonni a pensare chi sarà la mia prossima vittima. Forse la bionda che fa la babysitter e che attraversa ogni giorno un vicolo buio verso le sette, o forse sarà la brunetta a cui ho chiesto informazioni. […] Spargerò le loro parti per la città in modo che tutti vedano. […] Guardatevi da..Io ora mi avvicino furtivamente alle vostre ragazze.”

Viste le numerose contraddizioni (il killer scrive, a torto, che la ragazza non ha opposto resistenza e che il coltello si è rotto nel torace della ragazza), inizialmente la lettera non fu presa in considerazione anche se la descrizione del sabotaggio all’automobile è un’informazione in possesso solo della polizia. L’F.B.I. riesaminerà più volte le lettere legate agli omicidi di Zodiac e non si sposterà dalla classificazione subito attribuita: opera di uno sciacallo mitomane.

Sei mesi dopo l’omicidio Bates, la polizia di Riverside, la stampa e il padre della ragazza ricevono nuovamente una lettera in tre copie. Questa volta le buste sono affrancate e il testo è stato scritto a matita su della carta da lettere. Al posto della firma c’è un misterioso simbolo formato da una specie di Z, unita lateralmente a una sorta di 3.

“Bates doveva morire. Altre ne verranno”

L’omicidio della Bates resterà insoluto. L’F.B.I. e le autorità locali restarono sull’idea dell’omicidio passionale mentre gli investigatori e i giornalisti della Bay Area di San Francisco associarono questo omicidio a quelli che avvennero nella stessa area durante gli anni successivi.

Il killer dello Zodiaco si presenta

Vallejo e Benicia sono due cittadine della Baia di San Pablo, all’incirca a 20 miglia nord-est di San Francisco. Negli anni ’60 l’area tra le due cittadine era praticamente disabitata e ancora oggi l’autostrada che le unisce non è del tutto asfaltata.

Poco prima delle 21.00 del 20 dicembre 1968, in queste zone, viene avvistata una macchina metalizzata a quattro porte.

Nemmeno un’ora dopo, dei ragazzi vengono seguiti da questa auto, su un sentiero di ghiaia. Spaventati cambiano strada e fuggono.

Alle 23.10, David Arthur Faraday e Betty Lou Jensen non avranno la stessa accortezza. Usciti di casa con la scusa di andare a un concerto natalizio, i due si appartano in una radura. Passa un’ora, poi qualcuno comincia a fare fuoco contro di loro con una calibro 22. Comincia da dietro, sfondando il vetro posteriore e forando il pneumatico sinistro. Poi l’assassino si avvicina, fino ad arrivare alla portiera di sinistra, e ricomincia a fare fuoco.

I due adolescenti, 16 e 17 anni, corrono fuori dalla portiera opposta e tentano la fuga, ma invano. Betty Lou Jensen verrà ritrovata a 10 metri dal paraurti posteriore. Uccisa da cinque colpi alla schiena, tra la quinta e la sesta costola. Per David Faraday è bastata una sola pallottola, ben piazzata alla testa.

Stella Borges, unica testimone, dirà di aver visto allontanarsi una Chevrolet metalizzata, a quattro porte, diretta verso Benicia, prima di ritrovare i corpi dei giovani.

Nonostante la taglia messa dalla polizia sull’omicida, non verrà mai trovato il colpevole.

Sei mesi più tardi, verso le 24:00 di sabato 5 luglio 1969, Darlene Elizabeth Ferrin, 22 anni, e Michael Renault Mageau, 19 anni, vengono presi di mira da degli spari, mentre sono seduti nella propria macchina nel parcheggio del Blue Rock Springs Golf Course.

Darlene Ferrin è andata a prendere il suo amico un’ora prima, quindi si sono fermati lì per mangiare qualcosa e chiacchierare. Qui una macchina marrone, si è accostata a loro, spegnendo i fari, per poi ripartire a tutto gas verso Vallejo.

Cinque minuti dopo la macchina ritorna.

Dopo aver parcheggiato a 3 metri dall’auto dei ragazzi, il conducente scende, spegnendo i fari per nascondere il proprio viso. Convinti che si tratti di un poliziotto, i ragazzi estraggono i loro documenti e si preparano alla classica ramanzina, ma il misterioso individuo comincia a sparare attraverso il finestrino del passeggero. L’arma è una 9 mm con silenziatore.

Mageau viene colpito di striscio al viso e al braccio, quindi al ginocchio. terrorizzato il ragazzo riesce a saltare nella parte posteriore e a nascondersi. Darlene invece non ce la fa: i colpi la raggiungono alla testa e alla schiena, morirà alle 24.38.

Prima di svenire, Mageau riesce a vedere l’assassino di profilo. Lo descriverà come un uomo di media altezza, circa 1.75, e grasso. Porta degli occhiali.

Secondo i più, Darlene conosceva l’omicida, forse si trattava di uno spasimante rifiutato. La descrizione del ragazzo invece non fu tenuta molto in considerazione, poiché era sotto antidolorifici.

Alle 12:40 della stessa notte, la sede centrale della polizia di Vallejo riceve una telefonata da una cabina. La voce è matura e senza accento, parla uniformemente e costantemente, come se stesse leggendo da un copione.

“Vorrei riportare alla vostra attenzione un duplice omicidio. Dirigetevi a un miglio est sul Viale di Cristoforo Colombo, verso il parco pubblico, lì troverete dei ragazzi in una macchina marrone. Gli ho sparato con una Luger da 9 mm. Ho ucciso dei ragazzi anche l’anno scorso. Buona serata.”

Il 31 luglio 1969, l’Examiner di San Francisco, il Chronicle di San Francisco, e il Time-Harald di Vallejo ricevono tre lettere. Allegato a ogni lettera c’è un crittogramma che il 1 agosto viene pubblicato sulla prima pagina di ognuno dei tre giornali. Le lettere sono simili, anche se con parole diverse. L’assassino dimostra di essere veramente il colpevole fornendo particolari che solo lui e la polizia potevano sapere. Aggiunge inoltre che ha già ucciso una dozzina di persone e che se non venissero pubblicato i crittogrammi farà un massacro.

“In questo crittogramma in tre parti è celata la mia identità”

Ogni lettera finisce con un simbolo molto simile a una croce celtica e uno strano simbolo cifrato che è probabilmente il vero arcano da svelare per risalire all’identità del killer.

Il crittogramma viene decifrato e risolto in meno di una settimana, da un professore di liceo e da sua moglie, ma evidentemente l’assassino non ha mantenuto la promessa. Il testo che emerge infatti non è la sua identità, bensì la confessione di un collezionista di anime: “Mi piace uccidere le persone perché è molto più divertente di ogni gioco selvaggio che si possa fare in una foresta. L’uomo è l’animale più pericoloso ed elettrizzante di tutti da uccidere […] La parte migliore è che quando morirò, rinascerò in paradiso e tutte le mie vittime saranno miei schiavi. Perciò non vi darò il mio nome o tenterete di fermare la mia raccolta di schiavi per la vita ultraterrena. Ebeorietemethhpiti.”

Come per il caso Bates si ricorre alla F.B.I. che, come nel caso Bates, conclude che l’autore non sia il vero assassino, ma qualche sciacalloin cerca di fama.

Il 4 agosto l’Examiner di San Francisco riceve un’altra lettera. In essa il killer sbeffeggia gli investigatori perché non riescono a risolvere il simbolo cifrato, racconta nuovamente con accuratezza l’attentato ai due ragazzi, spiegando anche come fa a sparare con sicurezza al buio. Per la prima volta si firma “Zodiac”. Tutte le lettere verranno analizzate per anni, senza rintracciare impronte utili.

Il 27 settembre 1969, sulla spiaggia occidentale del Lago Berryessa, 60 miglia a nord est da San Francisco, Zodiac torna a colpire.

Sono le 15.00 quando tre giovani donne di Angwin, stanno parcheggiando vicino al lago. Una Chevrolet azzurra si accosta a loro, all’interno c’è un uomo che sembra intento a leggere qualcosa e le ragazze non gli danno peso.

L’uomo è alto circa 1.80, sui 90 kg, occhialuto, indossa una maglia nera e blu su dei pantaloni neri. Le donne si allontanano e camminano lungo la riva del lago, prendendo il sole. Quando si accorgono che l’uomo le osserva silenziosamente, fumando sigarette, si preoccupano un po’. Passano 20 minuti così, quando l’uomo finalmente si allontana.

Lo stesso uomo viene avvistato da un dentista e suo figlio.

Di tutt’altra maniera l’incontro tra l’uomo misterioso e Cecilia Ann Shepard e Bryan Calvin Hartnell, due studenti universitari.

Poco prima di essere troppo vicino alla coppia, l’assassino si butta addosso una tunica nera, con dei fori per gli occhi. Sulla vita è disegnato il solito stemma molto simile a una croce celtica.

Alla cintura è appeso un pugnale, mentre nella mano destra l’uomo impugna saldamente una pistola.

Si presenta come un evaso dalla prigione di Deer Lodge, nel Montana, ed esige l’auto dei ragazzi per scappare nel Messico. La parlata è incredibilmente monotona e calma, senza cadenze o accenti.

Bryan Hartnell con freddezza, sperando di arrivare a una soluzione pacifica e senza danni, prova a rilassare il pazzo e i due finiscono per discutere a lungo, seduti sulla vettura dei ragazzi.

All’improvviso però l’assassino perde le staffe senza motivo apparente.

Lega Cecilia e comincia a colpire la coppia con il suo coltello, probabilmente una baionetta.

Sei pugnalate per Bryan Hartnell, dieci per Cecilia Shepard. Il ragazzo si riprenderà e riuscirà a depositare per la polizia, ma la ragazza morirà nel giro di 48 ore.

Prima di andarsene, lo Zodiac Killer impugna un gessetto nero, di quelli che si utilizzano nei riti magici, e scrive sulla portiera della macchina: “Vallejo 12-20-68, 7-4-69, Sept 27-69-6:30. Con un coltello.”

Anche questa volta la polizia di Vallejo riceve una telefonata, dalla stessa cabina. Non è passata nemmeno un’ora dall’aggressione.

“Vorrei segnalare un assassinio, no, un duplice omicidio. I corpi sono a due miglia a nord della sede centrale del parco. Erano in una Volkswagen bianca. Sono stato io.”

11 ottobre 1969. A cadere vittima dello Zodiac Killer è un tassista 39enne di San Francisco, Paul Stine. È appena finita la corsa. Il passeggero si è fatto portare dall’angolo tra la Mason e Geary Street all’angolo tra la Washington e Maple Streets, presso Presidio Heigths. E qui, invece di pagare, estrae una pistola da 9 mm e spara alla testa di Stine.

Prima di lasciare la scena del delitto, strappa un pezzo di camicia insanguinata dalla schiena del tassista e poi sparisce nella notte.

La descrizione fornita dei testimoni è sempre la stessa, anche se inizialmente dei ragazzini si sbagliano: indicano alle pattuglie un uomo di colore, e così la fuga a piedi dello Zodiac Killer è fin troppo facile.

Sul luogo del delitto vengono rintracciate le solite impronte che non porteranno mai a nessuno.

Nei giorni successivi arrivano alla stampa le solite lettere nelle quali lo Zodiac Killer si assume la responsabilità dell’omicidio. L’indirizzo del mittente c’è, ma è rappresentato dall’ormai immancabile croce celtica. Per smentire le solite voci che non si tratterebbe di lettere autentiche, lo Zodiac Killer allega al messaggio un pezzo della camicia insanguinata del tassista. Un pezzo per ogni lettera.

Nel finale delle lettere l’assassino si vanta di aver spiazzato gli investigatori, avendo cambiato all’improvviso la tipologia delle vittime, insinuando che potrebbe rubare un pulmino della scuola e uccidere tutti i bambini che ci sono sopra.

Inutile aggiungere che a queste dichiarazioni seguirà il panico. Tutti i casi insoluti della costa ovest saranno imputati allo Zodiac Killer. Da Houston ad Atlanta, fino ad arrivare a St. Louis. Si rafforzano i controlli alle uscite delle scuole e gli autisti dei pulmini vengono armati.

Seguono altre lettere, una delle quali ha un contenuto seriamente minaccioso:

“È Zodiac che vi parla. Dalla fine di ottobre ho ucciso 7 persone. Sono piuttosto arrabbiato con la polizia che dice un sacco di bugie sul mio conto, quindi cambierò continuamente il metodo di raccolta degli schiavi. Non lo annuncerò più a nessuno, quando commetterò degli omicidi, questi vi sembreranno furti, uccisioni di rabbia o futili incidenti.. […] La polizia non mi prenderà mai perché sono più intelligente di loro: 1) l’identikit che gira corrisponde a me solo quando vado a caccia di anime, il resto del tempo sono completamente diverso. 2) Non possono avere le mie impronte come dicono perché io indosso delle coperture sulle dita, sono di cemento per aeroplani. 3) Tutte le mie armi sono state comprate per corrispondenza da paesi stranieri e non potete rintracciarmi. […] La sera dell’omicidio del tassista ero al parco, dei poliziotti si sono fermati per chiedermi se avessi visto qualcuno di sospetto..” La lettera termina con una delirante descrizione di una arma potentissima, in grado di far saltare in aria un autobus, che l’assassino avrebbe costruito con le sue mani e che terrebbe in cantina.

La lettera successiva raggiunge l’avvocato Melvin Belli, il 27 dicembre 1969. È allegata a una cartolina di auguri natalizi. Il killer sembra inspiegabilmente lucido e invoca addirittura aiuto. Pentito della minaccia di attentato all’autobus di bambini, chiede aiuto a Belli perché teme di perdere nuovamente il controllo e di ricominciare a uccidere. “Per piacere mi aiuti, non manterrò il controllo ancora a lungo.”

Purtroppo non contatterà più Belli in seguito, facendo perdere le proprie tracce per più di tre mesi.

Domenica 22 marzo 1970. È sera. La 23enne Kathleen Johns sta guidando sulla Highway 132, nella Contea di San Joaquin. In auto con lei c’è la figlioletta Jennifer.

Una macchina si avvicina a lei, l’autista suona il clacson, le fa gesti e le urla che ha una ruota a terra e si propone volontariamente di aiutarla a cambiarla.

L’uomo in realtà rimuove solamente i bulloni e così, quando Kathleen si rimette in marcia, la ruota si leva del tutto. Dispiaciuto per il nuovo incidente, lo sconosciuto le offre un passaggio fino alla prossima stazione di servizio.

Il viaggio dura a lungo, nella direzione di Modesto (California), tuttavia il gentile sconosciuto pare non volersi fermare a nessuna stazione di servizio.

Kathleen capisce che è in pericolo e, agguantata la figlioletta, salta giù dalla vettura. Si nascondono tra le ombre, nell’argine prosciugato di un fiumiciattolo per l’irrigazione dei campi. Il killer prova a cercarle per circa dieci minuti, aiutandosi con i fari dell’auto e una torcia, ma alla fine abbandona l’impresa e scompare nella notte.

Raggiunta la stazione di polizia di Patterson, Kathleen si siede su una sedia, pronta a raccontare allo sceriffo la propria brutta avventura e per sporgere denuncia. Alle spalle dell’uomo c’è un tabellone con gli identikit di tutti i ricercati e, proprio tra questi, la donna riconosce il colpevole. L’identikit indicato da Kathleen Johns è quello dello Zodiac Killer.

Zodiac scompare

Tra l’aprile 1970 e il marzo 1971, lo Zodiac Killer invia almeno nove lettere, ma da esse la polizia non risale a nessun ulteriore crimine. Né riesce a rintracciare l’omicida.

Il 30 gennaio 1974, un giornale di San Francisco ricevette la prima lettera in quasi tre anni. Poche parole senza senso, la firma riportava le misteriose notazioni “Me-37” e “SFPD-0″mentre 1/3 della pagina era occupato da un’enorme croce celtica, vicino alla quale compariva la dicitura “=3”.

Nel 1975, Don Striepke, uno sceriffo della Contea di Sonoma stilò un rapporto con una teoria interessante. Segnando su di una mappa una serie di 40 assassini insoluti degli Stati Occidentali, si andava a formare una gigantesca Z. Questa teoria però cadrà ben presto nel dimenticatoio, poiché nella stessa zona e negli stessi anni operava anche Ted Bundy.

Il 24 aprile 1978 è stata consegnata alla stampa la 21esima lettera dello Zodiac Killer. La lettera debutta con un inquietante “sono tornato” che sparge il terrore tra gli abitati della Bay Area. Nessun crimine è stato rintracciato nella zona prima o dopo la lettera e ad essa sono seguite lettere senza senso, che lodavano il lavoro della polizia. Dopo accurate analisi si è scoperto che l’autore di queste lettere sarebbe stato tale Dave Toschi, ufficiale di polizia a capo delle indagini sullo Zodiac Killer.

Altra teoria bocciata severamente è quella avanzata all’inizio degli anni ’80 dallo scrittore George Oakes. L’autore disse di essere in contatto telefonico con l’assassino da anni, e di conoscere bene la sua mentalità basata sull’acqua, sugli orologi e sulle matematiche binarie. Aggiunse anche di sapere l’identità del killer. L’F.B.I. senza nessuna delicatezza ha etichettato questa teoria come “a lot of bullshit”.

Molto più interessante è un libro del 1986, “Zodiac” di Robert Graysmith. In questo volume il killer viene indicato con lo pseudonimo di “Robert Hall Starr”. “Starr” viene descritto come un fanatico di armi e come un molestatore di bambini, indicato dalla polizia come il sospetto numero uno. Graysmith accredita allo Zodiac Killer un totale di 36 possibili vittime, uccise tra ottobre 1966 e maggio 1981. Oltre ai sei omicid noti, Graysmith include nella sua analisi 15 vittime collegate ad un misterioso killer non identificato della California settentrionale, e 15 vittime di un omicida “astrologico”, caratterizzato dall’aver eseguito i suoi omicidi in prossimità di un solstizio o un equinozio. Il 99% delle vittime sono donne, e il modus operandi è incostante. Ciò riporterebbe alle parole “cambierò continuamente il metodo di raccolta degli schiavi” scritto dal killer nel ’69.

Effettivamente il Robert Hall Starr di Graysmith è esistito davvero. Si chiamava Arthur Leigh Allen, ed era un insegnante incriminato per molestie sessuali nei confronti di alcuni bambini. Per anni è stato sospettato di essere lo Zodiac Killer ed è l’unico ad aver subito interrogatori e processi su questo caso. È morto nel 1992 a 58 anni, stroncato da una malattia ai reni, ma le indagini sono proseguite sempre nella sua direzione.

Nel 2002, grazie alle moderne tecnologie, è stato estratto il DNA dalla saliva rimasta sotto alcuni francobolli utilizzati da Zodiac. Il Dna ha dimostrato che Allen non era il colpevole.

È stata la prima e unica svolta da quando, nel 2000, gli ispettori Kelly Carroll e Michael Maloney, della polizia di Vallejo, hanno riaperto il caso dello Zodiaco…e non è certo una svolta positiva.

Sempre nel 2002, nello stato di Washington, un serial killer ha firmato i propri delitti con un foglietto riportante la scritta: “Sono Dio”. “Quando morirò, rinascerò in paradiso” annunciava lo Zodiac Killer, ma si tende ad escludere che il responsabile sia stato lo stesso uomo che ha ripreso a colpire dopo un intervallo di 30 anni.

Resta che Zodiac non è mai stato individuato e che alcuni degli omicidi rimasti insoluti dagli anni ’60 ad oggi sono suggestivi di essere avvenuti tramite la stessa mano. Ormai Zodiac, ammesso sia ancora vivo, dovrebbe avere oltre settanta anni e le probabilità che possa essere individuato e arrestato sono ormai al lumicino.

Insomma, salvo colpi di scena clamorosi, Zodiac Killer resterà sempre un’ombra sfuggente.

Un successo il flyby di Juno con la grande macchia rossa di Giove. Ecco le prime immagini

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La missione JUNO della NASA ha completato il fliby all’interno dell’atmosfera di Giove passando nei pressi della grande macchia rossa il 10 luglio durante la sua sesta orbita scientifica.

Tutti gli strumenti scientifici di Juno, compresa la JunoCam hanno funzionato regolarmente durante il fliby, raccogliendo dati che sono ora in corso di trasmissione sulla Terra. Il prossimo volo di Juno su Giove avrà luogo il 1 Settembre.

Le immagini originali dell’ultimo flyby della navicella saranno pubblicate nei prossimi giorni, intanto ecco le prime immagini elaborate rilasciate dal JPL. Nei prossimi giorni ne seguiranno altre ancora più interessanti:

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This enhanced-color image of Jupiter’s Great Red Spot was created by citizen scientist Kevin Gill using data from the JunoCam imager on NASA’s Juno spacecraft.

The image was taken on July 10, 2017 at 07:07 p.m. PDT (10:07 p.m. EDT), as the Juno spacecraft performed its 7th close flyby of Jupiter. At the time the image was taken, the spacecraft was about 6,130 miles (9,866 kilometers) from the tops of the clouds of the planet.

Images of Jupiter’s Great Red Spot reveal a tangle of dark, veinous clouds weaving their way through a massive crimson oval. The JunoCam imager aboard NASA’s Juno mission snapped pics of the most iconic feature of the solar system’s largest planetary inhabitant during its Monday (July 10) flyby. The images of the Great Red Spot were downlinked from the spacecraft’s memory on Tuesday and placed on the mission’s JunoCam website Wednesday morning. 

“For hundreds of years scientists have been observing, wondering and theorizing about Jupiter’s Great Red Spot,” said Scott Bolton, Juno principal investigator from the Southwest Research Institute in San Antonio. “Now we have the best pictures ever of this iconic storm. It will take us some time to analyze all the data from not only JunoCam, but Juno’s eight science instruments, to shed some new light on the past, present and future of the Great Red Spot.” 

As planned by the Juno team, citizen scientists took the raw images of the flyby from the JunoCam site and processed them, providing a higher level of detail than available in their raw form. The citizen-scientist images, as well as the raw images they used for image processing, can be found at: httpss://www.missionjuno.swri.edu/junocam/processing

“I have been following the Juno mission since it launched,” said Jason Major, a JunoCam citizen scientist and a graphic designer from Warwick, Rhode Island. “It is always exciting to see these new raw images of Jupiter as they arrive. But it is even more thrilling to take the raw images and turn them into something that people can appreciate. That is what I live for.”

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This enhanced-color image of Jupiter’s Great Red Spot was created by citizen scientist Jason Major using data from the JunoCam imager on NASA’s Juno spacecraft.
 
The image was taken on July 10, 2017 at 07:10 p.m. PDT (10:10 p.m. EDT), as the Juno spacecraft performed its 7th close flyby of Jupiter. At the time the image was taken, the spacecraft was about 8,648 miles (13,917 kilometers) from the tops of the clouds of the planet.
Measuring in at 10,159 miles (16,350 kilometers) in width (as of April 3, 2017) Jupiter’s Great Red Spot is 1.3 times as wide as Earth. The storm has been monitored since 1830 and has possibly existed for more than 350 years. In modern times, the Great Red Spot has appeared to be shrinking.  

All of Juno’s science instruments and the spacecraft’s JunoCam were operating during the flyby, collecting data that are now being returned to Earth. Juno’s next close flyby of Jupiter will occur on Sept. 1.

Juno reached perijove (the point at which an orbit comes closest to Jupiter’s center) on July 10 at 6:55 p.m. PDT (9:55 p.m. EDT). At the time of perijove, Juno was about 2,200 miles (3,500 kilometers) above the planet’s cloud tops. Eleven minutes and 33 seconds later, Juno had covered another 24,713 miles (39,771 kilometers), and was passing directly above the coiling, crimson cloud tops of the Great Red Spot. The spacecraft passed about 5,600 miles (9,000 kilometers) above the clouds of this iconic feature.

Juno launched on Aug. 5, 2011, from Cape Canaveral, Florida. During its mission of exploration, Juno soars low over the planet’s cloud tops — as close as about 2,100 miles (3,400 kilometers). During these flybys, Juno is probing beneath the obscuring cloud cover of Jupiter and studying its auroras to learn more about the planet’s origins, structure, atmosphere and magnetosphere.

Early science results from NASA’s Juno mission portray the largest planet in our solar system as a turbulent world, with an intriguingly complex interior structure, energetic polar aurora, and huge polar cyclones. 

“These highly-anticipated images of Jupiter’s Great Red Spot are the ‘perfect storm’ of art and science. With data from Voyager, Galileo, New Horizons, Hubble and now Juno, we have a better understanding of the composition and evolution of this iconic feature,” said Jim Green, NASA’s director of planetary science. “We are pleased to share the beauty and excitement of space science with everyone.”  

JPL manages the Juno mission for the principal investigator, Scott Bolton, of Southwest Research Institute in San Antonio. The Juno mission is part of the New Frontiers Program managed by NASA’s Marshall Space Flight Center in Huntsville, Alabama, for the Science Mission Directorate. Lockheed Martin Space Systems, Denver, built the spacecraft. JPL is a division of Caltech in Pasadena. 

More information on the Juno mission is available at: httpss://www.nasa.gov/juno

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This enhanced-color image of Jupiter’s Great Red Spot was created by citizen scientist Gerald Eichstädt using data from the JunoCam imager on NASA’s Juno spacecraft.

The image is approximately illumination adjusted and strongly enhanced to draw viewers’ eyes to the iconic storm and the turbulence around it. 

The image was taken on July 10, 2017 at 07:07 p.m. PDT (10:07 p.m. EDT), as the Juno spacecraft performed its 7th close flyby of Jupiter. At the time the image was taken, the spacecraft was about 6,130 miles (9,866 kilometers) from the tops of the clouds of the planet.

“Per generazioni persone di tutto il mondo hanno espresso meraviglia per la grande macchia rossa di Giove”, ha dichiarato Scott Bolton, ricercatore principale di Juno “Ora finalmente potremo vedere da vicino questa tempesta”.

La macchia rossa è una tempesta di 10.000 miglia di larghezza (16.000 chilometri di larghezza) che è stata monitorata dal 1830 e che probabilmente è in corso da più di 350 anni. Negli ultimi anni , la grande macchia rossa sembra essere rimpicciolita.

Juno ha raggiunto il perijove (il punto in cui l’orbita si avvicina al centro di Giove) il 10 luglio alle 6:55 pm PDT (9:55 pm EDT). Al momento del perijove, Juno era circa 2.200 miglia (3.500 chilometri) sopra le nuvole del pianeta. Undici minuti e 33 secondi più tardi, Juno aveva coperto altri 24.713 miglia (39.771 chilometri) ed era passato direttamente sopra le nuvole cremisi velate del Grande Rosso. La nave spaziale passava circa 5.600 miglia (9.000 chilometri) sopra le nuvole di questa caratteristica iconica.

Il 4 luglio alle ore 19:30 PDT (10:30 pm EDT), Juno ha registrato esattamente un anno in orbita di Giove, segnando 71 milioni di miglia di viaggio intorno al pianeta gigante.

Juno è stata lanciata il 5 agosto 2011, da Cape Canaveral, Florida. Durante la sua missione di esplorazione, Juno si è avvicinata alle nubi del pianeta fino a circa 2.100 miglia (3.400 chilometri). Durante questi flybys, Juno ha sondato la cappa scura di nuvole tentando di scoprire cosa vi sia sotto e ha studiato le aurore di Giove per saperne di più sulle origini, sulla struttura, sull’atmosfera e sulla magnetosfera del pianeta.

I primi risultati scientifici della missione JUNO della NASA rappresentano il più grande pianeta del nostro sistema solare come un mondo turbolento, con una struttura interiore intrigante e complessa, una polarità polare energica e enormi cicloni polari.

Il JPL gestisce la missione Juno attraverso il ricercatore principale, Scott Bolton, dell’Istituto di ricerca sud-occidentale. La missione Juno fa parte del programma New Frontiers gestito dal NASA Marshall Space Flight Center di Huntsville, Alabama, per la Direzione Missionaria della Scienza. La sonda è stata costruita da Lockheed Martin Space Systems di Denver. Il JPL è una divisione del Caltech di Pasadena. Maggiori informazioni sulla missione Juno sono disponibili all’indirizzo:

httpss://www.nasa.gov/juno

https://missionjuno.org

Il pubblico può seguire la missione su Facebook e Twitter a:

httpss://www.facebook.com/NASAJuno

httpss://www.twitter.com/NASAJuno

DC Agle 
Jet Propulsione Laboratorio, Pasadena, California 
818-393-9011 / 818-354-6278 
agle@jpl.nasa.gov