mercoledì, Aprile 2, 2025
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La bufala dello Jinn

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di Oliver Melis

La notizia risale all’otto novembre del 2015, quando una creatura orrenda e misteriosa, che alcuni hanno paragonato a uno Jinn, creatura citata nel corano, è stata vista per le strade di Doha Corniche, in Qatar.

Un Jinn è, più o meno, la versione araba ortodossa di un Genio, quello della lampada di Aladino, per intenderci.

Nella nostra tradizione televisiva divenne famosa una genietta protagonista della sit-com “Genio per amore“.

Ma torniamo all’avvistamento del 2015: secondo la stampa locale, fu una donna ad incontrare la creatura in un parcheggio e, nonostante l’orrendo aspetto dell’insolito personaggio, la signora in questione ebbe la presenza di spirito di scattare una foto con il suo cellulare.

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L’immagine della misteriosa creatura ha subito preso a circolare sui media arabi e da lì è rapidamente diventata viìrale sui social.

La donna, testimone e autrice dell’immagine, raccontò di essersi molto spaventata all’apparizione della mostruosa, niente a che vedere con la deliziosa genietta di Strega per amore o con i simpatici geni di Walt Disney.

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L’avvistamento e la diffusione della foto in rete scatenarono una vera e propria psicosi di massa con centinaia di segnalazioni del presunto Jinn che si accavallarono in pochissimo tempo. L’unica cosa in comune tra i vari avvistamenti sembra essere stata la rapida sparizione del Jinn all’avvicinarsi delle persone.

Il notevole interesse sviluppato intorno alla vicenda stimolò l’interesse dei media; giova ricordare che i Jinn, nella cultura musulmana, sono creature citate nel corano il cui nome è spesso tradotto come genio o, arbitrariamente, come goblin o folletto. Nella religione preislamica e in quella musulmana è un’entità soprannaturale, intermedia fra mondo angelico e umanità.

Non trascorse molto tempo che i notiziari arabi svelarono il mistero individuando un brutto pupazzo, regolarmente in commercio, che manipolato per dargli fattezze più realistiche con l’aiuto di vernici e trucchi, era stato scambiato per vero da coloro che avevano visto la fotografia.

2Inutile dire che dei tanti testimoni che segnalarono di avere avvistato il misterioso Jinn non si sono più avute notizie e la stessa donna che per prima postò l’immagine è letteralmente scomparsa nel nulla.

Magari, vergognandosi per la brutta figura, si è rifugiata all’interno di una lampada.

Fonte: Red LCC

Revolver, l’IA che anticipa lo sviluppo dei tumori

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Un sistema di intelligenza artificiale chiamato Revolver sta rivelando modalità, in precedenza sfuggite ai ricercatori, di evoluzione comuni a tutti i tumori, attraverso le quali si sviluppano e diffondono sfidando i trattamenti terapeutici.

Le scoperte operate da questa IA potrebbero consentire ai medici di identificare con più precisione lo stadio di sviluppo delle neoplasie per stabilire protocolli più efficaci ed adatti per la terapia.

Secondo il professor Andrea Sottoriva, dell’Istituto di ricerca sul cancro di Londra, e responsabile del gruppo di studio che sta sviluppando Revolver “possiamo curare il cancro se riusciamo ad intervenire prima che lo sviluppo sia andato troppo avanti. La chiave sta nel metterci un passo avanti rispetto all’evoluzione della malattia e questo è ciò che dovrebbe permetterci di fare Revolver.“.

Revolver ha aiutato il team di Sottoriva a smascherare alcuni passaggi evolutivi chiave nei tumori. L’IA messa a punto dal gruppo di studio utilizza i dati di più pazienti per creare un “albero genealogico” genetico che rintraccia il modo in cui il cancro si evolve ed identifica la serie di mutazioni che più spesso portano al cancro.

Alcuni precedenti tentativi di creare alberi genealogici oncologici si sono spesso basati su campioni di singoli pazienti. Poiché, però, le mutazioni nei tumori sono così casuali e varie, anche in un unico paziente, le più importanti possono essere mascherate da innocue mutazioni di fondo e non essere identificate all’analisi.

Revolver ha aggirato questo problema analizzando simultaneamente i dati delle mutazioni avvenute in un campione di 178 pazienti, coprendo 768 varianti di tumore in quattro tipi di tumore: intestino, polmone , seno e rene.

Il lavoro dell’IA ha permesso di individuare con più precisione i passi evolutivi chiave dei tumori permettendo di distinguerli più chiaramente dalle mutazioni benigne. Tre mutazioni genetiche chiave erano individualmente già note come mutazioni cruciali dei polipi benigni nel colon nella trasformazione verso neoplasie maligne ma non erano mai state individuate contemporaneamente nello stesso paziente come, invece, è riuscito a fare Revolver.

L’IA ha immediatamente individuato le tre mutazioni dopo avere analizzato contemporaneamente i profili genici di 95 pazienti affetti da cancro del colon-retto. Inoltre ha identificato correttamente le mutazioni genetiche chiave già note che indirizzano l’evoluzione dei tumori polmonari, mammari e renali.

Comprendere l’evoluzione intra-tumorale durante la terapia del cancro è fondamentale per ottimizzare il trattamento“, ha spiegato Robert Gatenby del Moffitt Cancer Center di Tampa, in Florida, che ha aperto la strada a un metodo basato sulla teoria dei giochi per il trattamento del cancro alla prostata in sulla base dell’evoluzione. Secondo il medico statunitense,”Il gruppo di Sottoriva ha messo a punto un sistema molto sofisticato per predire l’evoluzione dei tumori e la sua rapida appliazione in campo clinico si rivelerà presto fondamentale.“.

Un altro passo in avanti verso una maggiore comprensione dei tumori e della loro terapia, un passo che apre strade interessanti amche nel capo della prevenzione.

Fonte: Nature Methods , DOI: 10.1038 / s41592-018-0108-x

Si risveglierà Opportunity?

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La tempesta di sabbia su Marte sta finalmente scemando e si prevede che entro un paio di settimane il cielo della Perseverance Valley tornerà abbastanza limpido da permettere ai pannelli solari di Opportunity di ricaricare le batterie del robottino. Alla NASA, il gruppo di scienziati ed ingegneri che seguono l’attività del rover Opportunity ha iniziato una serie di operazioni volte a stimolarne il risveglio. Purtroppo, non ci sono sicurezze, sostanzialmente si incrociano le dita e si aspetta che il robottino si faccia vivo.

Opportunity è andato in ibernazione, una sorta di safe mode, ai primi del giugno scorso, mentre si trovava nell’area di Marte denominata Perseverance Valley,  quando la polvere sollevata dalla grande tempesta che poi ha coperto tutto il pianeta per oltre tre mesi, è diventata troppa perchè dal cielo filtrasse luce sufficiente a permettere il corretto caricamento delle batterie. L’ultima comunicazione tra il rover ed il controllo missione è avvenuta il 10 giugno.

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Marte prima della tempesta di sabbia e durante nelle immagini scattate dal Mars Reconnaissance Orbiter. – MSSS / JPL-CALTECH / NASA

Ora, dopo quasi tre mesi, le osservazioni del Mars Reconnaissance Orbiter della NASA mostrano che la patina di polvere va calando. La speranza è che Opportunity riceva abbastanza luce per ricaricarsi e, se non ha subito danni dalla tempesta, risvegliarsi e tornare in attività. Dal momento in cui si riterrà che la luce nell’area del riposo di Opportunity sia adeguata a ricaricare le batterie, si tenterà per 45 giorni di comunicare con il robottino. Trascorso questo periodo, si assumerà che Opportunity non sia sopravvissuto alla tempesta e si smetterà di inviargli segnali.

La NASA, però, resterà ulteriormente in ascolto di eventuali segnali da Marte trasmessi dal piccolo rover. La speranza è che, se non potesse funzionare a causa di uno strato di polvere depositato sui pannelli solari, un colpo di vento abbastanza forte potrebbe ripulirli e permettere al rover di riprendere a funzionare anche dopo mesi.

In ogni caso, anche se Opportunity dovesse farsi vivo, non è affatto escluso che non sia in condizioni di operare.

Il freddo notturno di Marte, non compensato dal calore generato dalle batterie, potrebbe avere danneggiato sistemi critici e, anche se così non fosse, è quasi certo che dopo un periodo così lungo di ibernazione sarà necessario procedere al reset e al restart di quasi tutte le funzioni software.

Perseverance Valley potrebbe diventare l’ultima dimora di Opportunity. Non dimentichiamo che questo rover fu mandato su Marte quattordici (14) anni fa, poco dopo il suo gemello Spirit, per una missione che prevedeva 90 giorni di funzionamento e un percorso sul suolo marziano di un chilometro in tutto.

In 14 anni, Opportunity ha percorso più di 45 chilometri, dimostrandoci lungo il suo cammino che su Marte in passato fu presente acqua liquida. Se la sua corsa dovesse essere arrivata al capolinea (ma aspettiamo a darlo per morto, nel 2009 Opportunity sopravvisse ad una tempesta peggiore e più lunga dell’attuale), nessuno potrà criticare il piccolo robot, capace di calpestare con le sue ruote il suolo di un pianeta alieno arrivando, sicuramente, là dove nessun uomo, o manufatto umano, è mai giunto prima.

I Dogu

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di Oliver Melis

I Dogu sono statuette di animali o umanoidi realizzate durante il tardo periodo Jomon (14,000-400 aC) nel Giappone preistorico. Negli anni sessanta autori, come i russi Alexander Kazantsev e Vjaceslav Zajtsev resero celebri tali statuette affermando che raffigurassero antichi astronauti.

I viaggi spaziali dell’antichità appartengono a un ricco filone, la fantaarcheologia che, prendendo spunto da oggetti antichi ipotizza la presenza aliena sulla Terra migliaia di anni fa o la presenza di civiltà pre umane molto evolute tecnologicamente, in grado di costruire macchine capaci di spostarsi nello spazio.

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La teoria degli antichi astronauti è sostenuta principalmente dallo scrittore svizzero Erich von Däniken, autore di decine di libri che hanno rivisitato il passato della Terra e l’archeologia in chiave spaziale. Von Daniken ha ricevuto anche il premio IgNobel per la letteratura e i sinceri apprezzamenti degli scienziati svizzeri, che hanno definito il suo parco “pseudoscientifico” «una Černobyl culturale». 

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Secondo von Däniken il passato della Terra sarebbe costellato di tracce di antiche civiltà che avrebbero realizzato piste di atterraggio per i loro mezzi volanti. Nel libro Gli extraterrestri torneranno, von Däniken suggerisce che i disegni di Nazca «potrebbero anche essere stati costruiti secondo le istruzioni ricevute da un velivolo» e, naturalmente, la possibilità non ci mette molto a trasformarsi in certezza: «vista dall’alto, l’impressione precisa che mi ha fatto la piana di Nazca, lunga sessanta chilometri, è stata quella di un aeroporto». Ma non si può fare un’affermazione del genere sganciando quanto osservato dal contesto.

Torniamo alle statuette citate in apertura, le statuette Dogu: esse sono figure umanoidi o animali di piccole dimensioni realizzate in terracotta, risalenti a un periodo compreso tra i 10 mila e i 400 anni prima di Cristo. Ne sono state recuperate circa 20 mila, quasi tutte danneggiate, con dimensioni che vanno da pochi centimetri fino a raggiungere il mezzo metro. Si parte dalle più antiche, che sono anche le più piccole e realizzate in modo semplice per arrivare al 4 mila AC dove cominciano ad essere realizzate con gli arti superiori e inferiori. I volti compaiono intorno al 3000 aC. Le figure sono molto diverse, presentano corna, code e altre caratteristiche differenti tra di loro.

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Fin dagli anni 60 dello scorso secolo, si riteneva che le statuette raffigurassero la grande Madre, divinità legata alla fertilitàche si ritrova in moltissime civiltà antiche, oggi, invece, prevale l’idea che potessero essere dei giocattoli.

Certamente non rappresentano astronauti.

Chi ritiene che queste figure siano comparabili ad astronauti odierni fa un errore, descrive immagini reali ma appartenenti a una cultura estranea e distante millenni da quella attuale, senza conoscere il contesto religioso, quello artistico e storico delle culture che hanno prodotto quei manufatti. In pratica, è come se i fanta-archeologi osservassero delle macchie e ci vedessero qualcosa di conosciuto, una sorta di pareidolia che vede strutture note in forme che nulla hanno a che fare con quello che si immagina.

Come abbiamo visto, le statuette Dogu sono state prodotte in migliaia di anni, evolvendosi da forme più semplici a forme più complesse e non sono raffigurazioni di astronauti, come in genere la fanta archeologia vuole che si creda mostrando uno solo o pochi elementi decontestualizzandoli e reinterpretandoli in chiave moderna.

Quello che un fanta-archeologo interpreta in chiave moderna, ad esempio una statuetta con tuta spaziale, può essere interpretato come un corpo tatuato o dipinto o abbellito con delle vesti sacre. Sicuramente, è meno logico pensare che migliaia di anni fa esistessero umani o extraterrestri con equipaggiamenti spaziali simili a quelli prodotti attualmente.

Argomenti molto complessi come l’evoluzione artistica e culturale delle civiltà che si sno succedute nell’arco dei millenni non possono essere affrontti con superficliatà e faciloneria.

Tantomeno con malafede.

Allarme sulla ISS per una perdita d’aria

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La NASA ha annunciato che una “perdita lenta” è stata rilevata a bordo della Stazione Spaziale Internazionale. Secondo il comunicato, però, non c’è motivo di allarme per gli astronauti a bordo.

La fuga è stata segnalata ieri sera, 29 agosto 2018,  alle 23.00 ora locale della stazione, mentre gli astronauti dormivano. In quel momento, gli astronauti erano nello loro cuccette.

L’allerta è scattato quando il controllo missione, da Terra, hanno rilevata sugli strumenti di bordo una riduzione della pressione amosferica della stazione. Considerando il calo abbastanza lieve, gli astronauti non sono stati messi in allerta fino al mattino.

Al risveglio, l’equipaggio della ISS ha lavorato di concerto con il controllo missione per individuare la perdita: a quanto pare, il problema sembrerebbe essersi verificato nel modulo orbitale di una delle navicelle spaziali Soyuz ancorate alla stazione.

La NASA ha informato in un comunicato che “L’equipaggio è sano e salvo e dispone di aria sufficente per settimane.

Su Twitter, stamattina l’equipaggio ha cinguettato di non essere “in pericolo e si sta attivamente lavorando alla risoluzione del problema“.

Gli astronauti americani e i cosmonauti russi ora stanno lavorando con il controllo missione per trovare una soluzione al problema. Al momento la perdita è stata tamponata con un “cerotto” ma si sta lavorando per riparare definitivamente la falla.
Il buco è stato probabilmente creato da un micrometeoroide o da un relitto spaziale, anche se la causa esatta non è ancora nota. Si tratta, comunque, di una falla molto piccola: se avesse continuato a perdere, la ISS avrebbe finito l’aria solo dopo 18 giorni.

Sembra inoltre che il buco non sia abbastanza grande da causare problemi alla Soyuz MS-09 che sarà regolarmente utilizzata per riportare tre membri dell’equipaggio sulla Terra alla prossima rotazione dell’equipaggio. Il segmento orbitale, la sezione dove si trova la perdita, sarà espulso dalla navicella Soyuz prima che l’equipaggio attraversi l’atmosfera nel Modulo Discesa.

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La perdita è nel modulo orbitale. NASA

Eventi di depressurizzazione come questo, sulla ISS sono motivo di preoccupazione. La procedura prevede che se si scoprisse che un meteroide o un detrito spaziale abbastanza grande fosse in rotta di collisione con la ISS, l’equipaggio dovrà rifugiarsi nella navicella ancorata alla stazione, pronto per l’evacuazione in caso si verificassero danni gravi. Nel corso della sua vita la ISS ha subito in diverse occasioni piccoli impatti ma, finora, non è mai stato necessario procedere all’evacuazione.

Piccoli frammenti di detriti come i micrometeoroidi rappresentano tuttavia un grosso problema, in quanto le loro minuscole dimensioni (in genere inferiori a 2 millimetri) ne impediscono il tracciamento. Il rischio che possano colpire la stazione e causare problemi come l’attuale è sempre presente.

Al momento sembra che la perdita sia stata contenuta, anche se sarà necessario effettuare qualche intervento per la messa in sicurezza definitiva.

Quanto successo, però, rappresenta un promemoria su quanto possa essere precaria e rischiosa la vita trascorsa orbitando a 27.000 chilometri l’ora, 400 chilometri sopra le nostre teste.

Fonti: NASA, Twitter

Alieni, prove fotografiche. Quanto sono attendibili?

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di Oliver Melis

In ambito ufologico, molto prima che esistesse la rete, le prove più solide di un avvistamento erano le fotografie e capitava spesso che avvistamenti di UFO o alieni fossero corredati da foto che ritraevano il mezzo volante o l’alieno in questione, spesso a distanza ravvicinata e ricco di dettagli ma con sempre qualcosa di indefinibile.

Purtroppo, nessuna foto è mai riuscita a dimostrare che il fenomeno UFO sia da attribuire a esseri alieni che svolazzano nei nostri cieli. In un modo o nell’altro, tutte le foto di presunti dischi volanti o alieni sono state spiegate o come dei clamorosi falsi, anche a distanza di anni o, semplicemente, raffiguravano altro, per esempio fenomeni naturali.

Delle foto più famose che non solo mostrano i presunti mezzi volanti ma, addirittura, in una cinquantina di casi, i piloti alieni o presunti tali, in questo articolo ne valuteremo due.

Località: Alaska, Stati Uniti

La prima è una foto scattata nel 1930 da un nonno che, sul letto di morte, decise di donarla al nipote. Del “fotografo” che visse in Alaska, non conosciamo l’identità. L’immagine mostra quella che sembra un’entità aliena che, secondo quanto riferito dal nipote, fu avvistata dal nonno nei pressi di un lago. L’uomo riuscì a seguire l’essere e ad avvicinarsi abbastanza da scattare la foto, che fu sviluppata solo quattro mesi dopo, dato che si trattava di una zona remota, scarsamente popolata e lontana da un cetro abitato.

Il nipote ha riferito di avere ricevuto l’immagine da suo nonno in data 14/8/2003. Suo nonno sarebbe morto il giorno dopo avergli dato la foto, e raccontata la strana storia.

Dalla foto si può notare una figura che sembra guardare in direzione di chi scatta la foto. L’essere sembra indossare una tuta chiara. La strana posizione, leggermente inclinata alla sinistra di chi scatta la foto, come se fosse appoggiato su quel lato, fa supporre che, in realtà, l’alieno potrebbe essere un pupazzo sostenuto da un palo infilato nel terreno.

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L’alieno di Laredo (1948)

In questa seconda foto si può notare una sagoma umanoide riversa, faccia al suolo, con il braccio sinistro piegato che sembra presentare proporzioni anormali.

Una delle ipotesi avanzate per spiegare le foto fu quella di una scimmia della specie “rhesus” usata per i primi esperimenti di lancio di missili. Tuttavia, i razzi V-2 catturati alla Germania nazista, all’epoca usati dagli americani in Nuovo Messico a White Sands, avevano un’autonomia di 400 km, mentre la località messicana è lontana 1600 km.

Secondo un’altra ipotesi, la foto si riferirebbe ad un incidente aereo occorso negli Stati Uniti orientali. Un particolare, però, rende decisamente improbabile che si tratti di un cadavere alieno o di una scimmia: La foto non riproduce affatto un extraterrestre, ma un uomo comune. Lo dimostrerebbe la montatura metallica fusa di un paio di occhiali visibile accanto alla spalla del presunto alieno (nel cerchio rosso). Qualcuno ha obbiettato che se l’immagine fosse autentica sarebbe stato corretto mettere vicino al corpo carbonizzato, per un raffronto dimensionale, un oggetto noto e di uso comune. La montatura, però, se osserviamo con attenzione è sotto il cadavere e ciò rende il tutto decisamente poco plausibile, infatti, un oggetto utilizzato per il raffronto sarebbe stato posto in una posizione più visibile.

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Come si può capire, anche se lasciano qualche dubbio, nessuna di queste due foto è pienamente convincente e, anzi, fanno più propendere verso a bufala o un artefatto. Certamente c’è chi le considera come prove caposaldo della reale attività di alieni sulla superficie del nostro pianeta.

Asteroidi: useremo l’atmosfera della Terra per catturarli e metterli in orbita. Vantaggi e rischi.

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Ricordate l’articolo in cui si ipotizzava di catturare piccoli asteroidi e tenerli in orbita intorno alla Terra per utilizzarli in caso di bisogno contro asteroidi più grandi in rotta di collissione con il nostro pianeta

Dimenticatelo.

In un nuovo articolo apparso recentemente su Acta Astronautica, alcuni ingegneri spiegano di stare elaborando una strategia per deviare asteroidi verso la Terra, in modo che l’atmosfera del nostro pianeta possa rallentarli e permetterne il posizionamento in orbita dove potremmo sfruttarne le risorse. Secondo un ricercatore, Minghu Tan, dell’università di Glascow, Regno Unito, questa che potrebbe sembrare un’idea folle è, in realtà, una grande occasione di business.

Perchè business? Perché posizionare asteroidi in orbita terrestre potrebbe permetterci di sfruttarne facilmente le risorse come acqua e metalli preziosi, utili non solo sulla Terra ma anche a supportare le future missioni umane nello spazio. Bisogna, però, dire che diversi scienziati si sono espressi negativamente su questa idea.

Lo studio prevede l’utilizzo dell’aerobraking, cioè sfruttare la resistenza creata dall’atmosfera terrestre per rallentare il percorso di un oggetto in arrivo. L’aerobraking non è un’idea nuova: ogni astronave in fase di rientro sulla Terra lo usa per rallentare prima di atterrare, e anche diverse sonde che abbiamo inviato su altri pianeti, come le missioni Venus Express e ExoMars dell’Agenzia spaziale europea, hanno utilizzato questa tecnica per rallentare dalla velocità di crociera ed immettersi correttamente in orbita.

Nel loro studio, Tan ed i suoi colleghi propongono di utilizzare l’aerobraking per rallentare piccoli asteroidi abbastanza da evitare che proseguano oltre la Terra e si immettano in orbita dove potrebbero diventare vere e proprie miniere orbitali di materie prime. Le risorse estratte dagli asteroidi potrebbero poi essere utilizzate sulla Terra o portate alle stazioni spaziali per rifornire future missioni o operazioni. L’acqua, scrivono, potrebbe persino essere scissa in idrogeno e ossigeno per ottenere propellente. Tutto ciò che servirebbe è un veicolo spaziale, con o senza equipaggio, in grado di dare all’asteroide un spinta calcolata con precisione. 

Se la manovra fosse realizzata abbastanza lontano dalla Terra, probabilmente basterebbe una spinta minima per ottenere la deviazione richiesta. Ovviamente l’astronave dovrebbe seguire il cammino dell’asteroide, pronta ad effettuare eventuali correzioni di rotta.

Secondo l’astronomo Sherry Fieber-Beyer, non coinvolto nello studio, una simile impresa sarebbe grandiosa ma il direttore dell’osservatorio di studi spaziali dell’università del North Dakota a Grand Forks il cui commento evidenzia che, sebbene l’idea sembri buona e sulla carta sembri perfetta, c’è un grosso problema: sebbene le traiettorie di molti asteroidi prossimi alla Terra siano relativamente ben note, la loro composizione non lo è. Il metallo e altri materiali densi reagiscono in modo diverso rispetto alle rocce più leggere, e masse ed densità potrebbero creare problemi ed imprevisti. Un asteroide composto di ferro solido difficilmente potrebbe essere rallentato a sufficienza attraverso l’aerobraking. Inoltre, a volte, quelli che sembrano asteroidi non non altro che mucchi di terra e sassi privi diqualsiasi valore.

Allineato con Feiber-Beyer è anche il fisico Ingo Mueller-Wodarg, che studia le atmosfere planetarie all’Imperial College di Londra. A suo avviso, un altro potenziale problema sta nel fatto che gli asteroidi non sono sfere perfette e che un oggetto con una forma molto irregolare potrebbe oscillare imprevedibilmente e andare fuori controllo.

In effetti, l’aerobraking delle sonde spaziali viene gestito anche grazie a piccoli razzi frenanti la cui azione permette di compensare oscillazioni o rotazioni impreviste e mantenerli in rotta.

Il rischio maggiore è, secondo Mueller-Wodarg e Fieber-Beyer, che un piccolo errore potrebbe far precipitare l’asteroide sulla Terra, causando morte e distruzione. 

La risposta di Tan a questa obiezione è che dovrebbero essere coinvolti in queste attività solo asteroidi di diametro inferiore ai 30 metri che, in caso di errore, si vaporizzerebbero attraversando l’atmosfera inferiore, anche se riconosce che sarebbe necessaria molta cautela nello spostare un asteroide costituito da un materiale più denso come il ferro, che potrebbe non bruciarsi completamente.

Insomma, il sistema indicato da Tan sembrerebbe avere il pregio di essere economico e vantaggioso anche logisticamente ma non lascia spazio neanche a piccoli errori, tanto è rischioso.

Esistono già aziende come Deep Space Industries e Planetary Resources che stanno progettando sistemi per catturare asteroidi per estrarne le risorse e potrebbero essere tentate di valutare progetti come quello di Tan e collaboratori. In effetti sono già noti oltre mille asteroidi che si adattano ai requisiti di tipologia e taglia previsti dal lavoro di Tan.

Certo, l’idea di dirigere intenzionalmente un asteroide di una certa dimensione verso la Terra per scopi economici potrebbe avere qualche detrattore e incontrare una certa opposizione.

Per informazioni, basta chiedere ai dinosauri.

Fonte: Science

L’intelligenza artificiale è una priorità per le nazioni moderne

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Per gli Stati Uniti, l’intelligenza artificiale è una priorità da cui non si può prescindere: a sostenerlo è niente meno che l’ex generale Jim Mattis, Segretario alla Difesa, il quale si è rivolto direttamente al presidente Donald Trump per mettere in evidenza la necessità per il Pentagono di avvalersi della IA. Non è la prima volta, per altro, che Mattis si espone in tal senso: già nel mese di maggio del 2018, infatti, la Casa Bianca era stata invitata a individuare una strategia ad hoc. Non solo: perfino Henry Kissinger si è espresso sul tema.

Perché c’è bisogno dell’intelligenza artificiale?

Le ragioni per le quali Mattis punta l’attenzione sull’intelligenza artificiale vanno ricondotte a questioni di sicurezza: dal cyber spazio, infatti, provengono minacce pericolose per gli Usa. Oltre a ciò, è sempre importante concentrarsi sulle strategie di sviluppo ed evoluzione delle nuove tecnologie: in caso contrario, il rischio è che gli Stati Uniti rimangano indietro rispetto agli altri Paesi a livello militare, oltre che nell’ambito dei servizi e dell’industria; tutti settori in cui le reti neurali hanno acquisito un ruolo primario. Si pensi, per esempio, alle armi di nuova generazione, ma anche ai veicoli che si guidano da soli, o alla produzione automatizzata: tutti elementi che fanno pensare all’intelligenza artificiale come alla molla che ha dato il la alla rivoluzione del digitale.

Intelligenza artificiale in Europa

Da questa parte dell’Oceano Atlantico, la Commissione Europea non più tardi dello scorso mese di aprile, ha reso noto l’intenzione di far salire gli investimenti globali in questo ambito a venti miliardi di euro entro il 2020. Andrus Ansip, il vice presidente della Commissione, ha paragonato l’intelligenza artificiale al vapore e all’elettricità per la sua capacità di trasformare il mondo. In Francia, Emmanuel Macron ha dichiarato di avere in mente uno stanziamento pari a un miliardo e mezzo. Il resto del mondo, per altro, non sta a guardare: in Cina sono stati investiti diciotto miliardi di euro, ma nel 2025 questa cifra è destinata a raddoppiare.

Intelligenza artificiale in Italia

Per una volta, il nostro Paese non è l’ultima ruota del carro, anche per merito del Cini Aiis, il Laboratorio nazionale di Artificial Intelligence and Intelligent System a capo del quale c’è Rita Cucchiara: il suo compito è quello di garantire il miglior coordinamento possibile tra gli istituti di ricerca e gli atenei pubblici (sono coinvolti anche il Cnr e l’Iit); va detto, però, che il governo italiano non ha ancora adottato iniziative in tal senso.

La risposta di Trump

Tornando a Washington, per il momento Donald Trump non si è ancora pronunciato in via ufficiale, o comunque la sua risposta non è stata resa nota. Quel che è certo è che già in passato la Casa Bianca aveva annunciato l’intenzione di dare vita a un team di studio a proposito di questo argomento; tuttavia per il Pentagono questo non sembra essere sufficiente, a dispetto dei quasi due miliardi di dollari con cui è stato pagato il Joint Artificial Intelligence Center. Non si può escludere, per altro, un’alleanza con i colossi del settore: i laboratori più all’avanguardia sono quelli di Facebook, di Google, di Ibm, di Amazon e di Microsoft, anche se il ricorso a tecnologie in ambito militare in queste azienda non ha mai suscitato particolari entusiasmi. Il caso Maven è esemplificativo in tal senso, con Google che aveva deciso di non proseguire la collaborazione con il Pentagono in seguito alle lamentele dei dipendenti. Addirittura, molti manager e tecnici sono arrivati a dimettersi per non collaborare con la piattaforma di intelligenza artificiale che veniva utilizzata per esaminare le immagini riprese dai droni dell’esercito.

Il contattista e i marziani

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di Oliver Melis

Cedric Allingham, nato il 27 giugno 1922, è uno scrittore inglese che ha raccontato nel libro del 1954 “Flying Saucer from Mars” di aver incontrato il pilota di un disco volante proveniente da Marte.

Allingham, che il 18 febbraio 1954 trascorreva una vacanza nei pressi di Lossiemouth, raccontò di aver visto un disco volante e di aver comunicato con il suo pilota tramite gesti e telepatia. L’astronauta aveva fatto intendere di provenire da Marte e che aveva anche visitato Venere e la Luna. Come prova a sostegno della sua strana storia, Allingham esibì una serie di fotografie sfocate del disco volante e di uno dei suoi occupanti, raffigurato di “schiena”.

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Lo scrittore ha anche affermato che un pescatore di nome James Duncan aveva assistito all’evento da una collina vicina, fornendo una dichiarazione firmata che è stata riprodotta nel suo libro. Il libro di Allingham attirò una discreta attenzione dai media, forse anche perché in quel periodo le storie sui dischi volanti avevano molto successo, grazie anche ai racconti del noto contattista e scrittore George Adamski.

Anche la rivista TIME gli dedicò un articolo all’inizio del 1955. La British Interplanetary Society, suggeri che Allingham aveva una fervida immaginazione e che qualcuno forse lo aveva preso in giro. I ricercatori dei dischi volanti più popolari all’epoca tentarono di intervistare Allingham, ma sia lui che James Duncan si dimostrarono straordinariamente inafferrabili. Nessuno sapeva dove realmente fossero.

Anche lo scrittore Robert Chapman tentò di rintracciare Alingham ma gli editori gli dissero che era ricoverato in Svizzera per una grave malattia e che in seguito era deceduto. Chapman confermò che Allingham aveva tenuto una lezione nel Sussex, in cui il noto conduttore, astronomo e noto scettico UFO Patrick Moore sosteneva di averlo incontrato. Incapace di individuare Duncan o Allingham, e quindi sospettando qualche forma di burla, Chapman concluse con rammarico che “se non c’era James Duncan e quindi nessun visitatore da Marte, forse non c’era nemmeno Cedric Allingham“.

Il mistero fu, infine, svelato nel 1986, a seguito delle ricerche di Christopher Allan e Stuart Campbell, pubblicate nella rivista Fortean Magonia. In “Flying Saucer of Moore’s?“, Sostenevano che la prosa del libro di Allingham mostrava somiglianze significative con la scrittura del famoso astronomo Patrick Moore.

Grazie a ulteriori indagini riuscirono a rintracciare un amico di nome Peter Davies che ammise di aver scritto il libro con un altro individuo che ha rifiutato di nominare. Davies ha anche affermato che il discorso al club UFO di “Allingham” era stato dato da lui mentre indossava un paio di baffi finti.

Moore ammise di essere stato invitato da Lord Dowding a fare da ospite a questo incontro.

Questi e altri indizi portarono Allan e Campbell a identificare Patrick Moore come il principale colpevole della beffa, che aveva lo scopo di svelare la creduloneria e i metodi di ricerca acritici degli ufologi britannici. Moore, tuttavia, ha sempre negato di essere l’autore del libro di Allingham.

Moore è morto nel 2012, non ha mai confermato il suo coinvolgimento nella faccenda, anche se il telescopio, il fogliame di fondo e la porzione di capanno mostrati nel ritratto del libro di Allingham hanno una notevole somiglianza con il telescopio riflettore da 12½ pollici nel giardino di Moore.

Fonti: Massimo Polidoro, l’esploratore dell’insolito, Wikipedia

Un nuovo studio sostiene che potrebbe essere possibile inviare messaggi nello spazio-tempo attraverso i wormholes

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Un team di ricercatori dell’Università di Cambridge, in Inghilterra, hanno stabilito un fondamento teorico per la realtà dei wormhole, o tunnel di Einstein-Rosen.

Un tunnel di Einstein-Rosen, o wormhole, è un oggetto misterioso che affascina scienziati e non. Il nome, più che altro fantascientifico, significa letteralmente “buco di verme” e si pensa che, sostanzialmente, sia un collegamento tra due punti dello spazio-tempo. Questi “tunnel” apparvero per la prima volta come soluzione delle equazioni di campo di Einstein. Sono infatti chiamati anche ponti di Einstein-Rosen, dai nomi del celebre scienziato Albert Einstein e dal suo allora assistente statunitense Nathan Rosen.

Secondo alcune teorie, entrando in un tunnel di Einstein-Rosen sarebbe possibile sbucare quasi istantaneamente all’altra estremità del tunnel nonostante entrata e uscita possano distare tra loro fisicamente anche miliardi di anni luce. Fu teorizzato che potesse esistere un oggetto così massivo da essere in grado di bucare il piano spazio temporale collegando due punti come un cunicolo. Questo oggetto estremamente massivo deve essere compresso in un raggio relativamente piccolo, detto raggio di Schwartzschildrs=2GMc2. Questi oggetti vengono anche chiamati “singolarità”, un nome che spesso si sente associare ai buchi neri. Difatti l’entrata di questo del ponte di Einstein-Rosen sarebbe per l’appunto un buco nero, mentre quello d’uscita viene detto buco bianco.
Questi ponti possono collegare due punti dello stesso spazio-tempo (cunicoli intra-universo) o, volendo seguire la discussa M-teoria, due brane (“membrane”) distinte che entrano in contatto tramite il wormhole. Secondo questa teoria, nata per provare a riunificare le cinque teorie delle stringhe, l’universo sarebbe una brana tridimensionale immerso in un iperspazio ad 11 dimensioni. In questo modello esisterebbero altri infiniti universi costituiti da brane n-dimensionali che fluttuano in questo enorme iperspazio e i wormhole, quindi fornirebbero una via per passare da un universo all’altro (cunicoli inter-universo).

Ma c’è un problema: i wormhole di Einstein-Rosen sarebbero estremamente instabili e non rimarrebbero aperti abbastanza a lungo da far passare qualcosa.

Kip Thorne del California Institute of Technology ipotizzò in uno studio che i wormhole potessero essere mantenuti aperti usando una forma di energia negativa chiamata energia Casimir. In fisica l’effetto Casimir consiste nella forza attrattiva che si esercita fra due corpi estesi situati nel vuoto (ad esempio due piastre parallele), dovuta alla presenza del campo quantistico di punto zero.

Tale campo trae origine dall’energia del vuoto determinata da particelle virtuali che si creano continuamente per l’effetto di fluttuazioni quantistiche, secondo quanto previsto dal principio di indeterminazione di Heisenberg.

Il fenomeno prende il nome dal fisico olandese Hendrik Casimir che, nel corso delle sue ricerche sull’origine delle forze viscose nelle soluzioni colloidali, lo teorizzò nel 1948 in base a considerazioni di meccanica quantistica.

La meccanica quantistica ci dice che il vuoto dello spazio-tempo pullula di fluttuazioni quantistiche casuali, che creano ondate di energia. Ora immaginiamo due piastre di metallo che fluttuano parallele in questo vuoto. Alcune onde di energia sono troppo grandi per stare tra le piastre, quindi la quantità di energia tra loro è inferiore a quella che li circonda. In altre parole, lo spazio-tempo tra le piastre ha energia negativa.

I tentativi teorici di utilizzare tali piaste per mantenere aperti i wormhole sono finora risultati insostenibili. Ora Luke Butcher dell’università di Cambridge potrebbe aver trovato una soluzione.

L’ipotetica soluzione stabilita a Cambridge ha a che fare con le proprietà dell’energia quantica e dimostra che anche i vuoti si uniscono per mezzo di onde di energia.

Nelle giuste circostanze, la forma tubolare del wormhole stesso potrebbe generare energia Casimir? I calcoli mostrano che se la gola del wormhole è di svariati ordini di grandezza più lunga della larghezza della sua bocca, effettivamente crea energia Casimir al suo interno.

Sfortunatamente, questa energia non è sufficiente per mantenere stabile il wormhole a lungo” ha dichiarato Butcher.

C’è, però da aggiungere che l’esistenza di energia negativa permette al wormhole di crollare molto lentamente. Ulteriori calcoli mostrano che il centro del tunnel spaziale potrebbe rimanere aperto abbastanza a lungo da permettere a un impulso di luce di attraversarlo.

Un wormhole è una scorciatoia attraverso lo spazio-tempo, quindi inviarvi dentro un impulso luminoso potrebbe consentire una comunicazione più veloce della luce. E poiché le due bocche di un wormhole possono esistere in momenti diversi, in teoria un messaggio potrebbe essere inviato nel tempo.

Butcher avverte che sarà necessario molto più lavoro per confermare che altre parti del wormhole oltre al centro rimangono aperte abbastanza a lungo da permettere alla luce di arrivare fino in fondo. Ha anche bisogno di capire se un impulso abbastanza grande da trasmettere informazioni significative potrebbe sgattaiolare attraverso la gola che crolla lentamente.

E, naturalmente, siamo molto lontani dal tradurre le equazioni teoriche in un oggetto fisico.

Fonti: arxiv.org – portale misteri – DifferentReccom Magazine