mercoledì, Aprile 2, 2025
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Per salvare il pianeta dovremo restituirne metà alla flora e alla fauna selvatica

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Il mondo è ufficialmente sull’orlo di un sesto evento di estinzione di massa, principalmente a causa nostra miopia che ci impedisce di credere davvero al pericolo che si sta preparando e non ci fa rinunciare ad una quantità di cose di cui potremmo fare a meno, permettendoci di diminuire in modo importante le emissioni di gas serra. Sono ormai molti gli scienziati che stanno tentando di avvisarci che è necessario apportare cambiamenti urgenti al modo in cui gestiamo le risorse della Terra se vogliamo prevenire una crisi di biodiversità veramente apocalittica. Questa esortazione è contenuta in un editoriale pubblicato sulla rivista Science la scorsa settimana.

Sostanzialmente, l’editoriale sostiene che è necessario tornare a condividere parti più grandi del pianeta con i nostri coinquilini: piante e animali. Ignorare questo avviso potrebbe portare conseguenze nefaste per tutti.

L’editoriale, scritto dal capo scienziato della National Geographic Society Jonathan Baillie e dal biologo dell’Accademia cinese di scienze Ya-Ping Zhang, spiega che i governi di tutto il mondo si stanno incontrando al Convegno sulla diversità biologica a Pechino per discutere degli obiettivi di biodiversità. Se vogliamo evitare il collasso della fauna selvatica del mondo, bisogna restituire il 50% della terra e degli oceani del mondo a flora e fauna e a proteggerli entro il 2050.

In parole povere, abbiamo raggiunto il limite di spazio ed energia disponibili sul pianeta, dobbiamo decidere quanto siamo disposti a condividerli con gli altri abitanti per preservare l’ambiente“, scrivono Zhang e Baillie.

Se vogliamo veramente proteggere la biodiversità e fruire dei benefici degli ecosistemi, i governi di tutto il mondo devono stabilire un programma molto ambizioso per ampliare le aree protette, assicurandosi che vi siano le risorse necessarie a realizzarlo.

Sia da un punto di vista etico che funzionale, il depauperamento in corso degli ecosistemi naturali è estremamente preoccupante.”

La maggior parte delle stime effettuate dagli scienziati dimostra che è necessario proteggere tra il  25 e il 75 per cento di ogni ecosistema per salvaguardare la biodiversità. Zhang e Baillie ammettono che si tratta di una sfida colossale per tutta l’umanità.

Fissare obbiettivi troppo bassi potrebbero avere importanti implicazioni negative per le generazioni future e per tutta la vita sulla terra, pertanto ogni stima deve essere errata per eccesso“, spiegano.

Non a caso, la nuova ondata di estinzioni di massa arriva in un momento di crescita esponenziale della popolazione umana. Ad inizio 2018, c’erano 7,4 miliardi di esseri umani sul pianeta, ma questo numero potrebbe salire ad oltre 10 miliardi entro il 2050. Gli esseri umani costituiscono circa il 36% della biomassa totale dei mammiferi sulla Terra. Un incredibile 60% è il bestiame utilizzato dagli esseri umani, e solo il restante 4% è costituito da mammiferi selvatici.

La massiccia presenza umana ha, inevitabilmente, un effetto distruttivo sull’ambiente e sui suoi abitanti, sia attraverso la distruzione diretta degli habitat, sia attraverso l’introduzione forzata di specie invasive dovuta alla riduzione degli spazi vitali. Dobbiamo fare qualcosa e dobbiamo farlo presto.

Quanta parte del pianeta dovremmo lasciare alle altre forme di vita? Questa è la domanda con cui l’umanità deve ora cimentarsi“, concludono i dei scienziati.

 

La Nike, gli illuminati, Irving e la Terra piatta

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di Oliver Melis

Nel variegato mondo del cospirazionismo, spesso i grandi gruppi industriali, o personaggi particolarmente ricchi, famosi ed influenti, vengono associati agli Illuminati o a altri gruppi che segretamente, ma non troppo, decidono e influenzano in modo occulto le sorti dell’umanità. Questa sorte è toccata anche alla famosa Nike, marca di abbigliamento che produce capi di vestiario, accessori e scarpe.
La foto sotto mostra una scarpa del marchio Nike con il misterioso simbolo, il triangolo che racchiude l’occhio “che tutto scruta”. Chi possiede un paio di queste scarpe però non deve preoccuparsi, non ha venduto la sua anima a nessuno e nessuno lo manipola. Il simbolo sulla scarpa però c’è veramente, ma vediamo per quale ragione:

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Inanzitutto Il simbolo “All-Seeing Eye” è incluso nella linea di sneakers Nike “Kyrie 4” e non in tutte le scarpe della Nike, come, inveve, qualcuno in rete vorrebbe farci credere. Non è un cenno agli Illuminati e non è una prova che la Nike abbia “abbracciato il satanismo“.

Il simbolo è, in effetti, un elemento della linea Nike Sneaker Signature di Kyrie Irving di NikeKyrie 4“, ed è presente in numerose riprese di prodotti come si può constatare tramite il sito Web ufficiale Nike:

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Il simbolo raffigurato su queste scarpe è un “occhio onniveggente“, un simbolo che è stato associato a gruppi diversi nel corso della storia. Conosciuto anche come Occhio della Provvidenza, questo simbolo è stato usato per rappresentare l’onnipresenza di Dio ed è anche spesso usato in riferimento agli Illuminati, una presunta società segreta al centro di numerose teorie cospirative. Lo stesso simbolo è anche rappresentato sul retro della banconota da 1 dollaro degli USA:

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Nethongkome, che ha realizzato la linea di calzature, ha spiegato perché ha scelto di utilizzare quel simbolo in un’intervista rilasciata a dicembre 2017 con Bleacher Report nel periodo in cui è stata rilasciata la linea “Kyrie 4“:
Un ultimo dettaglio che abbiamo aggiunto è proprio dietro la linguetta in pelle: un occhio grafico che tutto vede“, dice Nethongkome. “Non rappresenta gli illuminati. Il terzo occhio significa sfidare tutti a pensare oltre ciò che vedono“.

Forse quello che incuriosisce nella storia è il legame che creano i cospirazionisti associando la scarpa con il marchio degli “Illuminati” alla linea dedicata a Kyrie Irving, un giocatore di basket dei Boston Celtics che ha affermato in almeno un’occasione che la terra è piatta.
Kyrie Irving ha espresso dubbi sulle evidenze scientifiche che dimostrano senza ombra di dubbio che la Terra è sferica affermando che non crede a scatola chiusa a quello che gli viene raccontato. Irving afferma di non essere un cospirazionista ma, semplicemente, di non accettare quelle che vegnon definite dimostrazioni scientifiche. Se la cosa riguardasse solo lui non sarebbe un gran problema, purtroppo un personaggio con la sua popolarità può facilmente influenzare chi lo vede come un modello o un punto di riferimento.

Irving infatti, è uno dei giocatori più famosi della NBA e le sue parole possono avere anche degli effetti nocivi sui ragazzi. Negli USA, in alcune scuole i professori di scienze sono stati messi in discussione dagli studenti, convinti del fatto che la Terra non sia rotonda, ma piatta “come affermato dal nostro idolo Kyrie Irving”. Un effetto che potrebbe creare non pochi problemi soprattutto oggi, con la difusione di informazioni incontrollate su internet.

Essere famosi e popolari comporta anche delle responsabilità nei confronti dei propri fan e lasciarsi andare a dichiarazioni ad effetto solo per far ulteriormente parlare di sè può, in alcuni casi, creare dei problemi in un modo dove la rete è inquinata da bufale e siti cospirazionisti hce cercano ogni occasione per avere nuovi argomenti che li accreditino presso la massa dei potenziali lettori.

Il tutto sempre con l’unico scopo di fare quattrini sulle spalle di ingenui e creduloni. Essere Kyrie Irving, nonostante le doti fisiche, lo splendido fisico ed i guadagni spaventosi, non autorizza a distribuire ignoranza a piene mani, soprattutto essendo consapevoli di essere il primo ignorante.

Fonti: Snopes.com; Sky sport.



Riaperto l’osservatorio di Sunspot. Sono moltissimi i siti complottisti sbufalati e ridicolizzati

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Niente alieni, e nemmeno brillamenti solari da giorno del giudizio.

No, il Sunspot Solar Observatory, l’osservatorio solare sito in New Mexico, misteriosamente chiuso nei giorni scorsi dall’FBI, che aveva rifiutato di fare qualunque genere di commento sulla vicenda dando adito, sui siti cospirazionisti di tutto il mondo, ad una ridda di ipotesi che andavano da una follta UFO in arrivo ad un’ipotetico brillamento solare molto potente, in realtà è stato chiuso per 10 giorni a causa di un’indagine penale.

AURA ha collaborato con un’indagine delle forze dell’ordine in corso sull’attività criminale verificatasi a Sacramento Peak“, ha comunicato il vertice di AURA in una dichiarazione pubblica. “Durante questo periodo, ci siamo preoccupati che un sospetto nell’inchiesta potesse potenzialmente rappresentare una minaccia per la sicurezza del personale locale e dei residenti, per questo motivo AURA temporaneamente ha lasciato la struttura e ha cessato le attività scientifiche in questo luogo“.

Ma le cose stanno per tornare alla normalità.

Alla luce dei recenti sviluppi nelle indagini, abbiamo determinato che non vi è alcun rischio per il personale, e il Sunspot Solar Observatory sta riprendendo a svolgere tutte le normali operazioni“, conclude il comunicato.

I funzionari di AURA avevano precedentemente citato un “problema di sicurezza” come causa della chiusura (che riguardava anche un vicino ufficio postale) ma non rilasciato ulteriori chiarimenti. L’intervento dell’FBI aveva isolato l’osservatorio ed il vicino ufficio postale ma nessuno, nemmeno le autorità locali, erano a conoscenza di cosa stesse accadendo.

Come spesso accade, rumors incontrollati si sono affrettati a riempire il vuoto di informazioni. Le speculazioni andavano da ipotesi improbabili come un tentativo del governo di insabbiare notizie su avvistamenti di astronavi aliene ad un distruttivo brillamento solare in arrivo, fino alla più plausibile possibilità che qualche spia avesse piazzato equipaggiamenti di sorveglianza sui terreni del Sunspot, per osservare le operazioni svolte al White Sands Missile Range e alla Holloman Air Force Base.

Quest’ultima spiegazione potrebbe ancora essere in gioco; AURA non ha rivelato la natura dell’attività criminale oggetto di indagine.

Ci rendiamo conto che la mancanza di notizie durante il periodo dell’evacuazione sia stata preoccupante e frustrante per alcuni“, ha aggiunto un funzionario di AURA. “Tuttavia, il nostro desiderio di fornire informazioni aggiuntive era controbilanciato dal rischio che, se diffuse in quel momento, le notizie avrebbero allertato il sospettato e ostacolato le indagini delle forze dell’ordine, un rischio che non potevamo correre“.

insomma, anche stavolta la festa è finita per i siti cospirazionisti e scandalistici. Avranno ottenuto tanti click con le ardite ma fantasiose ipotesi pubblicate nei giorni scorsi. Basteranno per consolarsi.

A proposito, sono sempre aperti anche gli altri sei osservatori in tutto il mondo che non sono mai stati chiusi, nonostante la notizia contraria che si rilanciavano i siti bufalari e complottari per dare maggior crdito alle loro ipotesi complottiste.

I taxi volanti stanno per diventare realtà?

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Quante volte in quelle giornate in cui il traffico cittadino appare difficile da evitare hai desiderato di avere a disposizione un taxi volante in grado di portarti a destinazione in pochi minuti  sorvolando gli ingorghi della città? Tempo fa affrontammo questo tema in un articolo sul Lilium Jet ed uno su Uber. Da allora, quanto ci siamo avvicinati al trasformare in realtà quest’idea?
Uber è andata avanti con i suoi piani e, secondo alcuni esperti, l’ambizione di avviare una flotta di taxi aerei potrebbe, potenzialmente, diventare realtà nel giro di tre o quattro anni.
La Vertical Aerospace, nel Regno Unito, ha completato un volo di prova per il suo prototipo senza equipaggio nel giugno 2018 dopo aver ottenuto il permesso di volo da parte dell’Autorità per l’aviazione civile del paese.
Il velivolo VTOL, che pesa 750 chilogrammi, è stato progettato, costruito e pilotato in soli 12 mesi.
Fondata dal CEO di OVO Energy, Stephen Fitzpatrick, nel 2016, Vertical Aerospace mira a rivoluzionare il modo in cui le persone volano garantendo il trasporto aereo con voli privati, on demand e senza emissioni di carbonio tra città diverse.

Rivoluzione del volo

I numeri dei passeggeri per i voli a corto raggio sono esplosi negli ultimi anni, di conseguenza l’aviazione contribuisce in modo importante al cambiamento climatico e all’inquinamento atmosferico locale“, spiega Stephen Fitzpatrick,noi vogliamo rendere puliti i viaggi aerei e dare alle persone la libertà di volare dal loro quartiere direttamente alla loro destinazione“.
Basandosi sulla tecnologia utilizzata nelle corse di Formula 1, punta a lanciare i servizi VTOL su specifiche rotte interurbane del Regno Unito nei prossimi quattro anni.
I materiali leggeri, l’aerodinamica e i sistemi elettrici sviluppati attraverso la F1 sono altamente applicabili agli aerei, molto più che al trasporto su strada“, aggiunge Fitzpatrick, che continua: “Mettendo queste tecnologie nelle mani di esperti ingegneri aerospaziali, possiamo costruire velivoli all’avanguardia per il 21° secolo.”
Naturalmente, l’ide a di realizzare dei taxi aerei è in via di sviluppo da diversi anni, con Uber che funge da principale forza motrice.
Recentemente, al summit annuale Uber Elevate, tenutosi lo scorso maggio, Uber ha rivelato nuovi dettagli del suo progetto di una rete di taxi volanti alimentati elettricamente.
Questo sistema vedrebbe i passeggeri semplicemente aprire un’app, toccare un pulsante per prenotare il passaggio e saltare su un ascensore fino al vertiport più vicino.
Da qui un UberAIR in attesa li porterebbe in volo alla destinazione prescelta.
Uber ha deciso di lanciare il servizio inizialmente a Los Angeles e Dallas, più una terza città che verrà decisa entro il 2023. I test degli aerei inziaranno nel 2020.
taxi volante
Il Taxi Volante di Uber
Sono obiettivi difficili, ma pensiamo che sia importante promuovere l’eccellenza“, afferma Eric Allison, Head of Aviation di Uber.
La data del 2020 richiede che i nostri partner costruiscano veicoli da testare in un ambiente sperimentale per verificare parametri chiave come rumore, autonomia e carica della batteria“.
Finora Uber ha lavorato con una serie di partner aerospaziali di livello mondiale come la NASA, per i suoi sistemi di controllo del traffico aereo, nonché diversi produttori di aeromobili per progettare i modelli di decollo e atterraggio verticale, tra cui Pipistrel Aircraft , Bell Helicopter , Aurora Flight Sciences di Boeing , Karem Aircraft , Corgan ed Embraer.
Il progetto base dei velivoli VTOL di Uber deve rispondere a determinati requisiti, tra i quali, sicurezza, accumulo di energia, basso rumore, carico utile e basse emissioni.
Oltre ai cinque principali produttori, l’idea è che altre aziende creino le proprie iterazioni VTOL, basando il loro lavoro su un modello base progettato da Uber.
Attualmente, più di 70 produttori stanno sviluppando progetti VTOL da utilizzare sulla futura rete di Uber.
I requisiti di base prescritti da Uber per i VTOL da impegare sulla futura rete Uber, prescrivono che i velivoli dovranno essere in grado di spostarsi tra i 240 ed i 320 chilometri orari a un’altitudine tra 300 ed i 600 metri, con una durata della batteria di almeno 60 miglia prima di dover ricaricare.
Inizialmente i taxi volanti saranno pilotati da piloti commerciali, che Uber spara siano attratti dalla prospettiva di poter lavorare più vicino a casa. Più avanti, diciamo tra 10 o 20 anni, Uber intende sostituire i piloti umani con mezzi autoguidati dotati di IA.
I punti di stazionamento e decollo saranno costituiti da tetti di edifici selezionati appositamente ed eliporti già esistenti, che verranno dotati di punti di ricarica per le batterie.
Lo sviluppo di modelli di gestione dello spazio aereo è il settore in cui Uber non ha ancora competenze e la partnership stabilita con la NASA, che, al contrario, è più che qualificata nel settore, servirà, attraverso due Space Act Agreement, a sviluppare la gestione di reti di trasporto aereo nelle aree urbane.
La partnership con la NASA è incentrata sulla simulazione delle capacità di controllo del traffico aereo, utilizzando la loro esperienza unica per gestire grandi volumi di questi veicoli in volo e per mostrare come i diversi sistemi possono integrarsi insieme“, afferma Allison.
La NASA sostiene di volersi assicurare che l‘integrazione di questi piccoli aerei non metta a dura prova l’attuale sistema di controllo del traffico aereo.
I dati forniti da Uber aiuteranno a gestirlo, simulando le condizioni del traffico aereo negli orari di punta e attingendo alla ricerca in aree come la gestione del traffico a bassa quota e la sicurezza a livello di sistema per progettare una rete che funzioni.

Ridurre i costi di guida

 

 

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Il primo mezzo volante di Uber dovrebbe iniziare i test nel 2020.
Ma quanto sarà conveniente?
Gli esperti sono dubbiosi, ma Allison insiste sul fatto che l’uso dell’energia elettrica farà abbassare i prezzi.
“Il costo per miglio per far funzionare un elicottero è di circa $ 9, e pensiamo che applicando semplicemente la tecnologia di propulsione elettrica, possiamo ottenere il costo per miglio fino a poco più di $ 5, che equivale approssimativamente ad un prezzo Uber Black (la proposta lusso per clienti particolarmente facoltosi) “spiega.
Uber sostiene anche che sarà anche in grado di raggruppare i piloti nello stesso modo in cui lo fa a terra, quindi il costo potrà essere diviso tra i quattro passeggeri dell’aereo. Ciò riduce la spesa del miglio passeggeri al prezzo di un Uber X (una berlina a quattro passeggeri).
Allison aggiunge che, nel lungo periodo, la tecnologia con autopilota gestito dalla IA, insieme alla produzione di massa di questi velivoli, potrebbe spingerev erso il basso i prezzi fino al punto in cui prendere un UberAIR come il mezzo di trasporto potrebbe essere più economico che possedere un’auto.

Per i molti?

Nonostante gli sforzi di Uber per imitare il suo modello di terra nell’aria, c’è qualche dubbio che un servizio di condivisione del viaggio aereo potrebbe essere conveniente come questo.
Non esiste un’enorme base già pronta per ospitare i VTOL. Tutto il supporto necessario per i velivoli dovrà essere implementato in tutti i punti di imbarco / sbarco e c’è il rischio che modelli diversi di VTOL necessiteranno di un diverso tipo di supporto”, afferma Alan Lewis, amministratore delegato della società di consulenza strategica LEK “Anche queste saranno risorse costose, non solo da acquistare, ma anche da mantenere a un alto livello di affidabilità e di utilizzo.
Si dovranno costruire parcheggi, officine per la manutenzione, stazioni di rifornimento, aree di attesa per i passeggeri, sistemi di gestione e tante altre cose che avranno un impatto importante sulla spese necessaria ad avviare il servizio“. Secondo Lewis, anche il costo degli stipendi dei piloti VTOL potrebbe essere molto alto perchè “Già c’è una grave carenza di piloti a livello globale ed è difficile immaginare un modello in cui il pilota di un aerotaxi possa essere pagato di più di quanto potrebbe guadagnare lavorando come pilota commerciale. A determinati prezzi, modelli come questo possono esistere, e in effetti già funzionano in posti come Manila dove la gente già usa gli elicotteri per attraversare la città ed evitare il traffico, ma si tratta di un servizio per super ricchi“.

Ibridi e specie, due definizioni, da rivedere, in conflitto tra loro ma con un perchè

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La recente conferma che i Sapiens si incrociarono con i Denisovan oltre che con i Neanderthal ed il conseguente aumento dei rami ibridi dell’albero genealogico del genere Homo, sta spingendo i ricercatori a ripensare il concetto di specie.

La definizione classica del libro di testo, noto come concetto di specie biologica, è “un gruppo di organismi che producono solo prole fertile l’uno con l’altro”. Secondo questa regola, tutti i tipi di cane domestico sono una singola specie, dal bassotto all’alano, ma un asino ed un cavallo, che pure producono prole, sono specie differenti.

Rebecca Ackermann, docente presso l’Università di Città del Capo in Sud Africa, preferisce una definizione diversa, non dipendente dal successo riproduttivo: una specie è gruppo di organismi che condividono un mix di tratti anatomici, comportamentali e genetici che li distingue da altri gruppi. Ma, aggiunge, “molti biologi evoluzionisti che conosco spesso evitano del tutto la parola specie “.

Questo perché i rami dell’albero evolutivo sono piuttosto ingarbugliati e molti organismi, pur su rami divergenti possono ancora incrociarsi. “I canidi possono, così come i maiali ed i topi, per fare alcuni esempi.”, spiega il biologo evoluzionista Michael Arnold, dell’Università della Georgia. “C’è un ibrido sotto ogni cespuglio“.

Questo include i nostri antenati. Prove genetiche hanno dimostrato che l’antico  Homo sapiens  si è incrociato con i Neanderthal ed i loro cugini orientali, i Denisovani, più volte tra i 100.000 ed i 40.000 anni fa. Neanderthal e Denisovan si accoppiarono l’uno con l’altro e Denisovani si unì a un lignaggio distante, non ancora noto dai fossili, che potrebbe essere stato più vicino al precedente  Homo erectus .

In recenti studi sul DNA, quasi “ogni volta che un nuovo individuo viene sequenziato dalla documentazione fossile umana“, dice Ackermann, “c’è qualche nuova prova per il flusso genetico“.

L’incrocio può essere stato un tema comune nell’evoluzione umana, ma è difficile, oggi, capire fino a che punto, visto che la nostra è l’unica specie Homo ancora esistente. Per comprendere meglio il nostro passato, gli antropologi come Ackermann hanno iniziato a cercare altri animali che si accoppiano tra le classiche linee di specie biologiche.

Uno dei principali problemi è proprio con il concetto di specie biologica: non può essere applicato a organismi che si riproducono  asessualmente, che include la maggior parte dei microorganismi. Il requisito del sesso rappresenta anche un problema nel caso di animali estinti perché i paleontologi non possono dire solo guardando due fossili simili se quelle creature avrebbero potuto accoppiarsi. Escludendo organismi estinti e asessuati, il concetto di specie biologica non funziona per la stragrande maggioranza della vita che esiste.

per lungo tempo, tuttavia, questa definizione è stata sostenuta dalla bioogia, in parte perché si adatta all’immagine prevalente dell’evoluzione come un albero ramificato, in cui una singola specie ancestrale diverge in distinti lignaggi di specie discendenti.

Era l’idea classica“, dice Arnold. Invece, dobbiamo rassegnarci al fatto che, mentre nascono rami divergeni da un primitivo ramo ancestrale, “i geni vengono ancora scambiati, anche se li chiamiamo specie diverse“.

La ricerca ha rilevato che si verificano incroci nel 10% delle specie animali, percentuale che sale al 25% dei primati, compresi gli incroci tra parenti lontani come i gelada ed i babbuini, il cui ultimo comune antenato viveva circa 4 milioni di anni fa.

Riconoscendo l’ubiquità dell’interbreeding tra i primati, Arnold ha scritto un libro, una decina di anni fa, in cui sosteneva che durante l’evoluzione umana doveva esserci stata più di qualche ibridazione. All’epoca fu oggetto di alcune critiche da parte degli antropologi, molti dei quali pensavano che l’Homo sapiens non avesse avuto incroci interspecie, salvo poi ricredersi poco tempo dopo, quando il sequenziamento del genoma di Neanderthal rivelò che, effettivamente, c’erano stati incroci tra le due specie.

Cosa abbiamo imparato dai Babbuini
Sebbene il DNA confermi che gli antichi ominidi si incrociavano, non racconta l’intera storia, e neanche cosa sia successo alla progenie ibrida e come si sia integrata nei diversi ambienti e società.

Non saremo mai in grado di osservare le interazioni tra gli ominidi arcaici e il nostro lignaggio in tempo reale, ma possiamo fare qualcosa di simile con i primati non umani“, dice Jenny Tung, antropologa alla Duke University.

La Tung studia i babbuini nel bacino dell’Abuoseli in Kenya. Si tratta di una popolazione di babbuini gialli che è stata osservata per decenni, insieme, occasionalmente, ai babbuini anubis, una specie separata individuata più a nord.

I lignaggi di queste due specie di babbuini si sono divisi approssimativamente 1,4 milioni di anni fa, più del doppio del tempo che pensiamo separino gli uomini di Neanderthal e l’uomo moderno. Ebbene, nonostante la distanza temporale, le differenze fisiche e quelle genetiche, gli ibridi documentati di questi babbuini sono fertili e rigogliosi.

Questo ha sollevato un sacco di domande su come queste due specie imparentate riescano a rimanere separate l’una dall’altra pue riuscendo a mescolarsi abbastanza liberamente“, dice la Tung.

In un recente studio, i 22 babbuini di Amboseli testati avevano un’ascendenza tra il 12 e il 72 per cento derivato da quelli anubi, compresi individui che sembravano gialli puri. Le pervasive firme genetiche degli anubi suggeriscono che le specie si sono accoppiate per centinaia, persino migliaia di generazioni.

Ulteriori analisi, anche su famiglie di babbuini situate molto lontano da queste due, hanno tuttavia dimostrato che gli ibridi esistono solo in una stretta zona di transizione tra i territori centrali degli anubi e dei babbuini gialli. È possibile, pensa Tung, che i tratti ibridi in questo particolare habitat o gruppo sociale possano non essere di beneficio altrove. Ad esempio, il pelo degli anubi più scuro che alcuni ibridi hanno potrebbe far sentire maggioremente il caldo ai babbuini ibridi nell’area popolata dai gialli puri, che ha un clima più caldo, più secco e più simile alla savana rispetto alle foreste montuose dell’area abitata dagli anubi puri. Questo suggerirebbe che l’ibridazione tra ominidi potrebbe anche essere stata utile in alcuni ambienti e società, ma non in altri.

Come individuare un ibrido
Anche Ackermann lavora sui babbuini, ma i suoi sono morti. Esperta di anatomia scheletrica, si è interessata all’ibridazione nei primi anni 2000 studiando ossa di babbuini con pedigree noti. Aveva notato che alcuni individui sembravano un po’ strani e ulteriori controlli avevano confermato che erano ibridi.

A quel punto, la Ackermann si mise a caratterizzare i suoi babbuini: sperava di trovare caratteristiche scheletriche ricorrenti derivanti dall’incrocio, che avrebbero potutto essere utilizzate per individuare gli ibridi tra i fossili umani. Era un obiettivo provocatorio, anni prima che i metodi genetici potessero confermare l’ibridazione degli ominidi. Ma il suo approccio aveva un vantaggio anche sull’analisi genetica più all’avanguardia: mentre il DNA antico può identificare in modo affidabile gli ibridi, raramente viene conservato nelle ossa più vecchie di 10.000 anni in zone particolarmente calde. Concentrandosi su tratti scheletrici visibili, la Ackermann può potenzialmente identificare ibridi fossili attraverso sei milioni di anni di storia degli ominidi.

Misurando i teschi di 169 gialli, anubi e ibridi che avevano vissuto in cattività, scoprì che gli ibridi non sono semplicemente intermedi della specie madre: presentano spesso anomalie come denti extra o non allineati. lo sviluppo degli ibridi riceve istruzioni dai genomi di entrambi i genitori, e questi potrebbero non essere sincronizzati su, ad esempio, quando alcuni denti o ossa dovrebbero formarsi. Questi piccoli difetti non influenzano l’idoneità evolutiva dell’individuo, ma possono permettere ai ricercatori di individuare un ibrido.

La Ackermann ha riscontrato le stesse stranezze evolutive in altri gruppi di mammiferi come gnu e gorilla.

Gli antropologi hanno a lungo discusso se particolari fossili di ominidi possano essere o no ibridi, ma di solito basano le loro argomentazioni sull’assunto infondato che gli ibridi assomiglino ai prodotti intermedi o alle medie dei loro genitori. In uno studio del 2010, Ackermann ha utilizzato le anomalie dello sviluppo per suggerire candidati ibridi, come i neandertaliani di 130.000 anni fa, provenienti dalla Croazia, dotati di premolari anormali e umani moderni di 100.000 fa anni provenienti da Israele con tratti come denti non allineati e una faccia asimmetrica.

Tra le proposte di possibili ibridi, incluse anche un cranio umano anatomicamente moderno di 35.000 anni fa proveniente dalla Romania. Cinque anni dopo lo studio di Ackermann, il DNA antico di un altro  Homo sapiens  nello stesso sito rivelò che l’individuo aveva avuto un antenato di Neanderthal tra quattro e sei generazioni indietro.

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Il parco nazionale dell’Abuoseli in Kenya ospita i babbuini gialli (a sinistra) e gli anubi babbuini (a destra), nonché gli ibridi delle due specie.
Martin Harvey / Alamy Foto stock; Fabio Lotti / Alamy Foto d’archivio

Di topi e ominidi

lo studio della Ackermann puntava a capire quanto fossero comuni queste stranezze di sviluppo tra gli ibridi e se le stesse  anomalie persistono nelle generazioni successive. I suoi colleghi dell’Università di Calgary allevarono diverse generazioni di topi da tre sottospecie e due specie per il progetto. Kerryn Warren della University of Cape Town, ha analizzato le ossa.

Il progetto è in corso, ma la tesi di dottorato di Warren, intitolata “Of Mice and Hominins“, offre un’anteprima: le comunità ibride sono sorprendentemente diverse. La progenie può assomigliare a un genitore o una miscela – o assumere forme  diverse da quelle dei genitori. La mescolanza permette alle specie di scambiare e mescolare i geni, e le caratteristiche originali che portano a questi “mostri speranzosi“, come Warren e altri ricercatori chiamano gli ibridi, potrebbero essere utili scorciatoie evolutive, specialmente per i nostri antenati.

Mentre l’Homo sapiens si  espandeva a livello globale, si trovò a dover affrontare nuovi ambienti, cibi e malattie. I migranti avrebbero potuto evolvere adattamenti a quelle pressioni ambientali ma ci sarebbero volute molte generazioni. L’incrocio con specie di ominidi autoctoni avrebbe potuto dare origine ad ibridi in grado di affrontare le pressioi ambientali ereditandole del genitore autoctono. In pratica, l’incrocio tra specie diverse di ominidi, come per ogni altro animale in grado di incrociarsi e generare prole fertile, costituisce, dal punto di vista evolutivo, una specie di acceleratore.

Alcuni gruppi di ominidi, quindi, furono in grado di accelerare il processo di adattamento a nuove esigenze accoppiandosi con i Neanderthal e i Denisovani che incontrarono nel loro nuovo mondo. I lignaggi dell’Homo sapiens appena arrivato nell’area acquisirono geni adattativi localmente correlati al colore della pelle e dei capelli, al metabolismo e all’immunità per decenni, effettuamdo, di fatto, “un enorme salto in avanti rispetto a quello che avrebbero potuto ottenere attraverso i normali tempi della selezione naturale“, afferma la Ackermann. “L’ibridazione ha avuto un effetto serio, un grande impatto su quello che siamo oggi“.

Fonte: Discover Magazine

Ecco come una stazione di servizio lunare avvierà un’economia dello spazio accelerandone la conquista

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In un precedente articolo abbiamo esaminato le ragioni per cui il coinvolgimento dell’impresa privata renderà più rapido ed economico il ritorno alla Luna.

I privati, però, difficilmente investirebbero su qualcosa solo per fare un piacere alla NASA. I privati, di solito, tendono ad investore su ciò che può offrire loro un ritorno economico interessante, anche se a medio – lungo termine.

Insomma, come funzionerà l’economia di questa che alcuni chiamano “nuova corsa allo spazio“? Sarò necessario un nuovo tipo di approccio, più flessibile, far progredire l’esplorazione ma con un occhio attento alle occasioni commerciali che si apriranno lungo la strada. L’economia dello spazio riuscirà a liberarsi dalle mille pastoie burocratiche che affliggono l’economia terrestre normale? È facile delineare una visione convincente; è molto più difficile tracciare un percorso realistico per realizzarla.

Dunque, sta per cominciare un decennio decisivo per la corsa allo spazio, non solo perchè sta ripartendo la corsa alla Luna ma perchè insediare una base stabile sulla Luna sarà, per chiunque, il passo necessario per pensare seriamente al passaggio successivo: Marte e gli altri pianeti, lune ed asteroidi del sistema solare.

Le agenzie spaziali nazionali NASA, ESA, ROSCOSMOS, JAXA, CNSA, ISRO ed un pugno di compagnie spaziali private più o meno grandi a cominciare da Blue Origin e, forse, SpaceX (che, però, al momento, appare l’unica orientata a puntare direttamente verso Marte saltando il passaggio intermedio della Luna) hanno tutte annunciato abbastanza esplicitamente di avere intenzione di stabilire una presenza fissa nello spazio, con stazioni spaziali e basi lunari ma quale potrà essere il ruolo di queste basi?

Posto che i privati punteranno alla monetizzazione, a medio – lungo termine, della loro presenza attraverso l’estrazione e la raffinazione di materie prime e che le agenzie nazionali dovranno dare un perché che vada al di là della ricerca scientifica e l’esplorazione per giustificare i grandi investimenti di capitali necessari a stabilire insediamenti permanenti nello spazio e sulla Luna (non dobbiamo dimenticare che il forte impegno economico necessario e la reazione dell’opinione pubblica in periodi di crisi economica fu la ragione principale per cui la Luna fu abbandonata dopo il 1972).

Una base permanente sulla Luna dipenderà, soprattutto all’inizio, dai rifornimenti inviati dalla Terra, invii che, come si sa, hano un costo non indifferente. La scommessa è quella di rendere questi insediamenti il più possibile indipendenti. Ecco perchè il primo passo che verrà compiuto sarà quello di individuare le aree più adatte per insediare una avamposto: dovranno essere localizzazioni poste nei pressi di giacimenti di ghiaccio d’acqua, come primo requisito, da cui ottenere acqua ed ossigeno per gli occupanti della base e anche idrogeno da utilizzare come combustibile.

In questo senso va vista la missione automatica Chang’e-4 che la Cina invierà sul lato nascosto della Luna, intorno al polo sud lunare, nel prossimo dicembre.

Un insediamento sulla Luna necessiterà anche di una forte indpendenza energetica: a questo proposito ci sono molte alternative che potrebbero funzionare. Ad esempio, si parla di portare sulla Luna un piccolo reattore nucleare. Un’altra possibilità è quella di utilizzare pannelli solari ed accumulatori per avere energia fotovoltaica. Qualcuno parla anche della possibilità di sistemare nell’orbita lunare un satellite provvisto di sistemi fotovoltaici che eresterebbe sempre esposto alla luce Solare per trasmettere poi l’energia prodotta alla base.

La DARPA, un’azienda che lavora attraverso una partnership pubblico-privato per sviluppare servizi di manutenzione robotica di satelliti geosincroni, ha recentemente annunciato che Space Systems Loral sarà il suo partner commerciale. Quindi, ecco una domanda intrigante: si potrebbe assemblare una piccola navicella spaziale a energia solare in orbita geosincrona e poi farla salire fino all’orbita lunare per fornire energia a una base lunare?

Insomma, le possibilità ci sono o ci saranno a breve, molto dipende da quali e quanti investimenti si dovranno / potranno fare.

L’idea della NASA di assemblare il Lunar Gateway in orbita cislunare presenta una serie di vantaggi logistici non indifferenti. Una stazione spaziale in orbita lunare permetterà l’esplorazione alla ricerca del punto giusto in cui stabilire l’insediamento senza dover avviare ogni volta una nuova missione, inoltre il Lunar Gateway potrebbe facilmente diventare un hub dove far convergere le merci da portare alle varie basi lunari (NASA, ESA, JAXA…) e, un giorno, punto di raccolta per le spedizioni verso la Terra. inoltre, la prevista espansione negli anni ’30 a Deep Space Gateway permetterebbe di assemblare direttamente lì le future astronavi destinate a Marte, con un evidente risparmio, soprattutto se il carburante ed una parte dell’hardware potesse essere trasportato dalla Luna invece che dalla Terra.

Certo, affinchè il Gateway abbia davvero senso e la sua gestione sia possibile e conveniente deve essere realizzato ed operare attraverso partnership commerciali con le aziende private, che dovranno partecipare alle spese. Per capire il problema, la sola Stazione Spaziale Internazionale costa solo di manutenzione 1,5 miliardi di dollari l’anno ed orbita a soli 400 chilometri di distanza dalla Terra.

La cosa fondamentale è che sia progettato fin dal primo giorno con l’idea che dovrà essere un nodo di trasporto, dovrà quindi avere depositi di carburante e di tutto ciò che sarà necessario per mandare gli uomini verso lo spazio esterno, oltre che sulla Luna. Riconfigurarlo e ristrutturarlo in un secondo tempo sarebbe lungo e molto costoso.

Insomma, il Gateway dovrà essere una stazione di servizio in orbita intorno alla Luna, una stazione per rifornire i razzi di ritorno sul nostro pianeta ma anche quelli in partenza per lo spazio esterno.

Già soltanto la posisbilità di avere una stazione di rifornimento in orbita lunare cambierà le prospettive per tutti, agenzie nazionali e aziende private, aprendo letterlamente le porte dello spazio esterno e avviando un’economia di commercio spaziale. Immaginiamo un futuro in cui tutti i privati interessati competeranno per essere i fornitori di propellente a più basso costo per la stazione. Si estrae acqua dalla Luna o dagli asteroidi NEO, l’acqua viene divisa in idrogeno ed ossigeno a bassissimo costo perchè si potrebbe utilizzare elettricità prodotta con il fotovoltaico e si ottiene propellente per razzi ed ossigeno per la  stazione e le basi lunari.

Pensiamo ad Elon Musk che progetta di inviare una flotta di cisterne in orbita terrestre per rifornire di carburante il BFR o il Falcon Heavy dopo il lancio per poi farli proseguire per Marte o qualsiasi altra destinazione: quanto troverebbe più conveniente rifornirsi direttamente al Gateway piuttosto che mandare in orbita una pesantissima e molto costosa flotta di Tank?

Insomma, un deposito di carburante, anzi una stazione di servizio accessibile a tutti, in orbita lunare farebbe comodo a praticamente tutti gli attori coinvolti nella corsa allo spazio. Aziende come Deep Space IndustriesTransAstra, Jeff Bezos, Moon ExpressAstrobotic, sono tutti attori convinti di poter estrarre valore dalla Luna e dagli asteroidi, sarebbero tutte in concorrenza e motivate perchè avrebbero già dei clienti sicuri per ridurre il rischio: le agenzie spaziali nazionali. NASA, ESA, cinesi, giapponesi, indiani e russi potrebbero sfruttare grandemente il risparmio permesso dal potersi rifornire in orbita lunare e questo accelererebbe anche l’espansione verso gli altri pianeti.

Lo spazio diventerebbe molto più economico per tutti.

E, finora, abbiamo parlato solo del carburante. Alla lunga la stazione spaziale (o le basi lunari) potrebbero diventare stazioni di scambio per gli equipaggi e di manutenzione per le astronavi. Immaginiamo ancora l’uso che potrebbe farne SpaceX nel suo progetto di colonizzazione di Marte: Manda su il BFR, dotato del suo equipaggio e carico di coloni e materiali da inviare alle colonie. Fa tappa al Gateway in orbita lunare dove riempie i serbatoi e, magari, completa il carico cone le materie prime estratte da asteroidi o dalla Luna e parte per Marte. Sei mesi di viaggio, arriva, atterra sulla superficie marziana, scarica tutto, si ferma per un anno e aspetta di poter tornare, nel frattempo fa rifornimento di carburante, carica eventuali merci destinate alla Terra e, infine, riparte. Arriva in orbita lunare dove sul gateway lo aspetta l’equipaggio fresco per il cambio, c’è un anno di tempo prima del prossimo viaggio per cui mentre l’equipaggio del primo viaggio rientra sulla Terra, l’equipaggio di ricambio procede alla manutenzione, al rifornimento e alla preparazione per la prossima partenz. Ad un certo punto cominciano ad arrivare anche merci e coloni. Insomma, il Gateway è diventato un hub di smistamento dove ci saranno depositi, officine, tecnici e strutture ricettive per i coloni in attesa del viaggio ed eventuali turisti…

in un tempo relativamente breve sarebbe necessaria la creazione di un’autorità lunare, con una governance internazionale e molti poteri simili a quelli di un’autorità di porto. a questo punto l’economia spaziale basata sul commercio sarebbe già ben avviata e il suo successo incoraggerebbe la nascita di strutture simili, sia intorno alla Luna che, magari, in punti dello spazio studiati ad hoc per fornire stazioni di scalo alle astronavi impegnate nelle traversate interplanetarie. Non dimentichiamo che poter disporre di carburante significherebbe, anche con i sistemi attualmente disponibili, poter viaggiare più rapidamente grazie all’accelerazione costante, abbreviando in maniera notevole la durata dei viaggi spaziali, il che renderebbe più interessanti dal punto di vista economico e commerciale, gli asteroidi della fascia tra Marte e Giove e la stessa esplorazione delle Lune dei due giganti gassosi.

Si punta ora a rendere l’accesso allo spazio più conveniente e meno costoso. Per farlo, seguendo l’esempio di SpaceX, tutti stanno puntando alla realizzazione di lanciatori completamente riutilizzabili. Un rapporto pubblicato online da Air University chiamato “Fast Space” raccomanda che l’accesso ultra low cost allo spazio debba essere uno dei primi problemi da affrontare dal National Space Council americano. In questo senso vanno tutti i progetti e le idee destinate a rendere più economico e sicuro il lancio di merci ed esseri umani nello spazio. Ascensori spaziali, catapulte, razzi riutilizzabili sono tutte idee destinate ad aprire le porte dello spazio all’umanità nel suo complesso. Se riusciremo ad abbassare il costo del payload a livelli paragonabili ad un viaggio aereo, sia pure in classe elite e per destinazioni lontane e care, inizierà l’era del turismo spaziale di massa e delle migrazioni verso altri pianeti, cui seguiranno importazioni ed esportazioni, scambi commerciali di ogni tipologia di prodotto.

Nasceranno nuove startup che spingeranno l’asticella dell’ardire umano sempre più lontano. I problemi di ordine tecnologico come le radiazioni cosmiche e la mancanza di gravità troveranno soluzioni o palliativi: la tecnologia è solo questione di investimenti e tempo, avendo abbastanza degli uni e dell’altro le soluzioni si trovano sempre.

Certo, la svolta definitiva avverrà quando avremo sistemi propulsivi più efficenti e veloci ma, come dicevo, l’avvio di un’economia di mercato basata sull’esplorazione spaziale renderà più urgenti certe scoperte e vi convergeranno sopra più ricerche con più fondi. L’era spaziale sta iniziando e se torneremo indietro un’altra volta decreteremo la fine, in tempi anche abbastanza rapidi, dell’umanità.

Concluderei con due affermazioni di Stephen Hwaking che racchiudono, a mio parere, lo spirito con ui gli esseri umani dovranno affrontare ciò che resta di questo XXI secolo, imparando davvero a cooperare al fine di perseguire l’interesse collettivo della nostra specie.

Di recente ho detto che il futuro della razza umana è stato compromesso dai danni che stiamo infliggendo al nostro piccolo e affollatissimo pianeta. Dobbiamo esplorare nuovi pianeti che abbiano la potenzialità di sostenere la vita umana. Questo ci insegnerà a comportarci in modo più saggio. Non sto dicendo che l’intera popolazione debba trasferirsi su un altro pianeta, ma che dovremo selezionare alcuni di noi per garantire la sopravvivenza della razza umana.  Ma prima dobbiamo andare in esplorazione. Capire come possiamo pianificare la nostra vita in altri pianeti. Siamo esploratori e pensatori. Siamo motivati a elevare l’umanità. Ma per farlo abbiamo bisogno come prima cosa dell’immaginazione. Abbiamo bisogno di immaginare come vivremo nel futuro. Leggere negli occhi della nostra mente e immaginare cosa può essere fatto per alleviare i problemi di oggi. Immaginare meglio un futuro per noi tutti. Non credo che la cultura tradizionale possa scomparire. L’arte e la musica sono creati dall’essere umano e dunque risulterebbero incomprensibili alle razze aliene. Ma non dobbiamo preoccuparci”. [Stephen Hwaking]

Confinare la nostra attenzione alle questioni terrestri significherebbe limitare lo spirito umano.” [Stephen Hwaking]

Star Trek: storia ed influenza sull’esplorazione spaziale

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Quando gli spettatori televisivi sentirono per la prima volta lo slogan “… per andare audacemente dove nessun uomo è mai giunto prima,” “Star Trek” rappresentò la speranza che nello spazio di pochi secoli lo spazio potesse realmente diventare “l’ultima frontiera“. Andato in onda per la prima volta nel 1966, Star Trek, dopo un inizio difficile, divenne un fenomeno, generando spin off, film, libri e giochi e finì per influenzare la cultura e la tecnologia.

Il franchise segue per lo più le avventure degli equipaggi che si sono susseguiti a bordo della USS Enterprise, anche se alcune iterazioni sono state ambientate su stazioni spaziali o altre navi. nell’universo immaginato per Star Trek, l’umanità è solo una delle numerose specie senzienti che partecipano ad un’organizzazione nota come “federazione dei Pianeti” sostenuta dalla “flotta stellare“, un’organizzazione paramilitare con compiti esplorativi, di sostegno, soccorso e difesa. La “Prima Direttiva” cui le navi stellari federali devono attenersi prevede che non si interferisca e non si influenzino in nessun modo culture prespaziali nel loro sviluppo. Questa “direttiva primaria” somiglia molto ai protocolli di protezione planetaria della NASA per i pianeti o le lune che potrebbero ospitare forme di vita, anche microbica.

Secondo quanto riporta il sito Memory Alpha, “Star Trek” fu stato creato da Gene Roddenberry, un pilota veterano della seconda guerra mondiale che iniziò a scrivere sceneggiature come freelance mentre lavorava come agente di polizia a Los Angeles. Notoriamente, ai dirigenti della NBC non piacque il primo episodio pilota.

Star Trek” fu trasmesso per la prima volta nel 1966. La serie seguiva le avventure della USS Enterprise in una missione di cinque anni per “esplorare strani nuovi mondi, per cercare nuove forme di vita e nuove civiltà, per arrivare, coraggiosamente, dove nessun uomo è mai giunto prima.” Molti degli episodi erano allegorie su questioni che coinvolgevano la società americana degli anni ’60, quali i problemi razziali, la guerra e la pace, e il gap generazionale. Lo show, tuttavia, non ebbe un grande successo iniziale e dopo sole tre stagioni la serie venne cancellata. Ciò nonostante, le repliche e la diffusione delle tre stagioni realizzate in Europa contribuirono a creare un nocciolo duro di fan che parteciparono in migliaia alla prima convention “Star Trek” tenutasi nel 1972.

A parte una breve serie animata, Star Trek fu resuscitato dopo i successi cinematografici di “Star Wars” e “Incontri ravvicinati del terzo tipo“, trasformando il franchise da televisivo a cinematografico: nel 1979 uscì “Star Trek: The Motion Picture“. Complessivamente, la serie originale (o “TOS”) ha generato sei film tra il 1979 e il 1991 (oltre ad una parziale apparizione da parte di alcuni membri dell’equipaggio originale dell’Enterprise nel film “Generazioni” del 1994).

Il grande successo cinematografico portò alla creazione di “Star Trek: The Next Generation” (1987-1994), ambientato molti anni dopo la serie originale, con una nuova USS Enterprise comandata dal Capitano Jean-Luc Picard (Patrick Stewart). Da questo momento in poi, vennrro prodotte tre serie televisive: Star Trek: The Next Generation,  Star Trek: Deep Space NineStar Trek: Voyager, oltre a quattro film per il grande schermo. Un’ulteriore serie, “Enterprise“, venne ambientata all’inizio dell’esplorazione spaziale da parte dell’umanità ed è attualmente in programmazione la serie televisiva “Star Trek: Discovery” ambientata alcuni anni prima della serie TOS. Negli ultimi anni, sono stati anche prodotti tre nuovi film che rappresentano un vero a proprio reboot della TOS.

Forse l’esempio più famoso dell’influenza della serie sulla vita reale ha avuto luogo negli anni ’70. Gli Stati Uniti si stavano preparando ad effettuare i voli di test del programma dello space shuttle utilizzando un prototipo di veicolo chiamato Constitution. Migliaia di fan di “Star Trek” organizzarono una campagna per convincere la Casa Bianca e la NASA a cambiare il nome al prototipo in “Enterprise“.

Decenni dopo, la compagnia Virgin Galactic, che si propone di creare un business basato sul turismo spaziale, nominò uno dei veicoli spaziali in via di collaudo VSS Enterprise. La navicella spaziale, costruita nel 2004, effettuò diversi voli di test in atmosfera ma esplose durante un test nel 2014, provocando la morte di un pilota ed il ferimento di un altro.

Alcuni astronauti sono apparsi nei vari episodi di “Star Trek” nel corso degli anni. Mae Jemison, la prima donna afro-americana a volare nello spazio, è apparsa nell’episodio “Second Chance” durante la sesta stagione di TNG. Fu visitata sul set da Nichelle Nichols (Uhura). Mentre era nello spazio, durante la missione 47, l’astronauta della ISS Jemison esordì in una conversazione con il controllo missione citando la famosa frase di Uhura: “Le frequenze di ascolto sono aperte“. Gli astronauti Mike Fincke e Terry Virts sono apparsi nel finale di serie di “Enterprise” nel 2005, in cui rappresentavano ingegneri del 22° secolo che eseguivano interventi di manutenzione nella sala macchine dell’Enterprise.

Nessun attore regolare di “Star Trek” ha mai volato nello spazio (ancora), ma molti di loro hanno registrato messaggi di supporto per la NASA, come la Nichols e Wil Wheaton (TNG, Wesley Crusher). Nel 2015, la Nichols ha realizzato un videomessaggio sull’aereo SOFIA (Stratospheric Observatory for Infrared Astronomy) della NASA.

Gli attori di “Star Trek” hanno anche duettato con veri astronauti su Twitter, specialmente nei primi tempi della missione della Stazione spaziale internazionale. L’astronauta canadese Chris Hadfield tra il 2012 ed il 2013 scambiò tweet con Shatner, Nimoy, Wheaton e George Takei. (Shatner gli chiese: “Stai twittando dallo spazio?” Al che Hadfield rispose: “Sì, Orbita standard, Capitano, e stiamo rilevando segni di vita dalla superficie“).

Dopo la morte di Nimoy nel febbraio 2015, la NASA inviò un tweet in onore dell’attore: “RIP Leonard Nimoy. Molti di noi alla NASA abbiamo trovato ispirazione in Star Trek. Coraggiosamente vai…” L’astronauta Virts scattò dalla ISS una foto con la mano disposta secondo il saluto vulcaniano; l’immagine mostrava la mano su Boston, il luogo di nascita di Nimoy. Virts spiegò che non ci aveva proprio pensato e che fu frutto del caso il fatto che la mano puntasse proprio su Boston.

Tecnologia Star Trek

Nel corso del tempo, diverse tecnologie apparse per la prima volta in “Star Trek” hanno fatto il loro ingresso nella nostra vita quotidiana. I “comunicatori” somigliano tanto ai nostri attuali smartphone che, anzi, li hanno superati in quanto a versatilità. I tricorder, che venivano utilizzati per raccogliere informazioni mediche ed ambientali, sono ora disponibili e funzionano in modo molto simile. Nel 2017, un “tricorder” medico ha ricevuto 2,6 milioni di dollari in premio dalla X Prize Foundation. Molti anni prima che apparissero in effetti in commercio, i membri degli equipaggi di astronavi e stazioni spaziali in Star trek utilizzavano comunemente i tablet PC.

Cose come il teletrasporto ed i motori a curvatura sono, però, ancora fuori dalla nostra portata. Nel 2015, la NASA minimizzò alcune indiscrezioni dei media secondo i quali un sistema di propulsione “più veloce della luce” in corso di sviluppo era prossimo ad una svolta. “La NASA non sta lavorando sulla tecnologia ‘curvatura’“, fu detto, aggiungendo che la ricerca in oggetto era “un piccolo sforzo ancora privo di risultati tangibili”. Il teletrasporto, nel frattempo, è stato raggiunto solo su scala quantistica ed in un raggio di pochi chilometri.

Serie televisive

  • Star Trek: The Original Series (1966-1969)
  • Star Trek: The Animated Series (1973-1974)
  • Star Trek: The Next Generation (1987-1994)
  • Star Trek: Deep Space Nine (1993-1999)
  • Star Trek: Voyager (1995-2001)
  • Enterprise (2001-2005)
  • Star Trek Discovery (2017-)

cinema

  • Star Trek: The Motion Picture (1979)
  • Star Trek: The Wrath of Khan (1982)
  • Star Trek: The Search for Spock (1984)
  • Star Trek: The Voyage Home (1986)
  • Star Trek: The Final Frontier (1989)
  • Star Trek: The Undiscovered Country (1991)
  • Star Trek: Generations (1994)
  • Star Trek: First Contact (1996)
  • Star Trek: Insurrection (1998)
  • Star Trek: Nemesis (2002)
  • Star Trek (2009)
  • Star Trek: Into Darkness (2013)
  • Star Trek Beyond (2016)

A questo elenco si aggiungeranno presto un nuovo film programmato per il 2019 e, si parla di una nuova serie che vedrà di nuovo tra i protagonisti il capitano Jean Luc Picard, ancora interpretato da Patrick Stewart.

I peperoni provocano una strana polemica su Twitter: cosa c’è dietro la cospirazione dei peperoni?

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Parliamo di peperoni.

Si tratta di ortaggi molto apprezzati in cucina e diffusi in tutto il mondo, saliti, recentemente, alla ribalta su Twitter per un presunto complotto di cui sarebbero parte. Prima di approfondire l’ipotesi di complotto, approfondiamo un po’ la conoscenza con questo squisito ortaggio:

Appartengono alla famiglia delle Solanacee, genere Capsicum, che comprende peperone e peperoncino, la varietà capsicum annuum è la più coltivata. Si presenta, in base al gradi maturazione, giallo, verde, rosso, bianco o viola. Si tratta di un ortaggio tipicamente estivo ma, grazie al mercato globale e alla coltivazione in serra, è ormai possibile trovarlo sui banchi dei mercati praticamente tutto l’anno.

Originario del Sud America, probabilmente del Brasile, è ormai diffuso in tutto il mondo. Fu importato in Europa nel sedicesimo secolo.

È una pianta che predilige i climi caldi ed i terreni molto fertili, la semina avviene a fine febbraio e i frutti, che sono bacche, maturano in estate.

Viene differenziato in dolce e piccante. Quello normalmente usato in cucina è il primo; il secondo in genere viene essiccato, a volte polverizzato, ed è usato principalmente come condimento. Un discorso a parte si può fare per i friarielli, come vengono chiamati in Campania, o friggitelli, secondo il loro nome romano: sono verdi, quindi come tutti i peperoni di questo colore, sono colti non ancora maturi, sono piccoli come peperoncini ma non sono piccanti, anzi. In genere vengono preparati alla griglia con la semplice aggiunta di sale. Per quanto riguarda le difficoltà di digestione legate a quest’ortaggio, molti riescono a limitare il problema togliendo la pellicola che lo ricopre, considerata la buccia; andrebbero eliminati anche i semi.

I peperoni in cucina

Crudo, in pinzimonio o nel gazpacho; cotto, dalla bagna cauda alla peperonata; internazionale, dalle fajitas alla ratatouille. Il peperone è estremamente versatile, può essere cucinato con molte tecniche o può non essere cucinato affatto, e consumato sott’aceto o crudo a listarelle, insaporito con olio, pepe e sale.
Se la bagna cauda è un tipico piatto piemontese, e vede i peperoni come semplici ingredienti di una ricetta ricca di componenti e complessa, la peperonata invece è targata Italia del sud e già dal nome è facile immaginare che qui i peperoni sono protagonisti assoluti, cotti in padella con olio evo, pomodoro, cipolle, aglio. La sicilianissima caponata, a base di melanzane, ha molte varianti locali, alcune che prevedono i peperoni ed altre no; ma sono sempre siciliani i peperoni con la mollica, una delle declinazioni più gustose che questi prodotti possano avere. Come altre verdure, i peperoni possono essere preparati ripieni. Se non si tollera la buccia, il modo più veloce per eliminarla è cuocere i peperoni alla griglia: sarà estremamente facile staccare la pellicola che li ricopre.
Per quanto riguarda le ricette internazionali, tra le più note c’è il gazpacho, una zuppa fredda spagnola (originaria dell’Andalusia) preparata frullando insieme ingredienti crudi come pomodori e peperoni (da entrambi vanno eliminati i semi), cetrioli, cipolla e aglio, e aggiungendo olio, sale e pepe. Successivamente, al composto passato al setaccio, si aggiunge mollica di pane raffermo insaporita con aceto. La zuppa va poi fatta raffreddare in frigorifero. Spostandosi in America, è tipicamente messicana la ricetta delle fajitas, carne di manzo o pollo piccante accompagnata da peperoni e servita generalmente su tortillas di mais che la avvolgono. Dai peperoni si ricava inoltre una spezia usata in moltissime preparazioni, sia dolce al naturale sia resa più piccante, cioè la paprika

Proprietà salutari
La notevole presenza di vitamina C, di cui il peperone è più ricco anche rispetto agli agrumi (se lasciato crudo), ne fa un prodotto con caratteristiche salutari di vario tipo, in primo luogo antiossidanti: in effetti il peperone è la bacca che contiene, rispetto al peso, più vitamina C. Ma è molto rilevante anche la presenza di betacarotene, soprattutto nei peperoni rossi; e il frutto contiene anche varie vitamine del gruppo B. Oltre alle vitamine, sono presenti molti sali minerali, principalmente potassio, ma anche ferromagnesiocalcio.
La notevole quantità di acqua e fibra determina un potenziale, lieve, effetto lassativo; le poche calorie ne fanno un cibo consigliato in caso di diete ipocaloriche. A differenza del peperoncino, ricco di capsaicina, il peperone contiene soprattutto una sostanza chiamata diidro capsiato. Notoriamente, il peperone può creare qualche difficoltà di digestione che di solito, però, viene leiminato rimuovendo la pellicola naturale che lo avvolge.

Valori nutrizionali

Per cento grammi di peperone rosso o giallo (il verde viene colto non ancora maturo, quindi ha caratteristiche lievemente differenti), il 92 per cento del peso è dovuto all’acqua; per il resto il peperone contiene il 4 per cento di zuccheri, il 2 di fibre, circa l’1 per cento di proteine. La vitamina C, di cui la bacca è particolarmente ricca, è presente in quantità di circa 190 mg nei peperoni gialli, i più ricchi. Le calorie sono, a seconda della varietà, tra 20 e 30 per etto. Ci sono circa 200 mg di potassio e 12 di magnesio; oltre alla vitamina C sono presenti le vitamine del gruppo B; i peperoni rossi sono ricchissimi di betacarotene (anche oltre 1600 mcg per etto).

L’ipotesi di complotto su Twitter

Si potrebbe pensare che il peperone non sia il più controverso tra gli ortaggui, data la sua popolarità e diffusione, ma su Twitter, di recente, si è diffuso un thread virale sulla scoperta di una blogger riguardante il  genere Capsicum che ha messo in difficoltà gli utenti dei social media, costringendo molte persone a scoprire che su questa bacca c’è da dire molto più di quanto si potesse pensare.

Tutto è iniziato pochi giorni fa, quando l’utente di Twitter Amy, una blogger che parla di lifestyle, ha pubblicato un tweet con quella che lei riteneva una rivelazione, è il caso di dirlo, pepata.

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Amy@callmeamye

I cambiamenti di colore sono dovuti alla decomposizione di alcune sostanze chimiche all’interno della pianta mentre matura. Il peperone inizialmente è verde a causa della presenza di pigmenti di clorofilla verde, che sono fondamentali per la fotosintesi. Ma quando maturano, si suddividono in diversi pigmenti, che vanno dal giallo, all’arancio, al rosso e persino a colori come il bianco e il viola.

Molta gente pensa che i peperoni gialli che siano un punto intermedio tra peperoni verdi e rossi, un po’ gli adolescenti della famiglia dei peperoni, se vogliamo, ma, apparentemente è solo un mito, come ha chiarito il botanico James Wong nel suo thread di risposta.

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James Wong

@Botanygeek

So this claim about peppers has gone viral.

However as a botanist I can tell you it is also not true.

Neither is the (freakin’ weird) idea that some peppers are ‘male’ and others ‘female’.

Sorry to be ‘that guy’, but this is how it works…https://twitter.com/callmeamye/status/1039606578117312512?s=21 

eBEO6IoN normal

James Wong

@Botanygeek

Although it *is* true that green peppers are just unripe regular ones, yellow, orange and red peppers are all genetically different varieties at full maturity.

Their DNA predetermines the maximum amount of pigments they can produce, which creates this variation in colour. pic.twitter.com/g6zGi2YRgP

DnCbaFPXgAAtJEJ?format=jpg&name=small

Dopo che il post originale è diventato virale, altre persone hanno cominciato a dare la loro versione del “fatto”:

Oq8yV 0e normal

Amy@callmeamye

OK so I’ve just found out that green peppers turn yellow then orange then red and they’re actually all the same pepper just less ripe and my mind is blown

sm4vCW7X normal

Everyday Aimee@EverydayAims

But some peppers are male and some are female.

Insomma, qualcuno sembra attribuire il diverso colore dei peperoni al sesso della pianta, ma questo non è assolutamente vero. come abbiamo visto, i peperoni sono una bacca, un frutto. Non possono accoppiarsi l’un l’altro, esistono per disseminare i semi che sono il risultato di una precedente fertilizzazione dei fiori di capsico.

eBEO6IoN normal

James Wong

@Botanygeek

The internet is also perpetuating the weird ass idea that peppers come in ‘male’ and ‘female’ forms.

That would mean the fruit could sexually reproduce with each other. They can’t.

Fruit are basically swollen ovaries surrounding fetal plants. The sex happened *long* before. pic.twitter.com/Yj8P4imULQ

Improvvisamente, però, nella discussione è intervenuto un utente con un post sulle olive che ha rivelato che sugli ortaggi esiste una cospirazione più profonda di quanto si possa immaginare.

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Rachel Morgan@rachelmrgn
heard the same thing today about black and green olives! Black olives are just ripe green ones
Già, le olive, salate e amare, sono tormentate da altrettante polemiche dei loro fratelli pepati. Tecnicamente, un’oliva è una drupa, un frutto a polpa dura, come la pesca o l’anacardio. Sull’albero, le olive sono così disgustose che persino gli uccelli selvatici le lasciano stare e, come i peperoni, cambiano colore man mano che maturano, potendo diventare nere o viola.
Sebbene le olive verdi ottengano effettivamente il loro colore dall’essere raccolte e curate prima che abbiano la possibilità di maturare, non è necessariamente vero che quelle stesse olive diventeranno nere se lasciate sulla pianta.

Al contrario, alcune tipologie di olive nere sono in realtà olive verdi trattate in una soluzione ferrosa-alcalina, che le invecchia artificialmente rendendole nere.

Così si scopre che l’industria ed il commercio hanno tenuto nascosti dei fatti su questi prodotti della natura. Le olive nere sono olive trattate!

E non andiamo nemmeno a parlare del fatto che i peperoni sono imparentati con la belladonna, un genere di piante per lo più velenose che comprende anche la patata.

eBEO6IoN normal

James Wong

@Botanygeek

One thing you might not know though is that peppers and many chillies are indeed the SAME species.

Peppers just have a mutation that makes them incapable of producing the chemical capsaicin, which gives chillies their fieriness. pic.twitter.com/1MhnowaIAJ

Insomma, una discussione nata su twitter dall’ignoranza di un’utente ci ha permesso di scoprire un certo numero di cose su uno degli ortaggi più apprezzati in cucina del pianeta.

Il futuro ci riserva batterie viventi

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Migliori casinò non AAMS in Italia

di Oliver Melis

Batteri e virus non causano solamente malattie e infezioni, ma hanno anche alcune proprietà che potrebbero avere un importante impiego. Secondo recenti ricerche, infatti, potrebbero essere utilizzati per produrre energia rinnovabile a impatto ambientale zero.

Bruce Logan, ricercatore della Penn State University, ha scoperto che alcuni microorganismi utilizzano corrente elettrica per separare la CO2
in acqua e metano, utilizzando un processo elettrolitico molto efficiente, dove l’80% dell’energia elettrica immessa nel processo viene convertita in energia chimica immagazzinata nel gas.

Riuscendo a sfruttare questa capacità potremmo ottenere un sistema in grado di generare energia dal metano ottenuto dalla CO2 con una perdita minima nell’energia impiegata per alimentare il processo.

A conti fatti, un sistema del genere alla fine reimmetterà in atmosfera la stessa quantità di CO2 assorbita ma potremmo ottenere un abbattimento dell’inquinamento ulteriore alimentando il sistema con energia fotovoltaica o ottenuta da fonti rinnovabili. Il bilancio complessivo del processo sarebbe prossimo allo zero.

Avremmo, in sostanza, spendendo una piccola quantità di energia pulita, la possibilità di convertire la CO2 atmosferica in metano che, a sua volta, produrrebbe circa l’80% dell’energia spesa per ottenerlo. Insomma, all’apparenza si tratterebbe di un sistema non particolarmente conveniente: non otterremmo abbattimento di CO2 e perderemmo comunque una piccola quantità di energia.

Approfondendo questi studi ci si è resi conto che anche altri batteri, oltre a quelli presenti in ambienti come miniere o nei laghi, sono in grado di produrre energia elettrica. Sono i batteri presenti nel nostro bioma fisiologico, un centinaio di specie di batteri che popolano normalmente il nostro intestino.

Questi batteri, opportunamente utilizzati, potrebbero portare a una vera e propria rivoluzione, dandoci la possibilità di produrre
Bio batterie dai molteplici utilizzi, come, ad esempio, generare energia elettrica negli impianti di trattamento dei rifiuti. La scoperta la dobbiamo a un team di ricerca dell’Università della California a Berkeley guidato da Daniel Portnoy. In pratica abbiamo dei veri e propri generatori elettrici nell’intestino e questo potrebbe, in futuro, permetterci di realizzare delle vere e proprie batterie viventi.

il Listeria monocytogenes è stato il primo dei tanti batteri in grado di produrre energia elettrica individuato nell’intestino umano e, ulteriori studi, hanno permesso di stabilire che molte altre specie che utilizzano un sistema diverso rispetto a quello utilizzato negli altri batteri che producono elettricità finora scoperti in altri ambienti.

Lo stesso accade per i batteri responsabili di alcune malattie, come il Clostridium perfringens, e per quelli coinvolti nella fermentazione dello yogurt. Questi batteri generano energia elettrica grazie a un effetto secondario del loro metabolismo: in pratica, rimuovono gli elettroni prodotti dal processo metabolico e li trasferiscono ai minerali presenti all’esterno, generando, con una serie di reazioni a cascata, una corrente elettrica di 500 microampere.

Stiamo parlando di un settore in cui gli studi sono appena agli inizi e le cui applicazioni pratiche sono, probabilmente, ancora lontane nel futuro ma che, date le premesse, potrebbe un giorno permetterci di sostituire le inquinanti batterie chimiche con più economiche e sostenibili batterie biologiche.

Fonti: Ansa.it, focus.it


Come scegliere un hd esterno

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Sei alla ricerca di un hd esterno per archiviare i file del tuo computer? Se non hai più spazio per conservare dati sul Pc, oppure se temi di perderli, la scelta giusta è dotarsi di un disco esterno che può contenere quanti file vuoi che si possono portare con te e visualizzare su qualsiasi computer.

Per saper scegliere un hd esterno non c’è bisogno di particolari competenze, è sufficiente concentrarsi su alcuni aspetti fondamentali. In particolare prenderemo in considerazione:

  • la capienza
  • la grandezza
  • la velocità di rotazione
  • la velocità del trasferimento dei dati
  • l’alimentazione

Prima di iniziare con l’analisi delle principali caratteristiche, ti suggerisco di avere di fronte le offerte di yeppon.it, poiché sarai subito in grado di controllare il prezzo promozionale che viene praticato su questo sito alla voce hd esterno, le sue caratteristiche e potrai comparare il rapporto prezzo qualità migliore.

Le caratteristiche di un hd esterno da tenere d’occhio

Se hai bisogno di un dispositivo facile da portarti dietro e che sia pronto all’uso semplicemente collegandolo con il cavo usb al Pc, devi optare per un hd esterno da 2,5″ autoalimentato. Se invece ti va bene un dispositivo più capiente da scrivania, ci sono i 3,5″ che si alimentano con la spina di corrente normale. In quest’ultimo caso la velocità di rotazione raggiunge i 7.200 rpm contro i 5.400 rpm dei 2,5″.

Un dato che può interessarti è la velocità di trasferimento dei dati. Ormai quasi tutti sono dotati del cavo usb 3.0 che attua lo spostamento dei file ad una velocità fino a 5 Gbps, con un effettivo a 625 Mbps al secondo. Se si ha un Pc con porte usb 2.0 non ci sono problemi di adattabilità visto che sono retro-compatibili ovviamente con un downgrade in termini di velocità.

Ultimamente è sorto un nuovo format di cavo usb denominato 3.1. Promettono di arrivare a 10 Gbps (nelle versioni più avanzate) ma occorre fare attenzione al connettore che potrebbe non essere adattabile al tuo Pc. I cavi di connessione potrebbero infatti essere USB Type-C che si differenziano dai normali usb per via del fatto che si infilano nei due versi, e normalmente si trovano nei laptop compatti.

La connessione Thunderbolt (siamo alla 3° generazione) invece è stata implementata per i computer Apple, con un trasferimento dati che arriva, nell’ultima generazione , a 40 Gbps.

Altre caratteristiche che potrebbero interessare, potrebbero riguardare la resistenza agli urti. in questo caso occorre guardare l’etichetta del produttore. Questo particolare dovrebbe essere più basato sull’esperienza utente, quindi conviene rifarsi alle valutazioni che si trovano in giro per la rete.

La funzione back up talvolta è inclusa nel software di alcuni hd esterni, non è una vera necessità, viste le funzionalità già comprese nel sistema Windows e macOS.

Le unità SSD portatili

Per non farci mancare nulla, voglio parlarti anche delle unità SSD portatili. Dischi a stato solido per leggere e scrivere con una velocità più elevata rispetto agli hd esterni che vengono anche chiamati hard disk meccanici. Il loro costo è nettamente superiore ed hanno dei limiti per la scrittura dei dati. Il loro utilizzo è suggerito solo se si ha bisogno di una velocità di trasferimento dati notevole e superiore agli standard degli hd esterni tradizionali.

Le marche che ora vanno per la maggiore sono Toshiba, Maxtor e Verbatim. Con 50 euro si arriva a comprare un buon hd esterno da 2,5″ con una capienza di 1 TB. Il consiglio è di valutare la capienza in funzione delle necessità. Una buona scelta può essere il 2 TB che non costa molto di più. Per la velocità del trasferimento dati bisogna fare i conti con il proprio computer, in generale una connessione 3.0 è la giusta via di mezzo che non da problemi di retro-compatibilità.