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I razzi fantasma

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di Oliver Melis per Aenigma

Razzi fantasma, cosi venivano chiamati alcuni presunti ordigni, descritti nella grande maggioranza dei casi come oggetti di forma affusolata con delle fiamme nella parte posteriore, osservati nel 1946 nei cieli della Svezia e e in alcuni paesi vicini alla Scandinavia. Nel periodo che andava da febbraio a dicembre di quell’anno vennero contati circa 2000 avvistamenti e almeno 200 furono i contatti radar.

Le indagini svolte dagli investigatori portarono alla conclusione che la maggior parte degli avvistamenti erano causati da meteore, infatti molti degli avvistamenti avvennero di la notte e il picco delle osservazioni si verificò tra il 9 e il 16 agosto in concomitanza con il passaggio dello sciame delle Perseidi.

Vennero però registrati anche dei passaggi di “razzi fantasma” le cui traiettorie erano totalmente dissimili da quelle delle meteore. Furono allora avanzate diverse ipotesi per spiegare il misterioso fenomeno.

L’IPOTESI V1/V2

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Una delle prime ipotesi formulate sui razzi fantasma fu che potevano essere delle armi di origine nazista, i razzi V1 e V2 che dalla base di Peenemunde devastarono l’Inghilterra nel corso della seconda guerra mondiale. La base, dopo la caduta del regime nazista, finì nelle mani dei Sovietici. Allarmato, l’Esercito Svedese stabilì una direttiva che vietava ai giornali di rivelare la precisa localizzazione degli avvistamenti dei razzi fantasma e i dettagli delle traiettorie e della velocità degli ordigni per non avvantaggiare chi eseguiva i presunti lanci.

I razzi fantasma furono segnalati anche in nazioni dell’Europa del sud e dell’Africa del nord. In Grecia i razzi fantasma furono avvistati nella zona di Tessalonica. Il Governo allora decise di formare una commissione d’indagine guidata dal fisico Paul Santorini, già membro del progetto Manhattan. Anni dopo, lo stesso Santorini rivelò che la commissione aveva stabilito che il fenomeno osservato non aveva attinenza con i razzi fantasma segnalati altrove e le indagini furono chiuse in seguito a colloqui con ufficiali Statunitensi. Secondo il fisico Greco le indagini furono bruscamente interrotte per non dover ammettere l’esistenza di tecnologie superiori.

I RAZZI FANTASMA ERANO UFO?

Nel 1997 vennero declassificati dei documenti secretati in possesso dell’Usaf dal 1948 dove si rivela che gli investigatori militari avessero all’epoca avanzato l’ipotesi che i razzi fantasma potessero essere fenomeni di natura aliena.

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Ma tale ipotesi è attendibile? Niente lo dimostra, nessun ritrovamento di materiale presumibilmente alieno venne effettuato e l’unica spiegazione possibile è quella delle meteore che, al netto dei pochi avvistamenti apparentemente inspiegabili per via delle loro traiettorie non convenzionali, continua a sembrare la più probabile.

Oliver Melis è owner su facebook delle pagine NWO ItaliaPerle complottare e le scie chimiche sono una cazzata

Con due sole ondate migratorie i gatti conquistarono il mondo

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Stiamo cominciando a capire quando e come i gatti si trasformarono da felini selvatici in animali domestici, amanti delle comodità e coccoloni. A quanto pare, i gatti sono stati probabilmente addomesticati per la prima volta in Medio Oriente poi iniziarono a diffondersi, al seguito delle loro famiglie, prima via terra poi anche via mare, nel resto del mondo. Tutto questo ci viene riportato dai ricercatori impegnati nell’analisi del DNA di questi felini.

I primi agricoltori portarono con loro i gatti in Europa dal Medio Oriente, attraverso una lunga migrazione via terra, circa 6.400 anni fa. Questa è la conclusione dello studio effettuato sul DNA di 352 antichi gatti. Una seconda ondata di migrazione, forse via mare, sembra sia avvenuta circa 5.000 anni dopo. Fu allora che i gatti egiziani rapidamente colonizzarono l’Europa e il Medio Oriente.

I ricercatori descrivono come arrivati a queste date in un nuovo studio pubblicato il 19 giugno su Nature Ecology & Evolution .

L‘addomesticamento (Doh-MES-ti-kay-shun) è un processo lungo e lento attraverso il quale gli uomini hanno adattato animali o piante selvatiche alla convivenza nella società umana fino ad arrivare ad essere utili e di compagnia. Per esempio, i lupi sono diventati cani. I buoi selvatici sono diventati bestiame da allevamento. E i gatti selvatici sono diventati gatti domestici.

Sul dove e quando questo sia accaduto ai gatti, si è lungamente dibattuto. I ricercatori avevano solo il DNA dei gatti moderni su cui lavorare. I dati ricavati dimostrarono che i gatti domestici sono discendenti dei gatti selvatici africani. restava, però, poco chiaro quando esattamente i gatti addomesticati cominciarono a diffondersi in tutto il mondo. Ora, le nuove tecnologie per estrarre e studiare il DNA antico cominciano a fornire alcune risposte.

Eva-Maria Geigl e Thierry Grange sono i responsabili di questa profonda immersione nella storia genetica dei gatti. Sono biologi molecolari. Entrambi lavorano all’Istituto Jacques Monod di Parigi, in Francia. I mitocondri (My-tow-KON-dree-uh) sono piccole strutture che producono energia all’interno delle cellule. Contengono un po’ di DNA. Il DNA mitocondriale si trasmette solo in linea materna. Gli scienziati usano varietà leggermente diverse di DNA mitocondriale, chiamate mitotipi , per tenere traccia del lato femminile delle famiglie.

Geigl, Grange ed i loro colleghi hanno raccolto DNA mitocondriale proveniente da 352 antichi gatti e 28 gatti selvatici moderni. Si tratta di casmpioni risalenti fino a 9000 anni fa e raccolti in regioni che vanno dall’Europa all’Africa.

Gatto egiziano

Gli antichi egiziani spesso rappresentavano gatti in dipinti e statue. I gatti furono descritti inizialmente come cacciatori, abili uccisori di serpenti. Raffigurazioni successive mostravano i felini acciambellati sotto le sedie. Quella progressione rispecchia la trasformazione del gatto da cacciatore selvatico a cacciatore domestico intento a catturare i parassiti intorno ai depositi di grano degli antichi agricoltori fino a diventare un animale domestico e socievole. ANNA (NINA) MACPHERSON DAVIES © ASHMOLEAN MUSEO / UNIVERSITÀ DI OXFORD

Tra i 10.000 ed i 9.500 anni fa, i gatti selvatici africani ( Felis silvestris lybica ) entrano in scena come domestici. probabilmente questi felini cacciavano topi, serpenti ed altri parassiti intorno ai granai e i primi agricoltori, riconosciutane l’utilità, finirono per incoraggiarli a restare intorno alle case, dando loro gli scarti alimentari. Questa collaborazione si rivelò vantaggiosa per entrambe le parti e i gatti finirono per diventare parte integrante della famiglia anche durante gli spostamenti migratori.

Pian piano il gatto finì per entrare nelle case, conquistandosi sempre di più la fiducia e l’affetto degli esseri umani. Sull’isola mediterranea di Cipro, 9.500 anni fa, un notabile del luogo fu sepolto con il suo gatto. È quindi molto probabile che a quell’epoca ci fossero già parecchie persone che avevano stretti legami con i propri gatti.

Prima che i primi agricoltori iniziassero a migrare dal Medio Oriente all’Europa, i gatti selvatici europei ( Felis silvestris silvestris ) svilupparono un mitotipo. Si chiama clade I. Un gatto bulgaro di 6.400 anni e un gatto rumeno di 5.200 anni avevnoa un diverso tipo di DNA mitocondriale. Entrambi avevano mitotipo IV-A. Si tratta di un mitotipo precedentemente rilevato solo nei gatti domestici rinvenuti in Turchia.

I gatti sono territoriali e di solito non vagano molto. Ciò suggerisce che siano stati gli esseri umani a migrare portandosi dietro i gatti.

Modelli di gatto

I gatti selvatici ed i primi gatti domestici sembrano avere tutti lo stesso tipo di mantello tigrato a righe. Oggi, però, circa l’80 per cento dei gatti domestici moderni porta una mutazione che dà a un gatto un tipo di mantello detto tabby blusato. Nuovi dati genetici suggeriscono che questa mutazione si è verificata  in Asia sudorientale durante il Medioevo. (I quadri nella tabella rappresentano i gatti antichi campionati come parte di uno studio del DNA. L’azzurro indica mantelli tigrati e rosso i mantelli a macchie di tabby). Si ipotizza che la mutazione si sia diffusa rapidamente perchè il nuovo tipo di mantello permetteva alle persone di distinguere più facilmente il proprio gatto. C. OTTONI ET AL / NATURA ECOLOGIA E EVOLUZIONE 2017

Le Mummie (e altro) raccontano un’altra storia

I gatti domestici africani, comprese tre mummie di gatto ritrovate in Egitto, presentavano, però, un altro mitotipo ancora. È conosciuto come IV-C. Fino a circa 2.800 anni fa, quel tipo è stato trovato in gran parte in Egitto. Ma poi ha cominciato ad apparire in Europa e in Medio Oriente. E tra i 1.600 ed i 700 anni fa si è diffuso molto velocemente. Sette dei nove dei gatti europei antichi testati dai riceractori presentano questo tipo di DNA egiziano. Tra questi, un gatto risalente a circa 1350 anni fa trovato nei pressi del porto di Viking, sul Mar Baltico.

Lo stesso mitotipo è stato rinvenuto in trentadue su 70 gatti provenienti dall’Asia sud-occidentale. La velocità della diffusione di questo mitotipo potrebbe significare che le navi antiche includevano dei gatti nel loro equipaggio e che qualcuno di quei gatti potrebbe aver deciso di fermarsi in qualche porto per accasarsi.

La rapida diffusione del DNA dei gatti egiziani potrebbe significare che qualcosa ha reso questi animali particolarmente attraenti. I gatti domestici non sono molto diversi dai gatti selvatici. La grande differenza è che i gatti domestici tollerano le persone. E i gatti egiziani potrebbero essere stati particolarmente amichevoli. Probabilmente erano più simili al tipo di gatto domestico che troviamo oggi nelle nostre case.

Un’altra possibile ragione che potrebbe avere permesso ai gatti egiziani di diffondersi in modo così capillare potrebbe stare nel fatto che trovandosi lungo i percorsi commerciali e di spedizione potrebbero essere facilmente stati arruolati nelle carovane o sulle navi come cacciatori di topi.

Insomma, nonostante gli studi approfonditi sul DNA ne sappiamo ancora poco e molte delle informazioni appartengono al campo delle speculazioni. Tra le poche sicurezze che abbiamo sui nostri gatti vi è quella che discendono dai gatti egiziani e, chissà, quando li sorprendiamo con lo sguardo spesso nel vuoto, forse stanno rimirando, nella loro mente, lontani deserti e antiche piramidi.

Il killer dello zodiaco

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Killer dello Zodiaco è il soprannome con cui è noto un serial killer statunitense che operò nella zona nord della California alla fine degli anni sessanta del XX secolo. Egli stesso si attribuì il nome in una serie di lettere di sfida alla stampa datate fino al 1974: queste ultime contenevano quattro crittogrammi o messaggi cifrati, tre dei quali rimangono ancora senza soluzione.

“Zodiac” uccise cinque persone a Benicia, Vallejo, al Lago Berryessa e a San Francisco tra il dicembre 1966 e l’ottobre 1969: furono colpiti quattro uomini e tre donne di età comprese fra i 16 e i 29 anni, e due di loro sopravvissero alle aggressioni. A Zodiac sono state attribuite anche numerose altre vittime, senza tuttavia sufficienti prove per confermarle.

L’identità del killer rimane ancora oggi sconosciuta. La polizia di San Francisco ha catalogato il caso come “inattivo” nell’aprile del 2004, ma l’ha riaperto nel marzo 2007; anche in altre giurisdizioni il caso rimane aperto.

Zodiac entra in scena

Domenica, 30 ottobre 1966, lo Zodiac Killer fa il suo debutto. La vittima si chiama Cheri Jo Bates, una studentessa 18enne che frequenta il Riverside City College.

L’assassino la adesca nel parcheggio vicino alla libreria del College. La macchina della ragazza non parte e l’uomo si offre di aiutarla. Purtroppo il motore non si avvia e l’uomo si offre di accompagnare a casa la ragazza. Si sospetta che la macchina fosse stata appositamente sabotata dall’uomo.

I due si avviano insieme ma in un vicolo buio e appartato il killer entra in azione. La ragazza viene uccisa brutalmente con un coltello: tre pugnalate al torace, una alla schiena, il coltello affonda sette volte nella sua gola, troncandole la laringe, la vena giugulare e la carotide. La troveranno quasi decapitata ma non subì violenza né furto. Le ragioni del delitto restano inspiegate.

Non si può certo dire che l’assassino sia stato perfetto. Nelle vicinanze del corpo viene rinvenuto un orologio da uomo, fermo sulle 12.23, con tracce di vernice sul cinturino. C’è anche una impronta di scarpe e tracce di pelle e capelli sono rimaste sotto le unghie della povera Cheri Jo Bates.

Il fatto che l’assassino e la ragazza siano rimasti appartati al buio per più di un’ora suggerisce agli investigatori la pista dell’omicidio passionale. Le indagini vengono quindi indirizzate verso gli amici e gli ex fidanzati della ragazza. È a questo punto che il killer si presenta.

Il 29 novembre 1966, la centrale di polizia di Riverside e la sede del giornale “Enterprise” ricevono la copia carbone di una lettera battuta a macchina. Spedite da una casetta di posta sperduta nella campagna, senza francobollo e senza indirizzo del mittente, le lettere sono intitolate “La Confessione”. La firma, quasi a prendersi gioco dei destinatari, è stata invece sostituita da 12 linee, come in un gioco di enigmistica.

All’interno di questa lettera lo Zodiac Killer descrive, senza risparmiare sui particolari, la dinamica dell’omicidio, dal momento dell’abbordaggio al taglio della gola. La parte più preoccupante è però il finale: “Lei era giovane e bella ma è morta. Non è la prima e non sarà nemmeno l’ultima. Passo notti insonni a pensare chi sarà la mia prossima vittima. Forse la bionda che fa la babysitter e che attraversa ogni giorno un vicolo buio verso le sette, o forse sarà la brunetta a cui ho chiesto informazioni. […] Spargerò le loro parti per la città in modo che tutti vedano. […] Guardatevi da..Io ora mi avvicino furtivamente alle vostre ragazze.”

Viste le numerose contraddizioni (il killer scrive, a torto, che la ragazza non ha opposto resistenza e che il coltello si è rotto nel torace della ragazza), inizialmente la lettera non fu presa in considerazione anche se la descrizione del sabotaggio all’automobile è un’informazione in possesso solo della polizia. L’F.B.I. riesaminerà più volte le lettere legate agli omicidi di Zodiac e non si sposterà dalla classificazione subito attribuita: opera di uno sciacallo mitomane.

Sei mesi dopo l’omicidio Bates, la polizia di Riverside, la stampa e il padre della ragazza ricevono nuovamente una lettera in tre copie. Questa volta le buste sono affrancate e il testo è stato scritto a matita su della carta da lettere. Al posto della firma c’è un misterioso simbolo formato da una specie di Z, unita lateralmente a una sorta di 3.

“Bates doveva morire. Altre ne verranno”

L’omicidio della Bates resterà insoluto. L’F.B.I. e le autorità locali restarono sull’idea dell’omicidio passionale mentre gli investigatori e i giornalisti della Bay Area di San Francisco associarono questo omicidio a quelli che avvennero nella stessa area durante gli anni successivi.

Il killer dello Zodiaco si presenta

Vallejo e Benicia sono due cittadine della Baia di San Pablo, all’incirca a 20 miglia nord-est di San Francisco. Negli anni ’60 l’area tra le due cittadine era praticamente disabitata e ancora oggi l’autostrada che le unisce non è del tutto asfaltata.

Poco prima delle 21.00 del 20 dicembre 1968, in queste zone, viene avvistata una macchina metalizzata a quattro porte.

Nemmeno un’ora dopo, dei ragazzi vengono seguiti da questa auto, su un sentiero di ghiaia. Spaventati cambiano strada e fuggono.

Alle 23.10, David Arthur Faraday e Betty Lou Jensen non avranno la stessa accortezza. Usciti di casa con la scusa di andare a un concerto natalizio, i due si appartano in una radura. Passa un’ora, poi qualcuno comincia a fare fuoco contro di loro con una calibro 22. Comincia da dietro, sfondando il vetro posteriore e forando il pneumatico sinistro. Poi l’assassino si avvicina, fino ad arrivare alla portiera di sinistra, e ricomincia a fare fuoco.

I due adolescenti, 16 e 17 anni, corrono fuori dalla portiera opposta e tentano la fuga, ma invano. Betty Lou Jensen verrà ritrovata a 10 metri dal paraurti posteriore. Uccisa da cinque colpi alla schiena, tra la quinta e la sesta costola. Per David Faraday è bastata una sola pallottola, ben piazzata alla testa.

Stella Borges, unica testimone, dirà di aver visto allontanarsi una Chevrolet metalizzata, a quattro porte, diretta verso Benicia, prima di ritrovare i corpi dei giovani.

Nonostante la taglia messa dalla polizia sull’omicida, non verrà mai trovato il colpevole.

Sei mesi più tardi, verso le 24:00 di sabato 5 luglio 1969, Darlene Elizabeth Ferrin, 22 anni, e Michael Renault Mageau, 19 anni, vengono presi di mira da degli spari, mentre sono seduti nella propria macchina nel parcheggio del Blue Rock Springs Golf Course.

Darlene Ferrin è andata a prendere il suo amico un’ora prima, quindi si sono fermati lì per mangiare qualcosa e chiacchierare. Qui una macchina marrone, si è accostata a loro, spegnendo i fari, per poi ripartire a tutto gas verso Vallejo.

Cinque minuti dopo la macchina ritorna.

Dopo aver parcheggiato a 3 metri dall’auto dei ragazzi, il conducente scende, spegnendo i fari per nascondere il proprio viso. Convinti che si tratti di un poliziotto, i ragazzi estraggono i loro documenti e si preparano alla classica ramanzina, ma il misterioso individuo comincia a sparare attraverso il finestrino del passeggero. L’arma è una 9 mm con silenziatore.

Mageau viene colpito di striscio al viso e al braccio, quindi al ginocchio. terrorizzato il ragazzo riesce a saltare nella parte posteriore e a nascondersi. Darlene invece non ce la fa: i colpi la raggiungono alla testa e alla schiena, morirà alle 24.38.

Prima di svenire, Mageau riesce a vedere l’assassino di profilo. Lo descriverà come un uomo di media altezza, circa 1.75, e grasso. Porta degli occhiali.

Secondo i più, Darlene conosceva l’omicida, forse si trattava di uno spasimante rifiutato. La descrizione del ragazzo invece non fu tenuta molto in considerazione, poiché era sotto antidolorifici.

Alle 12:40 della stessa notte, la sede centrale della polizia di Vallejo riceve una telefonata da una cabina. La voce è matura e senza accento, parla uniformemente e costantemente, come se stesse leggendo da un copione.

“Vorrei riportare alla vostra attenzione un duplice omicidio. Dirigetevi a un miglio est sul Viale di Cristoforo Colombo, verso il parco pubblico, lì troverete dei ragazzi in una macchina marrone. Gli ho sparato con una Luger da 9 mm. Ho ucciso dei ragazzi anche l’anno scorso. Buona serata.”

Il 31 luglio 1969, l’Examiner di San Francisco, il Chronicle di San Francisco, e il Time-Harald di Vallejo ricevono tre lettere. Allegato a ogni lettera c’è un crittogramma che il 1 agosto viene pubblicato sulla prima pagina di ognuno dei tre giornali. Le lettere sono simili, anche se con parole diverse. L’assassino dimostra di essere veramente il colpevole fornendo particolari che solo lui e la polizia potevano sapere. Aggiunge inoltre che ha già ucciso una dozzina di persone e che se non venissero pubblicato i crittogrammi farà un massacro.

“In questo crittogramma in tre parti è celata la mia identità”

Ogni lettera finisce con un simbolo molto simile a una croce celtica e uno strano simbolo cifrato che è probabilmente il vero arcano da svelare per risalire all’identità del killer.

Il crittogramma viene decifrato e risolto in meno di una settimana, da un professore di liceo e da sua moglie, ma evidentemente l’assassino non ha mantenuto la promessa. Il testo che emerge infatti non è la sua identità, bensì la confessione di un collezionista di anime: “Mi piace uccidere le persone perché è molto più divertente di ogni gioco selvaggio che si possa fare in una foresta. L’uomo è l’animale più pericoloso ed elettrizzante di tutti da uccidere […] La parte migliore è che quando morirò, rinascerò in paradiso e tutte le mie vittime saranno miei schiavi. Perciò non vi darò il mio nome o tenterete di fermare la mia raccolta di schiavi per la vita ultraterrena. Ebeorietemethhpiti.”

Come per il caso Bates si ricorre alla F.B.I. che, come nel caso Bates, conclude che l’autore non sia il vero assassino, ma qualche sciacalloin cerca di fama.

Il 4 agosto l’Examiner di San Francisco riceve un’altra lettera. In essa il killer sbeffeggia gli investigatori perché non riescono a risolvere il simbolo cifrato, racconta nuovamente con accuratezza l’attentato ai due ragazzi, spiegando anche come fa a sparare con sicurezza al buio. Per la prima volta si firma “Zodiac”. Tutte le lettere verranno analizzate per anni, senza rintracciare impronte utili.

Il 27 settembre 1969, sulla spiaggia occidentale del Lago Berryessa, 60 miglia a nord est da San Francisco, Zodiac torna a colpire.

Sono le 15.00 quando tre giovani donne di Angwin, stanno parcheggiando vicino al lago. Una Chevrolet azzurra si accosta a loro, all’interno c’è un uomo che sembra intento a leggere qualcosa e le ragazze non gli danno peso.

L’uomo è alto circa 1.80, sui 90 kg, occhialuto, indossa una maglia nera e blu su dei pantaloni neri. Le donne si allontanano e camminano lungo la riva del lago, prendendo il sole. Quando si accorgono che l’uomo le osserva silenziosamente, fumando sigarette, si preoccupano un po’. Passano 20 minuti così, quando l’uomo finalmente si allontana.

Lo stesso uomo viene avvistato da un dentista e suo figlio.

Di tutt’altra maniera l’incontro tra l’uomo misterioso e Cecilia Ann Shepard e Bryan Calvin Hartnell, due studenti universitari.

Poco prima di essere troppo vicino alla coppia, l’assassino si butta addosso una tunica nera, con dei fori per gli occhi. Sulla vita è disegnato il solito stemma molto simile a una croce celtica.

Alla cintura è appeso un pugnale, mentre nella mano destra l’uomo impugna saldamente una pistola.

Si presenta come un evaso dalla prigione di Deer Lodge, nel Montana, ed esige l’auto dei ragazzi per scappare nel Messico. La parlata è incredibilmente monotona e calma, senza cadenze o accenti.

Bryan Hartnell con freddezza, sperando di arrivare a una soluzione pacifica e senza danni, prova a rilassare il pazzo e i due finiscono per discutere a lungo, seduti sulla vettura dei ragazzi.

All’improvviso però l’assassino perde le staffe senza motivo apparente.

Lega Cecilia e comincia a colpire la coppia con il suo coltello, probabilmente una baionetta.

Sei pugnalate per Bryan Hartnell, dieci per Cecilia Shepard. Il ragazzo si riprenderà e riuscirà a depositare per la polizia, ma la ragazza morirà nel giro di 48 ore.

Prima di andarsene, lo Zodiac Killer impugna un gessetto nero, di quelli che si utilizzano nei riti magici, e scrive sulla portiera della macchina: “Vallejo 12-20-68, 7-4-69, Sept 27-69-6:30. Con un coltello.”

Anche questa volta la polizia di Vallejo riceve una telefonata, dalla stessa cabina. Non è passata nemmeno un’ora dall’aggressione.

“Vorrei segnalare un assassinio, no, un duplice omicidio. I corpi sono a due miglia a nord della sede centrale del parco. Erano in una Volkswagen bianca. Sono stato io.”

11 ottobre 1969. A cadere vittima dello Zodiac Killer è un tassista 39enne di San Francisco, Paul Stine. È appena finita la corsa. Il passeggero si è fatto portare dall’angolo tra la Mason e Geary Street all’angolo tra la Washington e Maple Streets, presso Presidio Heigths. E qui, invece di pagare, estrae una pistola da 9 mm e spara alla testa di Stine.

Prima di lasciare la scena del delitto, strappa un pezzo di camicia insanguinata dalla schiena del tassista e poi sparisce nella notte.

La descrizione fornita dei testimoni è sempre la stessa, anche se inizialmente dei ragazzini si sbagliano: indicano alle pattuglie un uomo di colore, e così la fuga a piedi dello Zodiac Killer è fin troppo facile.

Sul luogo del delitto vengono rintracciate le solite impronte che non porteranno mai a nessuno.

Nei giorni successivi arrivano alla stampa le solite lettere nelle quali lo Zodiac Killer si assume la responsabilità dell’omicidio. L’indirizzo del mittente c’è, ma è rappresentato dall’ormai immancabile croce celtica. Per smentire le solite voci che non si tratterebbe di lettere autentiche, lo Zodiac Killer allega al messaggio un pezzo della camicia insanguinata del tassista. Un pezzo per ogni lettera.

Nel finale delle lettere l’assassino si vanta di aver spiazzato gli investigatori, avendo cambiato all’improvviso la tipologia delle vittime, insinuando che potrebbe rubare un pulmino della scuola e uccidere tutti i bambini che ci sono sopra.

Inutile aggiungere che a queste dichiarazioni seguirà il panico. Tutti i casi insoluti della costa ovest saranno imputati allo Zodiac Killer. Da Houston ad Atlanta, fino ad arrivare a St. Louis. Si rafforzano i controlli alle uscite delle scuole e gli autisti dei pulmini vengono armati.

Seguono altre lettere, una delle quali ha un contenuto seriamente minaccioso:

“È Zodiac che vi parla. Dalla fine di ottobre ho ucciso 7 persone. Sono piuttosto arrabbiato con la polizia che dice un sacco di bugie sul mio conto, quindi cambierò continuamente il metodo di raccolta degli schiavi. Non lo annuncerò più a nessuno, quando commetterò degli omicidi, questi vi sembreranno furti, uccisioni di rabbia o futili incidenti.. […] La polizia non mi prenderà mai perché sono più intelligente di loro: 1) l’identikit che gira corrisponde a me solo quando vado a caccia di anime, il resto del tempo sono completamente diverso. 2) Non possono avere le mie impronte come dicono perché io indosso delle coperture sulle dita, sono di cemento per aeroplani. 3) Tutte le mie armi sono state comprate per corrispondenza da paesi stranieri e non potete rintracciarmi. […] La sera dell’omicidio del tassista ero al parco, dei poliziotti si sono fermati per chiedermi se avessi visto qualcuno di sospetto..” La lettera termina con una delirante descrizione di una arma potentissima, in grado di far saltare in aria un autobus, che l’assassino avrebbe costruito con le sue mani e che terrebbe in cantina.

La lettera successiva raggiunge l’avvocato Melvin Belli, il 27 dicembre 1969. È allegata a una cartolina di auguri natalizi. Il killer sembra inspiegabilmente lucido e invoca addirittura aiuto. Pentito della minaccia di attentato all’autobus di bambini, chiede aiuto a Belli perché teme di perdere nuovamente il controllo e di ricominciare a uccidere. “Per piacere mi aiuti, non manterrò il controllo ancora a lungo.”

Purtroppo non contatterà più Belli in seguito, facendo perdere le proprie tracce per più di tre mesi.

Domenica 22 marzo 1970. È sera. La 23enne Kathleen Johns sta guidando sulla Highway 132, nella Contea di San Joaquin. In auto con lei c’è la figlioletta Jennifer.

Una macchina si avvicina a lei, l’autista suona il clacson, le fa gesti e le urla che ha una ruota a terra e si propone volontariamente di aiutarla a cambiarla.

L’uomo in realtà rimuove solamente i bulloni e così, quando Kathleen si rimette in marcia, la ruota si leva del tutto. Dispiaciuto per il nuovo incidente, lo sconosciuto le offre un passaggio fino alla prossima stazione di servizio.

Il viaggio dura a lungo, nella direzione di Modesto (California), tuttavia il gentile sconosciuto pare non volersi fermare a nessuna stazione di servizio.

Kathleen capisce che è in pericolo e, agguantata la figlioletta, salta giù dalla vettura. Si nascondono tra le ombre, nell’argine prosciugato di un fiumiciattolo per l’irrigazione dei campi. Il killer prova a cercarle per circa dieci minuti, aiutandosi con i fari dell’auto e una torcia, ma alla fine abbandona l’impresa e scompare nella notte.

Raggiunta la stazione di polizia di Patterson, Kathleen si siede su una sedia, pronta a raccontare allo sceriffo la propria brutta avventura e per sporgere denuncia. Alle spalle dell’uomo c’è un tabellone con gli identikit di tutti i ricercati e, proprio tra questi, la donna riconosce il colpevole. L’identikit indicato da Kathleen Johns è quello dello Zodiac Killer.

Zodiac scompare

Tra l’aprile 1970 e il marzo 1971, lo Zodiac Killer invia almeno nove lettere, ma da esse la polizia non risale a nessun ulteriore crimine. Né riesce a rintracciare l’omicida.

Il 30 gennaio 1974, un giornale di San Francisco ricevette la prima lettera in quasi tre anni. Poche parole senza senso, la firma riportava le misteriose notazioni “Me-37” e “SFPD-0″mentre 1/3 della pagina era occupato da un’enorme croce celtica, vicino alla quale compariva la dicitura “=3”.

Nel 1975, Don Striepke, uno sceriffo della Contea di Sonoma stilò un rapporto con una teoria interessante. Segnando su di una mappa una serie di 40 assassini insoluti degli Stati Occidentali, si andava a formare una gigantesca Z. Questa teoria però cadrà ben presto nel dimenticatoio, poiché nella stessa zona e negli stessi anni operava anche Ted Bundy.

Il 24 aprile 1978 è stata consegnata alla stampa la 21esima lettera dello Zodiac Killer. La lettera debutta con un inquietante “sono tornato” che sparge il terrore tra gli abitati della Bay Area. Nessun crimine è stato rintracciato nella zona prima o dopo la lettera e ad essa sono seguite lettere senza senso, che lodavano il lavoro della polizia. Dopo accurate analisi si è scoperto che l’autore di queste lettere sarebbe stato tale Dave Toschi, ufficiale di polizia a capo delle indagini sullo Zodiac Killer.

Altra teoria bocciata severamente è quella avanzata all’inizio degli anni ’80 dallo scrittore George Oakes. L’autore disse di essere in contatto telefonico con l’assassino da anni, e di conoscere bene la sua mentalità basata sull’acqua, sugli orologi e sulle matematiche binarie. Aggiunse anche di sapere l’identità del killer. L’F.B.I. senza nessuna delicatezza ha etichettato questa teoria come “a lot of bullshit”.

Molto più interessante è un libro del 1986, “Zodiac” di Robert Graysmith. In questo volume il killer viene indicato con lo pseudonimo di “Robert Hall Starr”. “Starr” viene descritto come un fanatico di armi e come un molestatore di bambini, indicato dalla polizia come il sospetto numero uno. Graysmith accredita allo Zodiac Killer un totale di 36 possibili vittime, uccise tra ottobre 1966 e maggio 1981. Oltre ai sei omicid noti, Graysmith include nella sua analisi 15 vittime collegate ad un misterioso killer non identificato della California settentrionale, e 15 vittime di un omicida “astrologico”, caratterizzato dall’aver eseguito i suoi omicidi in prossimità di un solstizio o un equinozio. Il 99% delle vittime sono donne, e il modus operandi è incostante. Ciò riporterebbe alle parole “cambierò continuamente il metodo di raccolta degli schiavi” scritto dal killer nel ’69.

Effettivamente il Robert Hall Starr di Graysmith è esistito davvero. Si chiamava Arthur Leigh Allen, ed era un insegnante incriminato per molestie sessuali nei confronti di alcuni bambini. Per anni è stato sospettato di essere lo Zodiac Killer ed è l’unico ad aver subito interrogatori e processi su questo caso. È morto nel 1992 a 58 anni, stroncato da una malattia ai reni, ma le indagini sono proseguite sempre nella sua direzione.

Nel 2002, grazie alle moderne tecnologie, è stato estratto il DNA dalla saliva rimasta sotto alcuni francobolli utilizzati da Zodiac. Il Dna ha dimostrato che Allen non era il colpevole.

È stata la prima e unica svolta da quando, nel 2000, gli ispettori Kelly Carroll e Michael Maloney, della polizia di Vallejo, hanno riaperto il caso dello Zodiaco…e non è certo una svolta positiva.

Sempre nel 2002, nello stato di Washington, un serial killer ha firmato i propri delitti con un foglietto riportante la scritta: “Sono Dio”. “Quando morirò, rinascerò in paradiso” annunciava lo Zodiac Killer, ma si tende ad escludere che il responsabile sia stato lo stesso uomo che ha ripreso a colpire dopo un intervallo di 30 anni.

Resta che Zodiac non è mai stato individuato e che alcuni degli omicidi rimasti insoluti dagli anni ’60 ad oggi sono suggestivi di essere avvenuti tramite la stessa mano. Ormai Zodiac, ammesso sia ancora vivo, dovrebbe avere oltre settanta anni e le probabilità che possa essere individuato e arrestato sono ormai al lumicino.

Insomma, salvo colpi di scena clamorosi, Zodiac Killer resterà sempre un’ombra sfuggente.

Un successo il flyby di Juno con la grande macchia rossa di Giove. Ecco le prime immagini

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La missione JUNO della NASA ha completato il fliby all’interno dell’atmosfera di Giove passando nei pressi della grande macchia rossa il 10 luglio durante la sua sesta orbita scientifica.

Tutti gli strumenti scientifici di Juno, compresa la JunoCam hanno funzionato regolarmente durante il fliby, raccogliendo dati che sono ora in corso di trasmissione sulla Terra. Il prossimo volo di Juno su Giove avrà luogo il 1 Settembre.

Le immagini originali dell’ultimo flyby della navicella saranno pubblicate nei prossimi giorni, intanto ecco le prime immagini elaborate rilasciate dal JPL. Nei prossimi giorni ne seguiranno altre ancora più interessanti:

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This enhanced-color image of Jupiter’s Great Red Spot was created by citizen scientist Kevin Gill using data from the JunoCam imager on NASA’s Juno spacecraft.

The image was taken on July 10, 2017 at 07:07 p.m. PDT (10:07 p.m. EDT), as the Juno spacecraft performed its 7th close flyby of Jupiter. At the time the image was taken, the spacecraft was about 6,130 miles (9,866 kilometers) from the tops of the clouds of the planet.

Images of Jupiter’s Great Red Spot reveal a tangle of dark, veinous clouds weaving their way through a massive crimson oval. The JunoCam imager aboard NASA’s Juno mission snapped pics of the most iconic feature of the solar system’s largest planetary inhabitant during its Monday (July 10) flyby. The images of the Great Red Spot were downlinked from the spacecraft’s memory on Tuesday and placed on the mission’s JunoCam website Wednesday morning. 

“For hundreds of years scientists have been observing, wondering and theorizing about Jupiter’s Great Red Spot,” said Scott Bolton, Juno principal investigator from the Southwest Research Institute in San Antonio. “Now we have the best pictures ever of this iconic storm. It will take us some time to analyze all the data from not only JunoCam, but Juno’s eight science instruments, to shed some new light on the past, present and future of the Great Red Spot.” 

As planned by the Juno team, citizen scientists took the raw images of the flyby from the JunoCam site and processed them, providing a higher level of detail than available in their raw form. The citizen-scientist images, as well as the raw images they used for image processing, can be found at: httpss://www.missionjuno.swri.edu/junocam/processing

“I have been following the Juno mission since it launched,” said Jason Major, a JunoCam citizen scientist and a graphic designer from Warwick, Rhode Island. “It is always exciting to see these new raw images of Jupiter as they arrive. But it is even more thrilling to take the raw images and turn them into something that people can appreciate. That is what I live for.”

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This enhanced-color image of Jupiter’s Great Red Spot was created by citizen scientist Jason Major using data from the JunoCam imager on NASA’s Juno spacecraft.
 
The image was taken on July 10, 2017 at 07:10 p.m. PDT (10:10 p.m. EDT), as the Juno spacecraft performed its 7th close flyby of Jupiter. At the time the image was taken, the spacecraft was about 8,648 miles (13,917 kilometers) from the tops of the clouds of the planet.
Measuring in at 10,159 miles (16,350 kilometers) in width (as of April 3, 2017) Jupiter’s Great Red Spot is 1.3 times as wide as Earth. The storm has been monitored since 1830 and has possibly existed for more than 350 years. In modern times, the Great Red Spot has appeared to be shrinking.  

All of Juno’s science instruments and the spacecraft’s JunoCam were operating during the flyby, collecting data that are now being returned to Earth. Juno’s next close flyby of Jupiter will occur on Sept. 1.

Juno reached perijove (the point at which an orbit comes closest to Jupiter’s center) on July 10 at 6:55 p.m. PDT (9:55 p.m. EDT). At the time of perijove, Juno was about 2,200 miles (3,500 kilometers) above the planet’s cloud tops. Eleven minutes and 33 seconds later, Juno had covered another 24,713 miles (39,771 kilometers), and was passing directly above the coiling, crimson cloud tops of the Great Red Spot. The spacecraft passed about 5,600 miles (9,000 kilometers) above the clouds of this iconic feature.

Juno launched on Aug. 5, 2011, from Cape Canaveral, Florida. During its mission of exploration, Juno soars low over the planet’s cloud tops — as close as about 2,100 miles (3,400 kilometers). During these flybys, Juno is probing beneath the obscuring cloud cover of Jupiter and studying its auroras to learn more about the planet’s origins, structure, atmosphere and magnetosphere.

Early science results from NASA’s Juno mission portray the largest planet in our solar system as a turbulent world, with an intriguingly complex interior structure, energetic polar aurora, and huge polar cyclones. 

“These highly-anticipated images of Jupiter’s Great Red Spot are the ‘perfect storm’ of art and science. With data from Voyager, Galileo, New Horizons, Hubble and now Juno, we have a better understanding of the composition and evolution of this iconic feature,” said Jim Green, NASA’s director of planetary science. “We are pleased to share the beauty and excitement of space science with everyone.”  

JPL manages the Juno mission for the principal investigator, Scott Bolton, of Southwest Research Institute in San Antonio. The Juno mission is part of the New Frontiers Program managed by NASA’s Marshall Space Flight Center in Huntsville, Alabama, for the Science Mission Directorate. Lockheed Martin Space Systems, Denver, built the spacecraft. JPL is a division of Caltech in Pasadena. 

More information on the Juno mission is available at: httpss://www.nasa.gov/juno

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This enhanced-color image of Jupiter’s Great Red Spot was created by citizen scientist Gerald Eichstädt using data from the JunoCam imager on NASA’s Juno spacecraft.

The image is approximately illumination adjusted and strongly enhanced to draw viewers’ eyes to the iconic storm and the turbulence around it. 

The image was taken on July 10, 2017 at 07:07 p.m. PDT (10:07 p.m. EDT), as the Juno spacecraft performed its 7th close flyby of Jupiter. At the time the image was taken, the spacecraft was about 6,130 miles (9,866 kilometers) from the tops of the clouds of the planet.

“Per generazioni persone di tutto il mondo hanno espresso meraviglia per la grande macchia rossa di Giove”, ha dichiarato Scott Bolton, ricercatore principale di Juno “Ora finalmente potremo vedere da vicino questa tempesta”.

La macchia rossa è una tempesta di 10.000 miglia di larghezza (16.000 chilometri di larghezza) che è stata monitorata dal 1830 e che probabilmente è in corso da più di 350 anni. Negli ultimi anni , la grande macchia rossa sembra essere rimpicciolita.

Juno ha raggiunto il perijove (il punto in cui l’orbita si avvicina al centro di Giove) il 10 luglio alle 6:55 pm PDT (9:55 pm EDT). Al momento del perijove, Juno era circa 2.200 miglia (3.500 chilometri) sopra le nuvole del pianeta. Undici minuti e 33 secondi più tardi, Juno aveva coperto altri 24.713 miglia (39.771 chilometri) ed era passato direttamente sopra le nuvole cremisi velate del Grande Rosso. La nave spaziale passava circa 5.600 miglia (9.000 chilometri) sopra le nuvole di questa caratteristica iconica.

Il 4 luglio alle ore 19:30 PDT (10:30 pm EDT), Juno ha registrato esattamente un anno in orbita di Giove, segnando 71 milioni di miglia di viaggio intorno al pianeta gigante.

Juno è stata lanciata il 5 agosto 2011, da Cape Canaveral, Florida. Durante la sua missione di esplorazione, Juno si è avvicinata alle nubi del pianeta fino a circa 2.100 miglia (3.400 chilometri). Durante questi flybys, Juno ha sondato la cappa scura di nuvole tentando di scoprire cosa vi sia sotto e ha studiato le aurore di Giove per saperne di più sulle origini, sulla struttura, sull’atmosfera e sulla magnetosfera del pianeta.

I primi risultati scientifici della missione JUNO della NASA rappresentano il più grande pianeta del nostro sistema solare come un mondo turbolento, con una struttura interiore intrigante e complessa, una polarità polare energica e enormi cicloni polari.

Il JPL gestisce la missione Juno attraverso il ricercatore principale, Scott Bolton, dell’Istituto di ricerca sud-occidentale. La missione Juno fa parte del programma New Frontiers gestito dal NASA Marshall Space Flight Center di Huntsville, Alabama, per la Direzione Missionaria della Scienza. La sonda è stata costruita da Lockheed Martin Space Systems di Denver. Il JPL è una divisione del Caltech di Pasadena. Maggiori informazioni sulla missione Juno sono disponibili all’indirizzo:

httpss://www.nasa.gov/juno

https://missionjuno.org

Il pubblico può seguire la missione su Facebook e Twitter a:

httpss://www.facebook.com/NASAJuno

httpss://www.twitter.com/NASAJuno

DC Agle 
Jet Propulsione Laboratorio, Pasadena, California 
818-393-9011 / 818-354-6278 
agle@jpl.nasa.gov

Un team italiano alla ricerca di vegetazione su Trappist-1

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Uno studio sta cercando di capire se potrebbe esistere vegetazione nel sistema TRAPPIST-1 e come potremmo fare per individuarla.

Guidato da Tommaso Alberti dall’Università di Reggio Calabria, in Italia, il team ha esaminato quanta terra e acqua sono prevedibili su ciascun pianeta e hanno dedotto che l’eventuale presenza di qualsiasi forma di vegetazione dovrebbe rendere peculiare l’aspetto di ogni mondo.

La ricerca è disponibile su arXiv e sarà pubblicata su The Astrophysical Journal.

TRAPPIST-1 è una stella nana rossa che dista 40 anni luce dalla Terra, balzata agli onori della cronaca all’inizio di quest’anno, quando è stato scoperto che intorno ad essa orbitano 7 pianeti di tipo roccioso, non dissimili dalla Terra, dei quali almeno tre sembrano essere nella zona abitabile della stella, dove le condizioni potrebbero esserci le giuste condizioni acqua liquida e forse la vita.

In questo studio, i ricercatori hanno usato un “modello di equilibrio energetico semplicemente basato sull’equilibrio clima-vegetazione” per studiare il clima di ogni pianeta. TRAPPIST-1d è stato individuato come il mondo dal clima più stabile e simile alla Terra, che, inoltre, orbita nella migliore posizione per mantenere l’acqua liquida. Si tratta di un dato interessante perchè nei precedenti studi i pianeti e, f, g sembravano più adatti..

Noi non possiamo guardare direttamente i pianeti, possiamo però studiare le variazioni della luce della stella attraverso la loro atmosfera. In futuro, potremo vedere anche la luce riflessa dalle loro superfici e questo sarà fondamentale per capire se si tratta di pianeti abitabili.

In questo ultimo studio, i ricercatori hanno affermato che la radiazione in uscita da ciascun pianeta potrebbe dipendere dalla vegetazione e anche dalla composizione atmosferica, per cui ulteriori studi sui pianeti potrebbero rivelare alcune delle loro caratteristiche superficiali.

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Una volta considerato correttamente l’effetto serra di un’atmosfera i futuri telescopi potrebbero confermare la presenza di continenti ed eventuale vegetazione sui mondi TRAPPIST-1 o altri pianeti.

“Siamo in grado di indagare scenari diversi per il sistema planetario TRAPPIST che va da pianeti rocciosi e sterili a pianeti simili a Terra con condizioni di effetto serra simili e / o diversi che ci permetteranno di individuare il ruolo della vegetazione nella definizione di un particolare clima”, ha detto Alberti alla rivista Seeker.

Ricerche simili erano già state intraprese. Nel febbraio di quest’anno, alcuni scienziati hanno proposto che il tipo di luce riflessa potrebbe dipendere da qualsiasi vegetazione presente. È interessante notare che, visto che questa stella emette luce per lo più nello spettro dell’infrarosso, si sospetta che qualsiasi vegetazione su questi pianeti sarebbe più scura della nostra per poter assorbire più energia.

“Se dovessimo atterrare su uno dei pianeti, non aspettatevi di vedere un’oasi o piante verdi”, ha detto Lisa Kaltenegger, direttore dell’Istituto Carl Sagan di New York. “In realtà si prevede che le piante utilizzino fondamentalmente tutta la luce disponibile, riflettendone il meno possibile per sfruttarne al massimo l’energia. Questo potrebbe rendere la vegetazione locale molto scura“.

Una nota del CDC avverte le donne americane di non mangiare la propria placenta

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Ebbene si, tra le tante mamme informate che popolano la rete internet ed i social media si va diffondendo da un po’ di tempo la bizzarra idea che farsi consegnare la propria placenta dopo il parto per poi mangiarla sia un’ottima idea e dia benefici importanti per la salute. Tra le celebrità che hanno abbracciato quest’idea “perchè se lo fanno gli animali deve fare bene…” Kim e Kourtney Kardashian e l’attrice Jan Jones.

Nonostante non vi sia alcuna prova  che mangiare la placenta abbia benefici per la salute, l’idea si è andata diffondendo tra i sostenitori delle teorie salutiste per la medicina alternativa su base naturale. Addirittura, su you tube è possibile trovare videoricette che insegnano come preparare o cucinare la placenta o anche, addirittura, trasformarla in un frullato da bere.

E dove si subodora l’affare c’è anche chi produce tacos di placenta e pubblica un libro ricette intitolato 25 ricette con la placenta – ricette semplici e deliziose per cucinare la placenta! Che su Amazon ha avuto anche un certo numero di buone recensioni. 

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Per coloro che vogliono consumare la loro placenta, senza dover seguire le ricette, esistono anche aziende che trasformano la placenta umana in capsule che si possono poi prendere con un bicchiere d’acqua come un qualsiasi farmaco o integratore alimentare.

Di fronte a questo fenomeno è intervuto il CDC (Centre for Disease Control) che ha pubblicato una relazione per spiegare che mangiare la placenta è inutile e non comporta alcun beneficio ma può, anzi, essere pericoloso per i bambini.

Nella relazione, il CDC spiega che proprio le capsule di placenta hanno causato una grave infezione ad un bambino di Portland, nell’Oregon.

La madre si era fatta conservare la placenta dopo il parto e l’aveva fatta trasformare in pillole da un’azienda specializzata.

Per fare questo, le aziende prendono la placenta, la puliscono e disidratano, e poi la macinano, utilizzando poi il risultato della macinazione per riempire le capsule.

Questa donna era convinta che far prendere una capsula di placenta al giorno al bambino, lo avrebbe aiutato a crescere più sano e forte. Purtroppo, subito dopo avere iniziato l’assunzione delle capsule il piccolo si ammalò. per un certo tempo i medici ebbero difficoltà ad individuare la causa della patologia finché non vennero casualmente informati che la madre aveva richiesto la sua placenta alla nascita.

Una rapida analisi delle capsule di placenta residue ha permesso di identificare la causa della malattia: batteri infettivi all’interno della placenta stessa. secondo il CDC, l’azienda che ha preparato le capsule, non ha scaldato il macinato di placenta abbastanza per abbattere la carica batterica patologica eventualmente contenutavi prima di spedire le capsule alla madre.

Fortunatamente, il bambino, sottoposto alle cure idonee, è sopravvissuto ma, nel report, il CDC specifica che non esistono benefici provati per la salute nell’assunzione di placenta umana e suggerisce di evitare di farlo.

“L’ingestione della placenta è stata recentemente promossa alle donne postpartum per i suoi benefici fisici e psicologici, anche se non c’è nessuna prova scientifica a sostegno di questa ipotesi”, recita la relazione che arriva a sottolineare che “non esistono standard per l’elaborazione della placenta per il consumo”, il che significa che non esistono norme per garantirne la sicurezza.

Il CETA e l’agroalimentare italiano: alcune paure infondate

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di Piercamillo Falasca per Strade

Saremo invasi dai prodotti canadesi?

Il Canada è il dodicesimo partner commerciale dell’Unione Europea – nel 2015 ha rappresentato l’1,8 per cento del commercio estero totale della UE – mentre la UE rappresenta il secondo partner commerciale del Canada (dopo ovviamente gli Stati Uniti), rappresentando una quota del commercio estero canadese del 9,5 per cento. Il valore dello scambio bilaterale in beni e servizi è stato nel 2015 di 90,7 miliardi di euro

Il grosso delle esportazioni europee verso il Canada è rappresentato da macchinari industriali, chimica e mezzi di trasporto. Dal Canada l’Europa compra invece molti metalli preziosi e minerali, ma non mancano macchinari e prodotti chimici. Nei servizi, prevalgono i trasporti, i viaggi, le assicurazioni e il settore delle comunicazioni. Nell’anno 2014, il valore degli investimenti diretti europei in Canada è stato di quasi 275 miliardi mentre gli investimenti canadesi nella UE cifravano 166 miliardi.

Rispetto al comparto agroalimentare, secondo le stime della Commissione Europea, il Canada è stato la destinazione di prodotti agroalimentari europei per un valore di quasi 3,5 miliardi di euro (nona destinazione dell’agri-food europeo, dopo Usa, Cina, Svizzera, Giappone, Russia, Arabia Saudita, Norvegia e Hong Kong), mentre le importazioni dal Canada sono stati pari a circa 2,2 miliardi.

Va evidenziato che ben 15 paesi esportano nell’Unione Europea più prodotti agroalimentari del Canada: Brasile (quasi 12 miliardi annui), Stati Uniti (11,2 miliardi), Argentina (5,9 miliardi), Cina (5 miliardi), Svizzera (4,7 miliardi), Turchia (4,6 miliardi), Indonesia (4,1 miliardi), Ucraina (4 miliardi), e poi tra i 2 e i 3 miliardi a testa Costa d’Avorio, India, Sud Africa, Vietnam, Thailandia, Nuova Zelanda e Cile.

Queste cifre inducono tre considerazioni: 1. Pur considerando le sue enormi potenzialità territoriali e i margini di crescita, ad oggi il Canada è un paese piccolo in termini di popolazione e di economia, certamente non in grado di “invadere” il mercato europeo, tanto meno quello agroalimentare. 2. Gettare a mare il Ceta – cioè l’accordo di libero scambio tra UE e Canada – avendo solo in mente il mercato agroalimentare significa danneggiare un interscambio non-agrifood 12 volte superiore a quello agroalimentare. 3. Limitandoci al comparto agroalimentare, è evidente la natura strumentale delle proteste anti-Ceta: ad oggi, non si registrano proteste particolari per gli ipotetici rischi sanitari connessi alle importazioni alimentari dalla Cina, dalla Turchia o dall’Indonesia, da ognuna delle quali importiamo il doppio di quel che prendiamo dal Canada, o dal Brasile, il cui import in Europa è più di 5 volte quello canadese.

Con il Ceta mettiamo a rischio i nostri prodotti tipici?

In realtà, per la prima volta in un accordo commerciale, l’Unione Europea è riuscita ad affermare e a far accettare il principio della tutela delle indicazioni geografiche. Con il Ceta, il Canada ha accettato il riconoscimento di 143 igp europee (di cui 41 italiane). Nei giorni scorsi, la protesta di Coldiretti e della CGIL contro il CETA ha puntato il dito sul fatto che l’accordo non tutelerebbe le restanti 250 igp italiane. Non spiegano però, i promotori della protesta, che, prima del CETA, nessuna delle 291 igp italiane, le 41 ora incluse nell’accordo e le 250 che restano fuori, era tutelata.

Per fare un esempio: senza il CETA, in Canada si poteva senza problema produrre un aceto balsamico e chiamarlo “Modena Balsamic”. Con l’accordo il Canada sarà tenuto a proteggere questi 143 prodotti tradizionali europei dall’imitazione, più o meno come accade in Europa. Nel mercato italiano ed europeo, comunque, non sarà possibile per il Canada vendere alcun prodotto che contrasti con tutte le igp esistenti: in altre parole, non una delle 291 igp italiane avrà nulla da temere nel grande mercato europeo.

Insomma, il CETA è un notevole passo in avanti per promuovere e tutelare davvero la tipicità italiana e per contrastare il cosiddetto “Italian sounding”. Si poteva fare di più? Probabilmente sì, ma far fallire l’accordo significherebbe non tutelare nessuno, come accaduto finora, e soprattutto far tramontare il vero successo europeo: aver per la prima volta affermato anche fuori dai nostri confini la prevalenza dell’indicazione geografica sul mero marchio commerciale, che nella mentalità nordamericana è l’unico oggetto meritevole di tutela.

Mangeremo carne con ormoni?

Sul punto, ha già risposto tempo fa Daniele Oppo su StradeL’accordo non cambierà nulla in Europa in termini di sicurezza sanitari e fitosanitaria: la UE non accetta l’ingresso di carni contenenti residui di ormoni. I produttori canadesi potranno vendere la loro carne in Europa senza dazi, ma a condizione che la produzione segua le stringenti regole europee. C’è già un dibattito nel paese nordamericano, in particolare tra i produttori di carne, sulle condizioni e sulle strategie per attivare linee di produzione “hormone-free”.

Un dato curioso riguarda lo sbilanciamento dell’accordo: l’Europa permetterà l’ingresso di una quota di carne canadese senza dazi, crescente nel tempo fino a raggiungere in 6 anni le 75mila tonnellate; al contrario la carne europea potrà entrare in Canada libera da dazi e da quote fin da subito. Eppure, stando alle regole sanitarie canadesi, ci sono ben 83 tipologie di medicine per il trattamento dei vitelli permesse in Europa ma proibite in Canada perché favorirebbero lo sviluppo di microbi resistenti agli antibiotici.

Mangeremo mais e soia ogm?

Li mangiamo già. In Europa è vietata la coltivazione del mais e della soia geneticamente modificati, ma tali prodotti sono contenuti legalmente nei mangimi dati in pasto agli animali in Europa, anche per produrre poi prodotti dop e igp (carni, salumi e formaggi).

Il grano importato dal Canada è “peggiore” di quello italiano?

Purtroppo il grano italiano non è sufficiente al fabbisogno nazionale, tanto meno all’industria della pasta italiana, che esporta all’estero più del 45 per cento di quanto viene prodotto. Tra pesti e condizioni climatiche non sempre ottimali, ogni anno l’Italia ha bisogno di importare sempre più grano duro: erano 450 mila tonnellate nel 2013, sono diventate il doppio nel 2016. Per mantenere elevata la qualità della pasta italiana, dunque, c’è la necessità di importare il miglior grano duro disponibile nel mondo: dalla Francia, dagli Stati Uniti, dall’Australia e – appunto – dal Canada.

Le analisi svolte dagli istituti zooprofilattici di Lombardia ed Emilia Romagna, dall’Arpa Puglia e dal Centro per la ricerca in agricoltura e per l’economia agraria (Crea) attestano che il grano canadese si caratterizza per una bassa concentrazione di microtossine, circa 25 volte meno rispetto al limite indicato nella normativa comunitaria (si veda, a tal proposito, questo articolo del Fatto Alimentare, una rivista solitamente “ostica” con i prodotti importanti, ma non in questo caso).

Grazie al Ceta, i produttori italiani di pasta potranno accedere a una materia prima utile e di qualità, a un prezzo più basso di quanto sia possibile oggi. Ne beneficeranno l’industria, peraltro sempre più orientata all’esportazione, e i consumatori in termini di prezzo. Ci sarà un danno per i produttori italiani di grano, come denuncia Coldiretti? Sul punto, bisogna intendersi: nessuno pensa che il libero scambio sia un pranzo di gala o che un accordo commerciale possa essere un beneficio solo per uno dei contraenti, o che non vi siano nell’abbattimento delle barriere doganali alcuni settori che ne possono soffrire.

Ma la sfida dell’economia italiana, nel mondo globale, non potrà più essere quella di chiudersi e sperare di vivere da sé e per sé. Ci sarà un futuro, e si spera prospero, per il grano italiano se si preferirà la via degli investimenti, dell’innovazione e soprattutto della qualità.

Piercamillo falasca

Identificata una nuova minaccia per gli astronauti: i funghi

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Una delle minacce più insidiose per la salute degli astronauti della ISS e, in prospettiva, per i futuri coloni inviati su Marte o sulla Luna, sono, sorprendentemente, i funghi. Queste forme di vita, semplici ma estremamente resistenti e pervasive vanno ad aggiungersi alle arcinote minacce per chi trascorre periodi della sua vita in ambienti extraterrestri quali la mancanza di gravità, le radiazioni e molte altre cose che possono uccidere o danneggiare una persona.

Un nuovo studio pubblicato sulla rivista Microbiome dimostra che quando gli esseri umani si installano in habitat chiusi quali sono la ISS e quelli che potrebbero essere che potrebbe essere un giorno utilizzati sulla luna o su altri pianeti come Marte, è molto probabile che portino con sé dei passeggeri clandestini, dei funghi noti come mycobiome.

Un team di ricercatori del Jet Propulsion Laboratory della NASA ha osservato ciò che è accaduto quando gli esseri umani si sono trasferiti nell’Haatum Analog Habitat (ILMAH) Lunar / Mars, un habitat realizzato per simulare le condizioni della Stazione Spaziale Internazionale e di ipotetiche basi lunari o marziane.

“Abbiamo dimostrato che la varietà fungina complessiva è aumentata all’interno dell’habitat in presenza di esseri umani,” recita il rapporto presentato dal ricercatore senior della NASA Dr. Kasthuri Venkateswaran.

“I funghi riescono a sopravvivere in condizioni e ambienti difficili come i deserti, le grotte e perfino nei siti di incidenti nucleari e sono noti per essere difficili da sradicare dagli altri ambienti, compresi gli spazi coperti e chiusi”, ha spiegato Venkateswaran. “I funghi non sono solo potenzialmente pericolosi per gli abitanti, ma potrebbero anche deteriorare gli stessi habitat”.

Gli studi attualmente in corso mirano ad individuare e sviluppare sistemi e procedure che permettano pulizia e manutenzione degli habitat da utilizzare in ambienti extraterrestri per ridurre al minimo il rischio di infezioni fungine. per ottenere risultati sarà necessario, in primo luogo, studiare i mycobiomi degli esseri umani costretti a vivere in habitat chiusi e ridotti come quelli considerati.

Insomma, i futuri astronauti e coloni spaziali dovranno preoccuparsi molto di igiene e pulizia non solo dell’ambiente in cui vivranno ma anche dell’igiene personale, allo scopo di prevenire possibili infezioni che potrebbero diventare difficili da curare.

Nuova Emoex.it la piattaforma per i pazienti emofiliaci

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Un’iniziativa lanciata dalla rivista “Ex“, storico media dedicato ai pazienti affetti da Emofilia e Talassemia, pubblicata dall’Associazione emofilici e talassemici ‘Vincenzo Russo Serdoz’ per un uso più moderno e diretto della comunicazione. Il sito web della rivista, www.emoex.it, è stato completamente rinnovato  e comprende anche un certo numero di profili social in grado di interagire, per permettere a coloro che convivono con la malattia di vincere il senso di solitudine.

Il lancio del nuovo sito avviene in concomitanza con il 26° convegno della International Society on Thrombosis and Haemostasis (Isth), uno dei più importanti appuntamenti del settore, che si svolge a Berlino. Il restyling grafico e strutturale è stato pensato per rendere più efficace e immediata la comunicazione e l’interazione tra i pazienti. Vi è un’ampia disponibilità di articoli, news e approfondimenti legati al mondo dell’emofilia e della talassemia, tutti facilmente consultabili.

I volontari dell’Associazione, fondata nel 1972 a Ravenna e guidata ad oggi da Maria Serena Russo, sorella del fondatore, sono pronti a offrire il loro supporto agli utenti. “Come associazione – spiega Russo – organizziamo e partecipiamo a convegni, e ci battiamo per avere una legislazione adeguata per le persone affette da questa malattia. Da 43 anni pubblichiamo una rivista mensile, Ex, attraverso la quale forniamo informazioni agli emofilici e ai talassemici, combattendo la disinformazione anche a livello medico. Organizziamo anche un campo estivo per ragazzi emofilici con l’assistenza di due medici e di una fisioterapista, dove oltre alle attività ludiche si fa informazione sull’emofilia e si discutono le varie situazioni”.

In occasione di questo rinnovamento digitale, Brunello Mazzoli, direttore della rivista Ex, con più di 40 anni di attività e 500 numeri pubblicati, ha deciso di proporre uno speciale dedicato proprio alla nuova piattaforma. “Con questo nuovo sito – dice – vogliamo migliorare l’informazione in tempo reale raccontandoci attraverso le diverse rubriche, cercando un dialogo ‘diverso’ con i lettori e anche con coloro che non conoscono l’emofilia, la talassemia o altre malattie cosiddette rare. Per questa occasione abbiamo preparato anche uno speciale sul prossimo numero di Ex in cui illustreremo ai nostri lettori il nuovo sito”.

Per agevolare il dialogo e la condivisione tra i pazienti, ma anche i loro familiari, insieme al sito Internet Emoex si avvale anche di una pagina Facebook, di un profilo Twitter e di un canale Youtube, dove poter, tra l’altro, condividere esperienze in maniera interattiva e rivivere anche i momenti più significativi della comunità dei lettori

Si potranno consultare le notizie sui progressi scientifici e gli indiscutibili passi avanti nella qualità di vita: profilassi personalizzata, basata sulle caratteristiche del singolo paziente, inibitori, fisioterapia saranno alcuni degli argomenti trattati per migliorare anche da parte delle famiglie la comprensione e la aderenza alle terapie.

La nuova piattaforma di Emoex.it è stata realizzata grazie al contributo non condizionato di Shire.

Il cavaliere nero

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Negli ambienti ufologici e cospirazionisti circola da anni una storia che coinvolge illustri scienziati, messaggi dallo spazio e visitatori alieni.

Tutto comincia inizia nel 1899 quando Nikola Tesla, dopo aver costruito nella sua abitazione adibita a laboratorio a Colorado Springs una torre radio di incredibile sensibilità, capta per caso un misterioso segnale proveniente dal cosmo.

La Tesla Society ipotizzò che si trattasse di un’interferenza proveniente dal pianeta Giove o di un segnale proveniente dallo spazio profondo ma il segnale non si ripetè e per molto tempo la faccenda rimase nel dimenticatoio.

Con il diffondersi del fenomeno UFO e, successivamente, l’affermarsi di alcune tesi complottiste, il fatto tornò a galla e, secondo una corrente di pensiero, diffusa soprattutto negli ambienti ufologici, il messaggio fu inviato da un satellite alieno in orbita terrestre, chiamato, appunto, il Cavaliere Nero o Black Knight.

Analisti seri hanno bollato come bufala questa ipotesi ma nella seconda metà del secolo precedente l’idea è tornata puntualmente in auge e molti hanno addirittura portato delle prove dell’esistenza del satellite Cavaliere Nero, una struttura extraterrestre, in orbita intorno alla Terra. Tesla, durante la sua vita, ebbe davvero delle intuizioni geniali, ma non mancò di seguire idee strampalate.

Tesla si convinse di aver ricevuto dei segnali da extraterrestri su Marte e Venere, ma si trattava solo di artefatti sperimentali. Tesla, inoltre, era abilissimo a propagandare le proprie invenzioni, attribuendosi scoperte che non aveva mai fatto e questo contribuì a far circolare le tante bufale sul suo conto.

La storia però potrebbe essere un puzzle di storie indipendenti tra di loro che raccontano dell’esistenza di un oggetto o un satellite in orbita attorno alla Terra ma che non riflette nessuna luce e quindi non può essere identificato.

Dopo la storia circolante su Tesla del 1899, il secondo tassello dell’esistenza del misterioso cavaliere nero risale al 1927. In quella data un segnale dallo spazio sarebbe stato captato da un ingegnere Norvegese, Jørgen Hals che riscontrò degli echi in dei segnali radio da lui ricevuti ma non riusci a capirne il significato.

Negli anni 60 il Times annunciò la scoperta di un oggetto in orbita polare attorno alla Terra, una cosa anomala perché i satelliti di allora erano tutti in orbita equatoriale.

Nel 1973 un autore di fantascienza, Duncan Lunan, scrisse un articolo per la rivista Spaceflight Magazine teorizzando che un satellite alieno fosse in orbita attorno alla Luna da 13.000 anni e sarebbe il responsabile dei segnali anomali anche se non la associò mai al misterioso cavaliere nero.

Nel dicembre 1998 arriva una prova fotografica del cavaliere nero : gli astronauti sullo Space Shuttle Endeavour del volo STS-88 fotografarono un oggetto nero amorfo in orbita terrestre. Passarono poche settimane quando il Dipartimento della Difesa Statunitense annunciò che l’oggetto era solo una parte del satellite Discovered.

Durante il lavoro di assemblaggio vi fu la perdita di una coperta termica che sarebbe servita per l’incarto dei perni metallici oscillanti della ISS. La coperta sarebbe stata fotografata prima della caduta dall’orbita bruciando nella sua discesa verso la Terra.

Sebbene esistano queste foto la NASA ha continuato a smentire l’esistenza del satellite alieno. Il solito insabbiamento NASA, diranno i tanti sostenitori della storia del Cavaliere nero e i tanti ammiratori del Tesla amato dai complottisti ma se vi fermate a riflettere un attimo perché la NASA avrebbe pubblicato quelle foto se la storia fosse stata vera? Quale interesse avrebbe avuto a farsi solo un clamoroso autogol?

E la storiella dei 13.000 anni? Qualcuno ha mai calcolato i parametri orbitali dell’oggetto? Se si, dove sarebbero? Sarebbe uno scacco alla “scienza ufficiale” e invece?

Tutto si riduce a una serie di storielle che, negli anni, diversi personaggi hanno assemblato e ricamato speculandoci sopra, la solita operazione attuata da tanti ufologi che giocano sulla credulità popolare.

Il satellite cavaliere nero non esiste e non è mai esistito.