mercoledì, Aprile 2, 2025
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Misteri e bufale su Marte

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Misteriosi pianeti in rotta di collisione con la nostra Terra, fenomeni astronomici senza senso, avvistamenti alieni, testimonianze di chi ha procreato con esseri di altri mondi, basi segrete sulla Luna e su Marte. Le bufale più gettonate diventano sempre più spesso virali raggiungendo un vasto pubblico spesso incapace di applicare il più elementare senso critico.

Guardare il cielo ha acceso la nostra curiosità e soprattutto la fantasia che ci hanno spinto a trovare risposte per soddisfare diverse domande esistenziali. Da circa mezzo secolo ci siamo spinti con entusiasmo e speranza verso i confini del sistema solare cercando qualcosa di simile alla vita sulla Terra, qualcosa che ancora non abbiamo trovato.

La scienza richiede pazienza e non deve lasciarsi trasportare troppo dagli eccessi di fantasia analizzando meticolosamente  tutti i dati disponibili.

Oggi, oltre al nostro cielo, siamo in grado di osservare altri cieli: quello di Marte ad esempio, e il pianeta rosso non è stato certamente risparmiato dagli eccessi di fantasia che lo hanno dipinto prima popolato da una civiltà che si avvicinava all’estinzione (in quanto essendo Marte più distante dal Sole veniva considerato più vecchio della Terra), poi disseminato di incredibili e misteriosi monumenti di pietra che raffiguravano facce, piramidi, mura, città e cupole.

Il cielo rosso di Marte si è, cosi, popolato di oggetti non dissimili dagli UFO “terrestri“ quando i tanti “esperti” si sono cimentati nell’analisi delle foto inviate sulla Terra dai diversi robot inviati ad esplorare il nostro vicino.

Una di queste foto proviene dal rover Opportunity, rover gemello di Spirit (MER-A o MER-2) che ha raggiunto Marte il 25 gennaio 2004 alle 05:05 UTC, tre settimane dopo Spirit, atterrando dall’altra parte del pianeta. Opportunity ha scoperto il primo meteorite caduto su un altro pianeta (Heat Shield Rock), ha analizzato per due anni il cratere Victoria, è sopravvissuto a tempeste di polvere che rischiavano di interrompere la sua attività nel 2007. Nel 2008 ha iniziato la marcia verso il cratere Endeavour che ha raggiunto nell’estate 2011.  Nel mese di marzo del 2015 il rover ha superato i 42,195 km percorsi sul suolo marziano, tagliando l’ideale traguardo della maratona olimpica.

oggetto avvistato su Marte da Opportunity

La foto, la cui didascalia ufficiale della NASA recita: Microscopic Imager EDR full frame non linearizzato acquisito su Sol 654 della missione Opportunity a Meridiani Planum a circa alle 12:02:57 ora solare locale di Marte, la copertura antipolvere per microscopi Imager ha ricevuto la CHIUSURA. NASA / JPL / Cornell / USGS – Fonte originale della NASA: Opportunity -All Raw Image Sol 654 (60 immagini)

Cosa mostra la foto?

La foto mostra quello che apparentemente, sembra un oggetto basso e a forma di cupola in bilico sullo sfondo. Una roccia? Sembrerebbe un oggetto dalla forma regolare  che qualcuno potrebbe spiegare come un disco volante poggiato al suolo.

Ma la spiegazione è molto più terrestre di quello che sembra. Marc Dantonto, analista di immagini del MUFON, ha presentato la seguente spiegazione: l’oggetto in questione non è sullo sfondo perché non c’è sfondo in questa immagine. guardando attentamente è possibile vedere che ciò che è stato scambiato per Marte sullo sfondo è in realtà la superficie del veicolo stesso a cui è attaccato l’oggetto. La “superficie di Marte” termina bruscamente a sinistra, quando il contorno del veicolo cambia, permettendo di capire che si tratta di un caso in cui la leggera sfocatura lo fa sembrare il terreno di Marte. L’iimagine è leggermente sfocata perché il microimager in realtà è focalizzato molto più vicino, su altre parti del veicolo in quel momento. Marte è irrimediabilmente fuori fuoco.

Con un po’ di pazienza, basta andare a vedere le foto scattate da Opportunity per capire che il misterioso oggetto marziano altro non è che una vite fissata su uno dei bracci del rover stesso.

Fonte: https://www.theblackvault.com/casefiles/unknown-object-caught-by-mars-exploration-rover/

Molecole complesse, costituite da 2000 atomi, possono trovarsi in due posti contemporaneamente

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In meccanica quantistica è abbastanza noto il famoso esperimento mentale del gatto di Schrödinger, in cui un ipotetico felino chiuso in una scatola con una fiala di veleno è da considerare, fino all’osservazione effettiva aprendo la scatola, allo stesso tempo, sia vivo che morto. questo esercizio mentale serve per illustrare il paradosso multi-stato della meccanica quantistica.

Bene, ora gli scienziati sono riusciti ad applicare questa teoria a grandi molecole composte da 2.000 atomi.

La sovrapposizione quantistica è stata testata innumerevoli volte su sistemi più piccoli, con i fisici che hanno potuto dimostrare con successo che le singole particelle possono trovarsi in due punti contemporaneamente. Ma questo tipo di esperimento non è mai stato condotto su questa scala prima.

Quello che l’esperimento fa è consentire agli scienziati di affinare le ipotesi della meccanica quantistica e capire di più su come funziona questo ramo particolarmente bizzarro della fisica e su come, su scale più ampie, le leggi della meccanica quantistica si accordano alle regole classiche della fisica tradizionale.

I nostri risultati mostrano un eccellente accordo con la teoria dei quanti e non possono essere spiegati in modo classico“, affermano i ricercatori nel l’articolo pubblicato di recente.

In particolare, il nuovo studio coinvolge l’equazione di Schrödinger (sì, di nuovo lui), che descrive come anche singole particelle possano agire come onde in più punti contemporaneamente, interferendo tra loro proprio come le increspature dell’acqua in uno stagno stagno in cui viene tirato un sasso.

Per testare la loro ipotesi, gli scienziati hanno avviato il classico , un test molto familiare a chi si interessa di fisica quantistica.

Tradizionalmente, questo esperimento comporta la proiezione di singole particelle di luce (fotoni) attraverso due fenditure. Se i fotoni si comportassero semplicemente come particelle, la risultante proiezione di luce sull’altro lato mostrerebbe semplicemente una banda. Ma in realtà, la luce proiettata sull’altro lato mostra un modello di interferenza: più bande che interagiscono, dimostrando che anche le particelle di luce possono agire come onde.

BTezp48v5dHJs6Tw7jHHnB 650 80(Johannes Kalliauer / Wikimedia, CC-BY-SA 3.0)

Questo esperimento sembra dimostrare che i fotoni si trovino in due punti contemporaneamente, proprio come il gatto di Schrödinger. Ma come molti di noi sanno, il gatto è in due stati sovrapposti solo finché rimane inosservato. Non appena la scatola viene aperta, si stabilisce lo stato di vivo o morto, non più entrambi.

Con i fotoni è la stessa cosa. Non appena la luce viene misurata o osservata direttamente, la sovrapposizione scompare e lo stato del fotone è bloccato. Questo è uno degli enigmi nel cuore della meccanica quantistica.

Lo stesso esperimento della doppia fenditura era già stato testato con elettroni, atomi e molecole più piccole. E ora i fisici hanno dimostrato che si applica anche a molecole enormi.

In questa versione dell’esperimento a doppia fenditura, il team è stato in grado di utilizzare molecole pesanti, composte da un massimo di 2.000 atomi, per creare schemi di interferenza quantica, come se si comportassero come onde e si trovassero in più di un posto.

Le molecole erano conosciute come “oligo-tetrafenilporfirine arricchite con catene fluoroalchilsulfanil“, e alcune avevano oltre 25.000 volte la massa di un atomo di idrogeno.

Ma, man mano che le molecole diventano più grandi, diventano anche meno stabili e gli scienziati sono stati in grado di farle interferire solo per sette millisecondi alla volta, utilizzando un dispositivo di nuova concezione chiamato interferometro a onda di materia (progettato per misurare gli atomi lungo percorsi diversi).

Per la correttezza dell’esperimento, sono stati presi in considerazione anche fattori come la rotazione terrestre e l’attrazione gravitazionale. Il risultato è che ora sappiamo che queste molecole giganti possono trovarsi in due punti contemporaneamente, così come gli atomi molto più piccoli.

Tradizionalmente, la meccanica quantistica entra in gioco su scale molto piccole mentre la fisica classica funziona bene sulle su grandi scale, questo significa che più grandi sono le molecole che possiamo far lavorare con l’esperimento della doppia fenditura, più ci avviciniamo a quella linea di confine tra fisica quantistica  e classica. Un precedente record per questo tipo di studio ha coinvolto molecole di dimensioni fino a 800 atomi.

I nostri esperimenti dimostrano che la nostra conoscenza della meccanica quantistica, con tutta la sua stranezza, è anche straordinariamente solida, e sono ottimista sul fatto che i futuri esperimenti lo confermeranno su scale ancora maggiori“, afferma il fisico Yaakov Fein, dell’Università di Vienna, in Austria.

La ricerca è stata pubblicata su Nature Physics.

Gli umani producono una quantità di CO2 cento volte maggiore di tutti vulcani presenti sulla terra

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Un team di ricercatori internazionale, grazie ad uno studio decennale, ha scoperto che le emissioni di CO2  prodotte dall’uomo creano un effetto di riscaldamento globale 100 volte maggiore a tutti i vulcani presenti sul pianeta.

La quantità di COemessa dai vulcani e di circa 0,3 gigatonnellate all’anno, una quantità decisamente piccola considerando le 37 gigatonnellate prodotte dall’uomo solo nel 2018.

Questo studio rivela che i vulcani non contribuiscono in maniera decisiva alle emissioni globali come sostengono alcune teorie.

“Gli scettici del cambiamento climatico credono che le emissioni dei vulcani possano essere una causa possibile dell’aumento di CO2, ma non è cosi” ha dichiarato all’agenzia France-Presse. Marie Edmonds, professore di vulcanologia e petrologia al Queens’ College di Cambridge.

La produzione odierna dell’uomo di CO2 è stata più volte superata in passato, ma è successo per eventi catastrofici e uno di questi fu l’impatto dell’asteroide di Chicxulub avvenuto 66 milioni di anni fa. La collisione causò l’aumento del carbonio rilasciando, secondo gli scienziati, una quantità di CO2 compresa tra le 425 e le 1400 gigatonnellate.

Purtroppo l’impatto della civiltà industriale sta producendo una quantità di CO2 paragonabile ad un cataclisma.

“La quantità di CO2 rilasciata nell’atmosfera dalle attività dell’uomo negli ultimi 10-12 anni è equivalente alle emissioni prodotte da eventi catastrofici accaduti nel passato sulla terra” ha spiegato Marie Edmond alla AFP.

Ci troviamo allo stesso livello di quantità di carbonio di una catastrofe, purtroppo la situazione è poco rassicurante” ha aggiunto Celina Suarez, professore associato di geologia all’Università dell’Arkansas.

Il team di scienziati ha fondato un programma di ricerca globale nel 2009, il Deep Carbon Observatory, il quale ha pubblicato una serie di articoli.

Purtroppo alla Terra occorrerà molto tempo per far diminuire la quantità di anidride carbonica presente nell’atmosfera e, come spiega Suarez,La diminuzione avverrà da sola, ma non in un arco di tempo significativo per l’uomo“.

Fonte: Futurism.

È improbabile che Planet Nine sia un buco nero, ma non impossibile

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È noto che il nostro sistema solare è composto di otto pianeti ma, nascosto nel sistema solare esterno potrebbe essercene un nono. No, questo pianeta nove non è Plutone ma piuttosto un mondo dieci volte più distante dal Sole con una massa cinque volte più grande della Terra. Un mondo freddo e oscuro in agguato ai margini del regno del Sole.

Nessun pianeta del genere è stato ancora scoperto, ma ci sono alcuni indizi che potrebbe esserci.

Se Planet Nine esistesse davvero, la sua massa interagirebbe gravitazionalmente con gli altri corpi nel sistema solare. Questa attrazione sarebbe troppo piccola per essere notata per la maggior parte dei pianeti, ma influenzerebbe più fortemente i piccoli corpi che si trovano oltre l’orbita di Nettuno, quelli che sono noti come Trans-Neptunian Objects (TNOs).

Negli ultimi due decenni, abbiamo trovato centinaia di questi oggetti ed è stato notato che molti di loro hanno orbite che sembrano essere orientate in una direzione simile. Questo viene ritenuto un fatto anomalo poiché gli scienziati si aspetterebbero che le orbite di questi corpi distanti così distanti dal Sole siano abbastanza casuali. Nel 2016, Konstantin Batygin e Michael Brown suggerirono che questo raggruppamento potrebbe essere causato da un pianeta ancora da scoprireUlteriori studi sul raggruppamento statistico dei TNO hanno suggerito che le prove non sono così forti, ma vale comunque la pena cercare un tale pianeta.

Con una massa tra le cinque e le dieci terre, il Pianeta Nove sarebbe probabilmente grosso modo grande come Nettuno. Anche a una distanza di 500 UA sarebbe abbastanza grande da essere visto dai nostri migliori telescopi. Ma i sondaggi condotti sia dal Pan-STARRS che dal Wide-field Infrared Survey Explorer (WISE) non hanno trovato prove della presenza di questo fantomatico pianeta.

Ora, un nuovo articolo di Jakub Scholtz e James Unwin suggerisce che, dopo tutto, potremmo non essere in grado di vederlo. Perché potrebbe non essere un pianeta, ma piuttosto un buco nero.

Sembra un’idea folle, ma non è al di fuori del regno delle possibilità. Per cominciare, se Planet Nine fosse un buco nero di massa planetaria, la sua attrazione gravitazionale sui TNO sarebbe esattamente la stessa. Tecnicamente, le prove gravitazionali per un nono pianeta sono anche prove di un possibile piccolo buco nero. Ed è possibile che esistano buchi neri di massa planetaria.

Ma potrebbe esistere una terza tipologia di buchi neri noti come buchi neri primordiali.

Questi potrebbero essersi formati nei primi momenti dell’universo, quando la densità cosmica era così alta che le fluttuazioni di densità collassavano su se stesse.

Teoricamente, i buchi neri primordiali potrebbero avere una massa qualunque, da quella di un piccolo asteroide a quella di migliaia di stelle. Se esistessero i buchi neri primordiali, alcuni potrebbero avere una massa giusta per essere il Pianeta Nove.

I buchi neri primordiali, se esistessero, sarebbero troppo piccoli per essere osservati direttamente. Se Planet Nine fosse davvero un buco nero, avrebbe le dimensioni di una mela.

Uno dei modi che potrebbero permetterci di osservare i buchi neri primordiali è attraverso un effetto noto come microlensing gravitazionale. Se un piccolo buco nero si trovasse tra noi e una stella lontana, la luce della stella verrebbe deviata gravitazionalmente dal buco nero, facendo apparire la stella momentaneamente più luminosa.

Quando l’esperimento di lente gravitazionale ottica (OGLE) ha cercato eventi di microlensing, ne hanno trovati più del previsto e questo surplus potrebbe essere spiegato dalla presenza di buchi neri primordiali nella nostra galassia.

I dati di OGLE non dimostrano l’esistenza di buchi neri primordiali, ma suggeriscono che potrebbero esistere, proprio come il raggruppamento dei TNO suggerisce che Planet Nine potrebbe esistere.

Quindi, forse, un buco nero primordiale potrebbe essere stato catturato dal nostro Sole e ora orbita attorno alla nostra stella, alterando leggermente le orbite dei corpi distanti del sistema solare.

Va sottolineato che si tratta di molte speculazioni che cercano di giustificare alcune evidenti prove. Solo perché “potrebbe” esserci un buco nero nel sistema solare esterno non significa che ci sia. È possibile che un mondo simile a Nettuno sia là fuori e non sia stato ancora trovato. È anche possibile che il raggruppamento di TNO sia circostanziale e non vi sia alcun Pianeta Nove.

Riferimento: Scholtz, Jakub e James Unwin. “Che cosa succede se Planet 9 è un buco nero primordiale?” arXiv prestampa arXiv: 1909.11090 (2019).

Fonte: Forbes.

La misteriosa rete cosmica che collega le galassie

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Dopo aver contato tutta la materia normale e luminosa nei luoghi ovvi dell’universo – galassie, ammassi di galassie e il mezzo intergalattico – ne manca ancora circa la metà. Quindi, non solo l’85 percento della materia nell’universo è costituita da una sostanza sconosciuta e invisibile chiamata “materia oscura”, ma abbiamo problemi anche a trovare tutta la materia normale che dovrebbe esserci.

Questo è noto come problema dei “barioni mancanti”. I barioni sono particelle che emettono o assorbono la luce, come protoni, neutroni o elettroni, che compongono la materia che vediamo intorno a noi. Si pensa che i barioni che non riusciamo ancora a trovare siano nascosti in strutture filamentose che permeano l’intero universo, una struttura nota anche come “la rete cosmica“.

Ma questa struttura è inafferrabile e finora ne abbiamo visto solo vaghi accenni. Ora, però, un nuovo studio, pubblicato su Science, offre una visione migliore che ci consentirà di mappare l’aspetto di questa rete.

La rete cosmica costituisce l’impalcatura della struttura su larga scala dell’universo, prevista dal modello cosmologico standard. I cosmologi credono che ci sia una rete cosmica oscura, costituita da materia oscura, e una rete cosmica luminosa, composta principalmente di gas idrogeno.

In effetti, si ritiene che il 60 percento dell’idrogeno creato durante il Big Bang risieda in questi filamenti.

La rete di filamenti di gas è anche conosciuta come “mezzo intergalattico caldo-caldo (WHIM), perché è più o meno calda come l’interno del sole. È probabile che le galassie si formino all’intersezione di due o più di questi filamenti, dove la materia è più densa, con i filamenti che collegano tutti gli ammassi di galassie nell’universo.

Finora non siamo stati in grado di rilevare la materia oscura. Questo perché non emette né assorbe la luce, quindi non può essere osservata con i normali telescopi. Anche i filamenti di questa ragnatela cosmica sono molto difficili da vedere in quanto sono molto diffusi e non emettono luce sufficiente per essere rilevati.

Dalla previsione originale, c’è stata un’intensa ricerca del web cosmico, usando una varietà di metodi.

Uno di questi si basa su oggetti luminosi che si trovano sullo sfondo lungo la stessa linea di vista di un filamento di gas. Gli atomi di idrogeno nei filamenti possono assorbire la luce a una lunghezza d’onda specifica nell’ultravioletto. Questo può essere rilevato come linee di assorbimento nella luce dall’oggetto di sfondo, se suddivise in uno spettro per lunghezza d’onda.

Questo metodo è stato applicato usando i quasar, che sono oggetti enormi molto luminosi a grandi distanze e persino con galassie sullo fondo .

Le galassie illuminano il web cosmico

Il nuovo studio è riuscito a rilevare il gas in un modo completamente nuovo che consente l’imaging bidimensionale della rete cosmica, anziché fare affidamento sulla posizione casuale di una sorgente luminosa dietro la nuvola di gas utilizzata negli studi sull’assorbimento.

L’oggetto che hanno studiato, chiamato SSA22, è un proto-cluster, il che significa che è un cluster di galassie nella sua infanzia. È molto più lontano dei precedenti frammenti misurati della rete cosmica – la sua luce ha viaggiato per circa 12 miliardi di anni per raggiungerci. Ciò significa che stiamo guardando indietro nel tempo alle prime fasi dell’universo, consentendo agli scienziati di provare a capire come i primi filamenti si sono assemblati.

Alcuni anni fa, un numero di galassie estremamente luminose, a forma di stella, chiamate “galassie sub-millimetriche” sono state rilevate vicino al suo centro. Questo nuovo studio ha individuato 16 di queste galassie e otto potenti sorgenti di raggi X, una rara sovra-densità di tali oggetti per quell’epoca primordiale.

Gli oggetti forniscono un’abbondante quantità di radiazioni ionizzanti a tutto il gas idrogeno dei filamenti, il che gli fa emettere luce che possiamo rilevare.

Un altro mistero che questo studio aiuta a risolvere è la formazione di galassie sub-millimetricheLa spiegazione più ampiamente condivisa è che si formano a seguito della fusione di due galassie normali, formando quindi una galassia massiccia con il doppio della quantità di luce.

Tuttavia, le simulazioni al computer mostrano che queste galassie possono svilupparsi dal gas freddo che penetra nella vicina rete cosmica. Questo scenario è confermato da questo nuovo studio.

Mappa dettagliata

Il nuovo studio apre la strada a una mappatura bidimensionale più sistematica dei filamenti di gas che può parlarci dei loro movimenti nello spazio.

Studi futuri aiuteranno a mappare ulteriormente la rete cosmica nascosta. Oltre a guardare ammassi di galassie pieni di oggetti luminosi, possiamo anche tracciare l’emissione su lunghezze d’onda radio o a raggi X di questo web cosmico. Tuttavia, la radiografia traccia un gas molto più caldo rispetto alla maggior parte del WHIM. L’osservatorio a raggi X di Athena fornirà un quadro completo dei filamenti caldi attorno agli ammassi di galassie nell’universo vicino.

Un’altra missione, proposta per oltre il 2050, è quella di utilizzare lo sfondo cosmico a microonde – la luce rimasta dal Big Bang – come “luce di sfondo” per cercare le sottili impronte lasciate nella rete cosmica.

Tutti questi strumenti riveleranno l’intera struttura della rete cosmica e ci forniranno un censimento definitivo della materia nell’universo.

Inoltre, sappiamo che i barioni si insediano nei filamenti di materia oscura dell’universo per creare i propri filamenti, come schiuma sopra un’onda. Ciò significa che mappe dettagliate dei filamenti di gas potranno aiutarci a tracciare la struttura più nascosta della materia oscura e, in definitiva, aiutarci a capire la sua natura misteriosa.La conversazione

Andreea Font, Docente senior presso l’Astrophysics Research Institute, Università John Moores di Liverpool.

Questo articolo è stato ripubblicato da The Conversation con una licenza Creative Commons. Leggi l’ articolo originale.

Il sistema stellare di origine della cometa interstellare potrebbe essere simile al nostro

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Gli astronomi di tutto il mondo stanno studiando la cometa interstellare 2I / Borisov, l’oggetto interstellare che sta visitando il nostro sistema solare, con l’obiettivo di apprendere su di esso il più possibile.

Queste osservazioni stanno già fornendo affascinanti intuizioni sulla cometa, incluso il fatto che il suo sistema solare di origine potrebbe non essere così diverso dal nostro, cosa in qualche modo attesa ma non scontata.

I ricercatori dell’Istituto di Astrofisica delle Canarie hanno pubblicato sulla rivista non peer review Research Notes della AAS uno studio dove si afferma che la polvere emessa da 2I / Borisov è simile in composizione a quella delle comete provenienti dal nostro sistema solare.

Un altro studio, condotto dai ricercatori della Queen’s University di Belfast e pubblicato sul server di prestampa arXiv, ha determinato che il gas che circonda l’oggetto interstellare è simile a quello delle nostre comete.

E quando osserviamo la quantità di gas che vediamo, rispetto alla quantità di particelle di polvere che viene espulsa anche dalla cometa, sembra anche abbastanza simile“, ha detto il ricercatore Alan Fitzsimmons in un’intervista Scientific American.

Ovviamente, è ancora presto per affermare che il sistema stellare natale di 2I/ Borisov è come il nostro o no, ma gli astronomi sono eccitati da entrambe le prospettive.

Se il sistema stellare di origine fosse come le cose che abbiamo nel nostro sistema solare, vorrebbe dire che i processi che vediamo in atto sono qui da noi sono più tipici di quanto pensassimo“, ha detto il ricercatore della Queen’s University di Belfast Michele Bannister a Science Alert. “Se invece dovessimo capire che è molto diverso, questo ci direbbe che nei sistemi esoplanetari può esservi una chimica che si svolge in un modo abbastanza diverso di quanto non vediamo.”

Questo ci obbligherebbe a rivede molti dei parametri attualmente consolidati nella ricerca della vita oltre il nostro sistema solare.

Fonte: Science Alert

Grazie alla sonda Cassini trovati composti organici idrosolubili su Encelado

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La defunta sonda Cassini, a due anni dalla sua morte, incenerita dal lungo tuffo suicida nell’atmosfera di Saturno, riesce ancora a stupire con l’enorme mole di dati che ci ha fornito. Gli scienziati hanno scoperto gli ingredienti base della vita nei pennacchi emessi come geyser dalla Luna di Saturno Encelado.

Una nuova analisi dei dati in possesso della NASA ha rivelato la presenza di composti organici nei pennacchi di acqua liquida espulsi nello spazio dall’oceano sotto la crosta ghiacciata di Encelado.

Questi composti, che comprendono azoto e ossigeno, svolgono un ruolo chiave nella produzione di aminoacidi ⁠- molecole complesse che fungono da elementi costitutivi delle proteine. Senza proteine, la vita come la conosciamo sulla Terra non potrebbe esistere.

I ricercatori sospettavano da tempo che l’oceano sotto la superficie di Encelado potesse ospitare gli ingredienti per la vita. In precedenza, erano già state rilevate molecole organiche provenienti dalla luna ghiacciata, ma questa è la prima volta che qualcuno le ha rilevate dissolte nell’acqua.

È fondamentale, poiché significa che nelle acque profonde di Encelado questi composti potrebbero subire reazioni chimiche producendo aminoacidi.

Questi risultati sono stati pubblicati sulla rivista Monthly Notices of the Royal Astronomical Society.

Questo lavoro mostra che nell’oceano di Encelado ci sono blocchi reattivi in ​​abbondanza, e questo aumenta le probabilità che Encelado possa ospitare la vita“, ha detto Frank Postberg, coautore dello studio, in un comunicato stampa.

Da Encelado, attraverso getti caldi simili ai geyser che fratturano la spessa crosta di ghiaccio che ricopre un oceano sottostante, si riversano regolarmente nello spazio getti d’acqua e ghiaccio.

Gli scienziati della NASA dietro il nuovo studio, hanno analizzato i dati sulla composizione chimica di quei pennacchi e hanno trovato diversi nuovi composti organici, alcuni contenenti azoto e altri contenenti ossigeno.

Questi composti potrebbero essere il segno che Encelado potrebbe avere una sua versione della storia della creazione. Nel profondo degli oceani terrestri, l’acqua di mare si mescola al magma che fuoriesce dalle fessure del fondo oceanico. Tale interazione produce sfiati idrotermici fumosi che possono arrivare a temperature prossime ai 370 gradi Celsius.

Questi sfiati emettono acqua calda ricca di idrogeno, alimentando reazioni chimiche che trasformano i composti organici in amminoacidi. Questi aminoacidi possono quindi impilarsi l’uno sull’altro come mattoncini di Lego per formare proteine, che sono elementi cruciali per replicare le informazioni genetiche che creano la vita.

Questo processo consente alla vita di svilupparsi senza l’assistenza della luce solare. Questo è importante perché la superficie del ghiaccio di Encelado è altamente riflettente e filtra quella poca luce solare che la luna riceve, quindi qualsiasi forma di vita ci fosse eventualmente nell’oceano della luna di Saturno, dovrebbe essersi sviluppata nel buio.

Gli scienziati ritengono che le possibili prese d’aria idrotermali nell’oceano sotterraneo su Encelado potrebbero funzionare in modo simile a quelle sulla Terra.

Se le condizioni sono giuste, queste molecole provenienti dall’oceano profondo di Encelado potrebbero rappresentare le stesse reazioni che vediamo qui sulla Terra“, ha dichiarato Nozair Khawaja, che ha guidato il gruppo di ricerca. “Non sappiamo ancora se gli aminoacidi sono necessari per la vita oltre la Terra, ma trovare le molecole che formano gli aminoacidi è un pezzo importante del puzzle“.

Questi composti dovrebbero sciogliersi nell’acqua dell’oceano per interagire con le aperture idrotermali e produrre vita. Fino ad ora, gli scienziati non erano sicuri se i composti organici su Encelado lo facessero. “Qui stiamo trovando blocchi organici più piccoli e solubili – potenziali precursori di aminoacidi e altri ingredienti necessari per la vita sulla Terra“, ha dichiarato Jon Hillier, un altro coautore dello studio, nel comunicato.

Altro da imparare dai dati di Cassini

I dati utilizzati per giungere a questi risultati provenivano dalla missione Cassini della NASA. La sonda fu stata lanciata nel 1997 e ha trascorso 13 anni ad esplorare Saturno e le sue lune.

Nel settembre 2017, la missione si è conclusa quando gli scienziati hanno intenzionalmente inviato il veicolo spaziale a precipitare nell’atmosfera di Saturno. Lo hanno fatto per evitare che eventuali microorganismi terrestri presenti nella sonda potessero contaminare Encelado o Titano, l’altra luna di Saturno che potrebbe anche ospitare la vita.

Cassini ha scoperto che Encelado nasconde un oceano globale di acqua salata liquida sotto la sua superficie e ha fotografato getti di quell’acqua sparati nello spazio. La sonda ha attraversato quei pennacchi e ha raccolto dati sulla loro composizione nel 2008.

Gli scienziati ritengono che l’enorme mole di dati raccolti da Cassini dovrà continuare ad essere studiata ed approfondita ancora per decenni.

Intanto, la NASA prevede di inviare una sonda su Titano, che è un altro obiettivo primario nella ricerca della vita aliena a causa dell’abbondanza di composti organici che vi sono stati individuati. la nuova missione dovrebbe arrivare su Titano nel 2034.

Fonte: Business Insider.

Sempre più aspre le discussioni tra gli scienziati riguardo le caratteristiche necessarie per l’abitabilità degli esopianeti

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Poco meno di un mese fa, gli scienziati hanno annunciato di avere individuato in K2-18b un esopianeta a 110 anni luce da noi con vapore acqueo nell’atmosfera. Fondamentalmente, il pianeta si trova posto nella “zona abitabile” della sua stella (la regione attorno a una stella che è abbastanza temperata per permettere la presenza di acqua liquida sulla sua superficie).

L’uso di questa definizione è, però, piuttosto controverso. Anche se è abbastanza certo che su K2-18b gli esseri umani non potrebbero vivere, essendo un pianeta sub-nettuniano, sono in corso accese discussioni tra gli esperti sul fatto se sia possibile che una qualche forma di vita microbica estremofila possa esservisi sviluppata.

insomma, K2-18b probabilmente è nella zona abitabile della sua stella ma non si trova un accordo sulla possibilità che sia davvero abitabile.

Questo disaccordo è in parte dovuto al fatto che non c’è un consenso sul tipo di pianeta che è K2-18b, ma anche anche al fatto che ci sono molti modi diversi di definire l’abitabilità. Alcuni scienziati ritengono che una superficie rocciosa sia essenziale. Altri pensano che forme di vita microbiche potrebbero svilupparsi anche in un’atmosfera adatta.

Ovviamente, tutto questo non costituisce una sorpresa: abitabilità è un termine vago e anche un po’ gergale. Se chiedessimo a un centinaio di scienziati di definire ciò che rende abitabile un pianeta, otterremmo cento risposte diverse.

Gran parte della discussione è stata guidata da ciò che è noto e quale tecnologia ci servirebbe per elaborare modelli al computer di questi pianeti“, afferma Rory Barnes, astronomo e astrobiologo presso il Virtual Planet Laboratory dell’Università di Washington.

In precedenza, i dati forniti dalle osservazioni astronomiche erano estremamente limitati. Ad esempio, nel 2007 gli scienziati scoprirono Gliese 581c, il primo esopianeta roccioso individuato nella zona abitabile. “All’epoca, questi erano i due requisiti di cui le persone avevano bisogno per alzarsi dal letto la mattina e pensare che c’era qualcosa a cui valeva la pena prestare attenzione“, afferma Barnes.

L’acqua è essenziale per la vita come la conosciamo, quindi la sua presenza è stata considerata da sempre il primo requisito per selezionare quali nuovi mondi dovrebbero attirare la nostra attenzione. D’altra parte, non si possono trascurare altre esigenze della vita come la conosciamo, come una fonte di carbonio, una fonte di energia e sostanze nutritive essenziali, come ha spiegato Stephanie Olson, una ricercatrice planetaria dell’Università di Chicago.

Un pianeta privo di queste altre cose è praticamente inabitabile come Plutone

Inoltre, un pianeta non deve risiedere nella zona abitabile per essere abitabile. La luna Europa di Giove, e le lune di Saturno, Titano ed Encelado, sono solo alcuni esempi di possibili “mondi oceanici” che suscitano l’interesse degli astrobiologi nonostante siano ben al di fuori della zona abitabile del sole.

Parte del problema è che abbiamo isolato in modo inappropriato queste indagini da altre scienze. “Dico sempre agli astronomi che se vogliono sapere cos’è l’abitabilità, studia la biologia“, afferma Abel Méndez, un astronomo planetario e direttore del Planetary Habitability Laboratory dell’Università di Puerto Rico ad Arecibo. Molti sono preoccupati che gli astronomi stiano applicando in modo inappropriato lezioni di biologia e scienze del clima ai mondi extraterrestri e che questo sia ciò che sta causando così tante controversie.

Al contrario, “esiste il pericolo di essere troppo incentrati sulla Terra“, afferma Barnes. “Comprendiamo come la Terra funzioni davvero bene e potremmo ingannarci nel pensare che certe firme siano automaticamente un segno di vita o neghino la possibilità della vita. La vita potrebbe esistere su Titano o Europa, o forse anche su Venere, ma non siamo pronti a trovarla se si baserà su una chimica diversa da quella derivata dalla nostra esperienza.

Migliorare il nostro approccio significa che abbiamo bisogno di migliorare lo scambio di formazione e dati tra i diversi campi della scienza. Questo ci porta al Virtual Planet Lab, fondato nel 2001 per capire come si forma e si evolve un pianeta abitabile e come possiamo effettivamente osservare quel processo su un vero esopianeta. La formazione del lab, che comprende scienziati del clima, ricercatori dell’atmosfera, informatici, biologi, geofisici e astronomi, riflette l’approccio multidisciplinare che la scienza planetaria dovrebbe perseguire.

Il laboratorio ha recentemente presentato VPLanet, un software aperto che simula l’evoluzione di un pianeta per miliardi di anni, principalmente (anche se non esclusivamente) per valutare se quel pianeta è, o una volta era, potenzialmente abitabile e possa supportare l’acqua liquida sulla sua superficie.

I modelli di VPLanet tengono conto di una serie di diverse dinamiche, tra cui processi interni e geologici, l’evoluzione del campo magnetico, clima, fuga atmosferica, effetti di rotazione, forze di marea, orbite, formazione ed evoluzione delle stelle, condizioni insolite come i sistemi di stelle binarie e perturbazioni gravitazionali da corpi di passaggio. Altri ricercatori possono programmare nuovi moduli che simulano altri processi fisici e collegarli al software.

Uno strumento come VPLanet ha lo scopo di aiutare ad individuare quali pianeti delle zone abitabili (e altri buoni candidati) vale la pena di studiare in profondità con gli strumenti esistenti e quelli nuovi che presto saranno attivi. Ma i suoi tentativi di caratterizzare la storia di un pianeta potrebbero anche spingerci a guardare alcuni esopianeti che normalmente non considereremmo. Tendiamo a pensare alla storia della Terra come ua qualcosa di unico e particolare, ma Barnes ha suggerito che potrebbe effettivamente essere un’esperienza abbastanza comune per molti altri esopianeti che stiamo identificando ora.

“I pianeti in orbita attorno a stelle a bassa massa, come Proxima b, hanno probabilmente subito una notevole evoluzione“, afferma Barnes. La luminosità delle loro stelle ospiti è diminuita molto rapidamente, inoltre sono stelle che emettono più radiazioni di fascia alta dannose per le atmosfere planetarie e inducono più effetti di marea sui pianeti in orbita. queste sono solo alcune delle cose che potrebbero indurci a scartare un pianeta come potenzialmente adatto alla vita.

Altri modelli possono aiutarci a riconoscere diversi tipi di dinamiche che potrebbero promuovere o ostacolare la vita. Alcuni hanno rivisto i limiti della zona abitabile sulla base di una scienza climatica più approfondita. Recentemente Olson è stato coautore di un documento che ha esaminato quale tipo di dinamiche oceaniche potrebbe essere fondamentale per sostenere un ciclo nutrizionale favorevole alla vita. La semplice presenza di un oceano, sostiene, non stabilisce se un nuovo mondo sia abitabile o meno. Senza, ad esempio, abbastanza forza di rotazione o un’atmosfera densa, un oceano non sarebbe significativo per avere maggiori prospettive di abitabilità.

Alla fine abbiamo bisogno di migliorare la rappresentazione della biologia nei nostri modelli“, afferma Olson. “I biologi hanno i loro modelli, gli scienziati del clima hanno i loro giocattoli, e poi ci sono gli astronomi. Dobbiamo trovare il modo di accoppiare i dati“.

Ma i modelli sono solo una parte dell’equazione. Dobbiamo anche ottenere osservazioni migliori di questi mondi. Vogliamo vedere se un pianeta ha un’atmosfera densa composta dai tipi di elementi importanti per la vita. Vogliamo cercare la presenza di biosignature come il metano che sono prodotte da processi biologici. Strumenti come i telescopi spaziali Hubble e Kepler della NASA hanno avuto un impatto enorme, ma le loro capacità sono già al limite (Kepler è stato ritirato l’anno scorso e Hubble è ormai al massimo delle sue possibilità).

Il successore di Hubble, il James Webb Space Telescope, ci aiuterà a spingere la nostra comprensione di questi esopianeti a nuovi livelli. La sua ottica impareggiabile e la capacità di fare osservazioni senza pari agli infrarossi significa che dovrebbe essere in grado di caratterizzare le atmosfere di esopianeti distanti con poca difficoltà. Il telescopio spaziale ARIEL dell’ESA, previsto per il lancio nel 2029, è specificamente progettato per osservare le strutture chimiche e termiche delle atmosfere degli esopianeti.

Méndez pensa anche che sia saggio essere aperti al rilevamento di tecnosignature quando pensiamo all’abitabilità, forse sotto forma di emissioni radio, luci o prodotti chimici della produzione industriale. “Esistono altri modi per guardare un sistema e vedere alcune indicazioni della vita“, afferma.

Ma il fatto è che “l’unico vero modo per capire se un posto è abitabile non è misurare queste diverse variabili: è trovare la vita“, sostiene Méndez. “In biologia, questa è la risposta finale. Non c’è altro modo di farlo”.

Insomma, per ora tutto quello che capiamo e sappiamo è solo un’approssimazione, una valutazione della potenziale abitabilità. Quindi, inevitabilmente, le discussioni continueranno.

Viaggio nel tempo, sarà mai possibile? Ecco cosa sappiamo

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Tutti noi viaggiamo nel tempo, in qualsiasi momento e qualunque cosa stiamo facendo.

Ovviamente si tratta del viaggio inevitabile verso il futuro ma la domanda che molti si pongono è se sia possibile tornare nel passato.

Per quanto ne sappiamo, non esiste alcun meccanismo conosciuto che consenta di trasmettere fisicamente materia o informazioni dal presente al passato. Il viaggio nel tempo richiede di andare più veloce della velocità della luce, un’impresa al di fuori della nostra portata. Quindi è altamente improbabile che il viaggio verso qualsiasi punto nello spazio-tempo possa effettivamente essere realizzabile nel futuro prossimo o remoto.

Detto questo, sembrerebbe che il caso sia chiuso ma ci sono due ragioni per cui è importante parlare di viaggi nel tempo. La prima è che il viaggio nel tempo ci affascina e praticamente chiunque vorrebbe avere l’occasione di tornare indietro e cambiare qualcosa. La seconda è che è particolarmente interessante sfidare una delle più grandi incognite della fisica: il tempo.

Perché il tempo scorre in un’unica direzione? Non lo sappiamo.

Deve sempre andare avanti? Forse, ma non ne siamo veramente sicuri.

Il tempo è continuo o quantizzato? È costituito da unità piccole e limitate? Non lo sappiamo.

Grande è la nostra ignoranza rispetto al tempo.

La relatività ci dà (qualche) speranza di poter tornare al passato?

Questa ignoranza ha conseguenze sulle nostre teorie. Una volta formulate le teorie, ai ricercatori piace giocare con loro e spingerle al limite, possibilmente superare questo limite. I buchi neri e il Big Bang erano una volta semplici idee, al fuori dalla relatività generale.

Potrebbe succedere lo stesso per i viaggi nel tempo? È improbabile, ma nell’interesse della correttezza esistono soluzioni speciali che consentono la creazione di regioni in cui è possibile ingannare la fisica e andare più veloci della luce.

Si può cominciare pensando ad una soluzione che permetta di descrivere il tempo come una curva chiusa: in questo modo sarebbe possibile viaggiare nel tempo semplicemente perché il tempo è un ciclo che si ripete. Pensiamo al film “Ricomincio da capo” in cui il protagonista, un meteorologo inviato come reporter al Giorno della marmotta, si trova intrappolato in un loop temporale che lo costringe a rivivere continuamente la stessa giornata…

Insomma, si potrebbe vedere il tempo come un Groundhog Day ma con più matematica.

Una soluzione alternativa potrebbe essere quella di creare un wormhole, un ponte tra due punti distinti e distanti nello spazio e nel tempo. L’unico problema è che entrambe le ipotesi richiedono condizioni che, almeno per ora, non abbiamo visto nell’universo conosciuto.

Un’altra soluzione è un po’ più forte. Potresti tecnicamente muoverti più veloce della luce comprimendo letteralmente lo spazio-tempo in modo tale da coprire enormi distanze in brevi intervalli di tempo. Questo è il principio alla base del motore di Alcubierre uno speculativo motore a curvatura con cui un veicolo spaziale potrebbe la velocità della luce comprimendo lo spazio davanti a sé e dilatandolo alle proprie spalle.

Se questo non è abbastanza folle, un’altra soluzione che potrebbe consentire il viaggio nel tempo richiede un cilindro infinitamente lungo che ruota su sé stesso. Mentre gira, il cilindro torcerebbe lo spazio-tempo attorno al proprio asse e ciò consentirebbe a un’ipotetica macchina del tempo di spostarsi indietro o avanti nel tempo seguendo percorsi specifici intorno all’oggetto. L’unica condizione richiesta è che il cilindro rotante abbia una lunghezza infinita, cosa realisticamente impossibile.

Cosa ci dice la meccanica quantistica

Sotto molti aspetti, la relatività non lavora bene con la meccanica quantistica e il tempo è proprio uno di questi. Quasi tutti i tentativi di creare una macchina del tempo quantistica finiscono sempre per violare alcuni principi chiave della teoria della relatività.

Alcuni ricercatori sono stati in grado di risolvere uno dei problemi del tempo, il cosiddetto paradosso del nonno. Come è noto si tratta una storia secondo la quale si viaggia nel tempo con lo scopo di uccidere il proprio nonno, cosa che impedirebbe al protagonista di esistere e quindi di viaggiare nel tempo per uccidere il nonno. In sostanza, con il viaggio nel tempo non dovrebbe essere possibile poter cambiare gli eventi. La soluzione proposta dalla meccanica quantistica è quella di inviare un quanto di informazioni (qubit) indietro nel tempo, ma non nel proprio vero passato bensì in un universo parallelo, creando un sistema quantistico complesso, in cui il qubit esiste e non esiste.

Ma nel mondo dei quanti è stata scoperta una regola che suggerisce che il viaggio nel tempo è davvero impossibile. I ricercatori hanno scoperto nuclei a forma di pera che violano alcune leggi piuttosto solide della fisica fondamentale. Queste leggi si aspettano che la fisica delle particelle sia simmetrica in determinate trasformazioni. Ad esempio, se si modifica l’aspetto del sistema in uno specchio speciale che inverte tutte le direzioni, la fisica delle particelle dovrebbe comunque comportarsi allo stesso modo, rispettando la cosiddetta simmetria di parità. La stessa cosa accade guardando indietro o avanti nel tempo, per via della simmetria temporale. Lo stesso accadrebbe sostituendo la materia con l’antimateria, a causa della simmetria della carica.

Ma capovolgendo i nuclei a forma di pera, questi non sembreranno più uguali e, al tuo sguardo, avranno un aspetto diverso a seconda che li guardi da davanti o da dietro oppure da sinistra o da destra. Questa è una violazione della simmetria.

Solitamente tali violazioni vengono risolte combinando insieme i due aspetti grazie alla simmetria Charge-Parity ma questo è uno dei pochi esempi in cui il CP viene violato. Ciò implica che anche la simmetria temporale viene violata combinando il CPT. Questa violazione può essere risolta solo se il tempo ha una direzione molto specifica.

 Tutto sommato, il viaggio nel tempo sembra un affare piuttosto complicato, pieno di incognite e parecchio disordinato. Non possiamo provare oltre ogni dubbio che è impossibile, ma non è che abbiamo molte prove che ne suggeriscono la fattibilità.

Ovviamente, non capendo bene il tempo stesso, ci mancano ancora molti pezzi di questo complicato puzzle.

Questo non significa che la ricerca sui viaggi nel tempo sia sprecata, cercando di comprendere meglio tutti gli aspetti del Tempo potremo effettivamente arrivare a capire meglio le teorie correnti.

Un nuovo modello dell’antico clima terrestre sta dipingendo un’immagine preoccupante del nostro futuro

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Per prevedere il futuro, può aiutare guardare al passato.

Ciò è particolarmente vero quando si tratta di cambiamenti climatici: studiare l’aspetto del pianeta milioni di anni fa può dare un’idea di ciò che possiamo aspettarci se il riscaldamento globale continuerà ad aumentare.

In uno studio pubblicato sulla rivista Science Advances, gli scienziati hanno simulato il clima dell’Eocene, che la Terra ha attraversato circa 50 milioni di anni fa. Allora, il mondo era di circa 4 gradi più caldo di oggi.

I risultati del modello, in linea con le prove geologiche, suggeriscono che quando i livelli di anidride carbonica nell’atmosfera aumentano, ulteriori aumenti di CO2 hanno un impatto ancora maggiore sul clima di quanto non avrebbero altrimenti. Ciò non è di buon auspicio per il nostro futuro climatico.

La simulazione delle condizioni di un mondo ormai lontano può rendere più accurati i modelli climatici che gli scienziati usano per prevedere il futuro del cambiamento climatico.

Usiamo costantemente questi modelli climatici per fare proiezioni future. E il clima futuro, lo sappiamo, potrebbe essere molto diverso da quello che stiamo vivendo e osservando“, spiega Jiang Zhu, dell’Università del Michigan e autore principale dello studio.

Durante l’Eocene l’atmosfera aveva più del doppio della concentrazione di anidride carbonica di oggi. Ma fino ad ora, i modelli non sono riusciti a simulare correttamente quelle condizioni.

Quindi, Zhu e i suoi coautori hanno optato per un modello su cui l’International Panel on Climate Change (IPCC) ha fatto affidamento nel suo rapporto del 2014 (la valutazione più recente del gruppo).

I calcoli di quel modello si sono rivelati corrispondenti a ciò che gli scienziati già sapevano sulla base di prove geologiche: che la Terra aveva temperature più calde a livello globale durante l’Eocene, con solo una piccola differenza di temperature tra i poli e l’equatore. L’eocene iniziò con un aumento della temperatura da 5 a 9 gradi Celsius.

Prima ancora che l’Eocene iniziasse, i livelli globali del mare erano stimati da 40 a 100 metri più alti di quanto non siano attualmente. Quindi il livello del mare continuò ad aumentare per milioni di anni a causa della mancanza di ghiaccio sui poli. Nel circolo polare artico, all’epoca, c’erano coccodrilli, palme e squali tigre.

L’Eocene potrebbe darci indizi su ciò che verrà

Se non riusciremo a frenare le emissioni di gas serra entro la fine del secolo, si prevede che la concentrazione di CO2 nell’atmosfera terrestre potrebbe raggiungere 1.000 parti per milione; è lo stesso livello del primo Eocene.

Attualmente siamo a 415 parti per milione, il livello più alto mai visto da quando esiste l’uomo.

L’Eocene non è l’unica era nella storia della Terra che è importante studiare per anticipare meglio i futuri cambiamenti climatici. Uno studio pubblicato l’anno scorso suggerisce già nel 2030 il clima globale sarà molto simile a quello che si verificò durante l’era pliocenica.

Zhu ha spiegato che il suo studio mostra come l’uso di una combinazione di dati geologici e modelli climatici possa fornire l’immagine più chiara del passato e del futuro.