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Gli anni ’80: sono mai finiti? La musica italiana nel decennio del riflusso

Dopo la riscossa proletaria degli anni precedenti, negli anni '80 è il tempo del ceto medio, che diviene la vera classe universale. Sono gli anni del trionfo del liberismo, non solo per il mantra "meno Stato, più mercato", ma perché il liberismo diviene ideologia di massa

Si è scritto tanto della musica degli anni ’80, e tanto se ne continua ancora a scrivere. Perché quello che sembrava essere, musicalmente parlando, un periodo relativamente privo di prodotti e generi di qualità, in realtà ha lasciato eredità consistenti nei decenni successivi. E oggi, a distanza di quasi 40 anni dall’avvio di quel decennio, vale la pena fare qualche approfondimento in più.

Personalmente, credo ci abbia fatto bene vivere quella fase. Da semplici ascoltatori o da musicisti professionisti, prendere le distanze dall’impegnato decennio precedente e fare un bagno nel “riflusso” tanto criticato, ha in qualche modo riequilibrato il panorama musicale.

Come fosse una sorta di nuova gioventù che, come ogni gioventù, porta a facili quanto effimeri entusiasmi, ma getta anche il seme del “nuovo. E di “nuovo”, oltre che di effimero, avevamo dannatamente bisogno, in quegli anni.

Nella nostra carrellata musicale, ci siamo lasciati alla fine degli anni ’70 con la sensazione che un’era si stesse concludendo. Accompagnata da un diffuso sentimento di “fallimento“, che si respirava in ogni ambito dello scenario sociale e politico, in un’Italia che stava cambiando. Si fanno i conti con il fallimento di certi ideali sociali (pensiamo alla sconfitta operaia alla Fiat, nel 1980), con la consapevolezza di essere usciti malconci, ma sempre in piedi, dallo scontro con il terrorismo. Un po’ come accadde nel dopoguerra, anche il dopo “anni di piombo” ha portato la comune reazione della ricerca della leggerezza. L’impegno non è più di moda e meno che meno necessario.

Meno stato, più mercato

Dopo la riscossa proletaria degli anni precedenti, negli anni ’80 è il tempo del ceto medio, che diviene la vera classe universale. Sono gli anni del trionfo del liberismo, non solo per il mantra “meno Stato, più mercato“, ma perché il liberismo diviene ideologia di massa. La televisione diventa sempre più invasiva, accompagnata dal boom delle tv locali, che vezzeggiano e solleticano il telespettatore, con prodotti – da vendere o da trasmettere – sempre più all’insegna dell’effimero.

Un effimero che invade anche il panorama musicale. Un effimero che però, non può rinnegare lo sconvolgimento musicale portato dall’Hard rock, dal Metal, dal Punk e dalla sperimentazione della musica progressive degli anni ’70. Accomunate, tutte, da un uso sempre più ricercato dell’elettronica introdotta in modo sperimentale dal gruppo tedesco Kraftwerk attorno al ’74, e che esploderà in mille nuove espressioni proprio nel decennio successivo.

A cappello di questa fase di transizione si colloca la New Wave (“nuova onda”, pensate un po’). Definizione che comprende un insieme di espressioni musicali, che affondano le radici nel Punk rock ma che non ne rimangono a lungo fotocopia, ricercando nuove forme espressive. Tra le più prolifiche, troviamo il Funk, il Pop fino ad arrivare allo Ska. Sono gli anni in cui ogni genere influenza il vicino e l’elettronica da nuova linfa al Pop, creando quel che fu battezzato come Pop Elettronico, o Synthpop o Electropop ma anche la Dance Pop.

Tra i gruppi più rappresentativi ricordiamo i Depeche Mode, i Soft Cell, gli Human League, gli Ultravox, Orchestral Manoeuvres In The Dark, gli Alphaville, i Culture Club, gli Eurithmics e altri ancora.

Gli anni ’80 sono stati spesso criticati per l’uso eccessivo del sound elettronico, un peccato veniale in fondo da perdonare, considerando che queste sonorità erano ancora ritenute innovative e che il pubblico le accolse con grande entusiasmo.

Sono gli anni delle radio private, che saggiano le tendenze musicali dialogando direttamente con gli ascoltatori, e che lanciano “on air” la hit del momento. Gli ascoltatori sono coinvolti, esprimono i giudizi, sono spugne pronte ad assorbire ogni tipo di prodotto proposto.

Anche la musica da discoteca fu travolta dall’uso sempre più insistente e spregiudicato del sound elettronico. In quegli anni divenne sempre più importante il mestiere del “disk jockey” (o dj), che nelle discoteche affiancava al brano del momento alcune performance sperimentali utilizzando sintetizzatori, moog oppure spezzoni di vecchi brani campionati uniti a nuove interpretazioni vocali.

Il dj inizia a “dettare” la moda, inventandola sul campo e coinvolgendo dal vivo le masse di potenziali acquirenti del prodotto discografico. Tra i più noti dj, poi evoluto in produttore musicale e compositore, è il grande Giorgio Moroder. Di cui ricordiamo le straordinarie colonne sonore di “Flashdance“, “Top Gun“, “Scarface“, “La storia infinita” e la riedizione del film “Metropolis“.

Anche l’Italia ha da dire la sua, nel campo della dance, con la cosiddetta “Italodisco“, il cui successo oltrepassa i confini nostrani per approdare persino in America Latina ed Estremo Oriente. Ricordiamo, tra gli altri, Gazebo, Sandy Marton, Den Harrow, Spagna, Baltimora, persino un inedito Raf in versione anglofona con la sua indimenticabile “Self Control“. In Italia non inventiamo nulla di nuovo, c’è da ammetterlo, ma confluiamo allegramente in quel fiume in piena di prolificità che è fenomeno mondiale, in quegli anni.

Attorno alla metà degli anni ’80, avviene una ulteriore evoluzione della musica Dance, e il fenomeno si sviluppa in prima battuta nei club americani: nascono la musica house (Chicago) e techno (Detroit). E nasce la Club Culture.

La house e la tecno si sviluppano soprattutto in vecchi edifici industriali riadattati a club, dove la gente è attratta da un prodotto sperimentale, poco passato in radio, originale. Spesso la musica che ne deriva ha un potente impianto musicale e testi molto semplici, ripetitivi, quasi ipnotici.

Ne sono portavoce brani quali Your Love di Frankie Knuckles, Move your Body di Marshall Jefferson, Pump up the Volume dei M.A.R.R.S. ecc. Anche in questo caso, l’Italia ha da dire la sua, con prodotti più da radio che da club (da noi la cultura della musica da capannone industriale arriverà qualche anno più tardi), con l’obiettivo di entrare nelle chart inglesi e sfondare quindi nel mercato internazionale (sempre prosaici, noi!). Esempi sono i Black Box (chi non ha ballato almeno una volta “Ride on time”?), Cappella, Dj H.

Ed i cantautori italiani?

E che fine hanno fatto da noi i cantautori? Tra chi già era in auge nel decennio precedente, alcuni adattarono la loro produzione musicale all’evoluzione del gusto del pubblico, proponendo nuovi dischi forse meno arrabbiati o di critica, ma pur sempre di qualità. Ad esempio, Pino Daniele, Ivan Graziani, Edoardo Bennato.

Altri, seppero reinventare costantemente il proprio personaggio e le proprie storie, ottenendo successi sempre crescenti, come nel caso di Renato Zero, Claudio Baglioni e del rocker Vasco Rossi. Altri ancora, preferirono la svolta intimista mentre alcuni finirono per ritirarsi progressivamente dalle scene.

Infine, ci fu chi si affermò proprio come interprete delle tendenze dell’epoca. Enrico Ruggeri, ad esempio, si impose con i Decibel col brano “Contessa” (1980), con vaghi richiami al punk. Evolvendosi poi anche come autore di due brani per Diana Est, “Tenax” (1982) e “Le Louvre” (1983), e successivamente per Loredana Bertè col “Il mare d’inverno“(1983).

Alberto Camerini propose uno eccentrico ska rivisitato in chiave casareccia, ma pur sempre di buon livello. Gianni Togni si impose con la sua “Luna” (1980) e con una “Giulia” (1984), le cui note mettevano una grande allegria, nonostante il tema dell’amore non corrisposto. Questa la magia degli anni 80: rendere leggero anche il tema più dolente, come la sofferenza d’amore.

Piccola nota: fu solo negli anni ’80 che si imposero, almeno in Italia e sul grande pubblico, un certo numero di cantautrici donne, a differenza di quanto accaduto nel decennio precedente. Si impone il rock grintoso di Gianna Nannini, le sonorità etniche ed eleganti di Grazia di Michele, il pop folk di Teresa De Sio.

E la grande Mia Martini, già acclamata interprete di moltissimi successi, diventa autrice dei propri testi. Già è cosciente di quanto crudele sia il mondo dello spettacolo, già è oggetto di maldicenze e ipotesi di iattura. Eppure, nel 1982 scrive il testo di una delle sue più belle canzoni, “Quante volte“, musica di Shel Shapiro. Che la conferma una grande e sensibile artista. L’anno dopo lascerà le scene, proprio a causa di quell’impianto di maldicenze che la dipingono come una porta-sfortuna.

La mia vita era diventata impossibile. Qualsiasi cosa facessi era destinata a non avere alcun riscontro e tutte le porte mi si chiudevano in faccia. C’era gente che aveva paura di me, che per esempio rifiutava di partecipare a manifestazioni nelle quali avrei dovuto esserci anch’io. Mi ricordo che un manager mi scongiurò di non partecipare a un festival, perché con me nessuna casa discografica avrebbe mandato i propri artisti. Eravamo ormai arrivati all’assurdo, per cui decisi di ritirarmi.

Quanti volti può avere un decennio? Forse ne siamo ancora troppo vicini per vederli tutti con chiarezza, ma una cosa è certa: gli anni ’80 non furono solo un inno alla spensieratezza. Furono uno spartiacque tra l’ingenuità (e forse i valori) dei decenni precedenti e la spregiudicatezza degli anni a venire.

E la musica, come sempre è stato, ne è stata pienamente il riflesso.

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