Immediatamente dopo la scoperta delle equazioni fondamentali della meccanica quantistica, i fisici identificarono uno dei fenomeni più strani che la teoria stessa prevedeva: l’effetto tunnel quantistico, che è una chiara dimostrazione di quanto le particelle, come per esempio gli elettroni, differiscano dagli oggetti macroscopici. Già nel 1928, i fisici Ronald W. Gurney e Edward Condon, sulla rivista Nature del 22 settembre, descrissero l’effetto tunnel delle particelle.
Sin dall’inizio, è stato compreso che la capacità delle particelle di passare attraverso le barriere, forniva la spiegazione a diversi misteri. Il fenomeno spiegava diversi legami chimici e decadimenti radioattivi, così come la proprietà che possiedono i nuclei dell’atomo di idrogeno, all’interno del Sole, di superare la mutua repulsione e fondersi, dando origine alla luce solare.
I fisici allora hanno cominciato a chiedersi quanto tempo impiegasse una particella per attraversare una barriera.
Così, già nel 1932 apparvero le prime pubblicazioni contenenti i tentativi di dare una risposta a questa domanda.
A distanza di trent’anni, nel 1962, Thomas Hartman, un ingegnere dei semiconduttori della Texas Instruments, scrisse un articolo con il quale tentò di spiegare le difficoltà matematiche insite nel calcolo. Egli scoprì che la barriera sembrava comportarsi come una sorta di scorciatoia. Una particella attraversa una barriera più velocemente che se la barriera non fosse presente. Inoltre, Hartman ha calcolato che vi è una proporzionalità inversa tra spessore della barriera e velocità di attraversamento da parte di una particella. Ciò significa che, con una barriera sufficientemente spessa, le particelle potrebbero saltare da una parte all’altra più velocemente rispetto a un fascio di luce che copre la medesima distanza nello spazio vuoto.
In breve, l’effetto tunnel quantistico sembrava rendere possibili dei viaggi con velocità superiori a quella della luce: una presunta impossibilità fisica.
Per decenni si è acceso un dibattito sulla determinazione del tempo di tunneling, diventando una parte del problema, più generale, di cosa sia effettivamente il tempo, di come esso viene misurato nella meccanica quantistica, e di quale sia il suo significato. In questi anni, i fisici hanno desunto almeno 10 espressioni matematiche alternative per la determinazione del tempo di tunneling, ognuna delle quali è la rappresentazione di una differente interpretazione del processo di tunneling quantistico. E comunque, finora, la questione non è stata risolta, anche se l’argomento è recentemente ritornato in auge grazie a una serie di esperimenti di laboratorio, dai quali sarebbero pervenute delle misure abbastanza precise del tempo di tunneling.
Lo scorso mese di luglio, nella rivista Nature, un gruppo di ricercatori, condotto da Aephraim Steinberg, della University of Toronto, ha pubblicato i risultati di uno studio sul fenomeno, per il quale è stato utilizzato il metodo dell’orologio di Larmor, per misurare il tempo impiegato da atomi di rubidio per scavare un tunnel attraverso un campo laser repulsivo.
L’approccio messo in atto dai fisici di Toronto è stato apprezzato dalla comunità scientifica, ed è stato considerato come il primo vero esperimento in grado di fornire una misura precisa del tempo di tunneling.
I recenti esperimenti stanno portando alla luce una questione ancora non risolta. Nei sei decenni che sono passati dall’articolo di Hartman, qualunque sia stata la modalità di misurazione del tempo di tunneling, o comunque precisa sia stata la determinazione, in ambiente di laboratorio, i fisici hanno trovato che l’effetto tunnel quantistico manifesta, sempre, l’effetto Hartman. Sembra che nel tunneling si superi sempre la velocità della luce.
Quindi, adesso ci si chiede come sia possibile che una particella, sottoposta a effetto tunnel quantistico, possa avere una velocità superiore a quella della luce.
Quale tempo?
Su scala macroscopica, il tempo impiegato da un oggetto per spostarsi da un punto A a un punto B è dato dal rapporto tra la distanza e la velocità dell’oggetto. La teoria quantistica, però, ci dice che non è possibile conoscere, con la medesima precisione e contemporaneamente, sia la distanza che la velocità.
In meccanica quantistica, la posizione e la velocità di una particella sono valori che stanno dentro uno spettro di possibilità. Nel momento in cui la particella viene osservata (o misurata), allora, tra le opzioni disponibili, vi sono alcune proprietà che si cristallizzano, secondo un processo che ancora risulta ignoto agli scienziati.
In altre parole, fino a quando una particella non incontra uno strumento rivelatore, essa può trovarsi in una qualunque posizione. Pertanto, non è facile definire con certezza quanto tempo la particella ha trascorso in una posizione, piuttosto che in un’altra, come per esempio all’interno di una barriera. Non è possibile dire quanto tempo la particella trascorre dentro la barriera, perché essa può trovarsi in due posti contemporaneamente.
Per comprendere il problema nel cotesto del tunneling, si immagini una curva a campana che rappresenti le possibili posizioni di una particella. Questo tipo di curva, detta pacchetto d’onda, è centrata sulla posizione A. Adesso, si immagini che il pacchetto d’onda si muova verso una barriera. Le equazioni della meccanica quantistica descrivono in che modo il pacchetto d’onda si divide in due parti, dopo aver colpito l’ostacolo. La maggior parte del pacchetto viene riflessa, e torna verso la posizione A. Ma, una parte del pacchetto d’onda incidente, seppure piccola, manifesta la probabilità di superare la barriera e di dirigersi verso la posizione B, dove la particella ha la probabilità di essere “osservata” da un rivelatore.
Ma, una volta che la particella ha raggiunto la posizione B, cosa si può dire del suo tragitto o del suo tempo trascorso all’interno della barriera? Prima che si manifestasse improvvisamente, la particella era un’onda di probabilità formata da due parti – sia riflessa che trasmessa. Essa poteva entrare, o meno, dentro la barriera. Quindi, il significato di tempo di tunneling appare poco chiaro.
Ma, allo stesso tempo, qualunque particella che vada dalla posizione A alla posizione B, può interagire con la barriera posta lungo il tragitto, e questa interazione è comunque qualcosa che si verifica nel tempo; ma in quale tempo?
Secondo Steinberg, tutta la questione discende dalla natura peculiare del tempo. Gli oggetti possiedono delle determinate caratteristiche, quali la massa o la posizione; ma non possiedono un tempo intrinseco, che può essere misurato direttamente. Il tempo è una proprietà che nessuna particella possiede. Noi siamo in grado di rilevare altre variazioni nel mondo, come il battito degli orologi (che sono, in definitiva, delle variazioni di posizione), e chiamiamo queste variazioni, incrementi di tempo.
Ma nell’effetto tunnel, non esistono orologi dentro le particelle. E quindi, quali variazioni dovrebbero essere tracciate?
Tempi di tunneling
Per misurare il tempo impiegato per un evento tunneling, Hartman ha calcolato la differenza tra il tempo più probabile impiegato da una particella per coprire la distanza da A a B, nel vuoto, e il tempo impiegato dalla medesima particella per attraversare la barriera. Hartman ha preso in considerazione il modo in cui la barriera sposta la posizione del picco dell’onda trasmessa.
Ma questo approccio presenta un problema. Non è possibile paragonare fra loro il picco iniziale e quello finale del pacchetto d’onda di una particella. Calcolare la differenza tra il momento più probabile di partenza di una particella (quando il picco della curva si trova nella posizione A) e quello più probabile di arrivo (ovvero quando il picco raggiunge la posizione B), non ci dice niente sul tempo di viaggio della singola particella, semplicemente perché una particella rilevata in B non deve necessariamente provenire dalla posizione A. Nella distribuzione di probabilità iniziale, la particella poteva occupare qualunque posizione, persino trovarsi nella parte anteriore della coda della curva, molto più vicina alla barriera, e quindi, con la possibilità di raggiungere prima la barriera stessa.
Dal momento che non è possibile conoscere le esatte traiettorie delle particelle, i ricercatori si sono orientati verso un approccio più probabilistico. Si è pertanto considerato che, dopo che il pacchetto d’onda colpisce la barriera, in ogni istante la probabilità che la particella sia dentro o fuori la barriera è la stessa. Per ricavare il tempo medio di tunneling si procede quindi alla somma delle probabilità per ogni istante.
Per quanto riguarda la determinazione delle probabilità, già a partire dagli anni Sessanta sono stati realizzati diversi esperimenti mentali, nei quali si era ipotizzato di attaccare degli orologi alle stesse particelle. Se l’orologio della singola particella ticchetta solo quando si trova dentro la barriera, leggendo gli orologi di diverse particelle trasmesse, si avrebbero diversi valori dei tempi, la cui media fornisce il tempo di tunneling.
Questi approcci, all’inizio, erano più facili da pensare, che da attuare; ma oggi la scienza è arrivata a un livello così avanzato, da rendere possibile una reale fase sperimentale.
Sebbene i fisici abbiano iniziato a misurare i tempi di tunneling fin dai primi anni 80, solo dal 2014 si sono cominciate ad avere delle misurazioni con elevata precisione, effettuate presso un laboratorio dello Swiss Federal Institute of Technology di Zurigo, coordinato da Ursula Keller. Il team svizzero ha effettuato la misurazione dei tempi di tunneling utilizzando un attoclock, ovvero un metodo relativamente semplice, che fornisce una risoluzione del tempo dell’ordine degli attosecondi (10^-18 secondi) senza la necessità di pulsazioni dello stesso ordine di grandezza. Nell’attoclock della Keller, elettroni di atomi di elio incontrano una barriera, che ruota come le lancette di un orologio. Questi elettroni attraversano la barriera quando questa si trova in una determinata posizione, che nell’attoclock viene definita posizione di mezzogiorno. Quindi, quando gli elettroni fuoriescono dalla barriera, vengono inviati verso una direzione che dipende dalla posizione assunta in quel preciso istante dalla barriera. Per misurare il tempo di tunneling, il gruppo di ricerca ha misurato la differenza angolare tra il mezzogiorno, posizione in corrispondenza della quale hanno inizio gli eventi di attraversamento della barriera, e l’angolo in corrispondenza del quale la maggior parte degli elettroni fuoriesce dalla barriera. I risultati hanno fornito una differenza di 50 attosecondi, cioè 50×10^-18 secondi.
In uno studio, svolto nel 2019 dal gruppo di ricerca coordinato da Igor Litvinyuk, il metodo dell’attoclock della Keller è stato applicato utilizzando atomi di idrogeno, invece che atomi di elio. In questo caso è stato misurato un tempo di tunneling inferiore di 2 attosecondi rispetto allo studio precedente, suggerendo quindi che l’effetto tunnel è un fenomeno che si verifica istantaneamente.
Questi risultati, come spesso succede nel campo della ricerca scientifica, sono stati contestati da alcuni esperti, secondo i quali l’intervallo di tempo misurato dall’attoclock non è un buon indicatore per determinare il tempo del tunneling. Luis Manzoni, un fisico teorico del Concordia College, Minnesota, ha pubblicato lo scorso anno un’analisi delle misurazioni effettuate, e ha dedotto che l’approccio utilizzato ha le stesse imperfezioni della definizione del tempo di tunneling, fornita da Hartman: si può dire che gli elettroni che fuoriescono dalla barriera quasi istantaneamente, abbiano un vantaggio.
Nel frattempo, Steinberg, Ramos, Spierings e Racicot avviano un esperimento che sembra essere più convincente, e il cui approccio utilizza il fatto che molte particelle possiedono una proprietà magnetica intrinseca, lo spin. Lo spin può essere considerato come una freccia che, quando viene osservata, punta sempre in alto o in basso. Ma prima che venga misurato, lo spin di una particella può avere qualunque direzione. Quando la particella si trova immersa in un campo magnetico, inoltre, l’angolo dello spin comincia a ruotare, con un moto chiamato precessione, effetto utilizzato dai ricercatori canadesi come lancette di un orologio, chiamato orologio di Larmor, dal nome del fisico irlandese Joseph Larmor che, nel 1897, scoprì la precessione.
I ricercatori hanno utilizzato, come barriera, un raggio laser, attivando al suo interno un campo magnetico. Quindi, hanno preparato degli atomi di rubidio, con gli spin allineati in una direzione particolare, e hanno inviato gli atomi verso la barriera. Successivamente, si è proceduto a misurare lo spin degli atomi che fuoriuscivano dall’altra parte della barriera. Se si effettua la misura dello spin di un singolo atomo, si ottiene sempre una risposta: su o giù. Ma se si effettuano numerose misure, il risultato ottenuto fornisce una misura della precessione media esperita dagli atomi all’interno della barriera – e, di conseguenza, si ottiene una misura del tempo trascorso dagli atomi all’interno della barriera.
Gli atomi di rubidio avrebbero trascorso, in media, circa 0,61 millisecondi all’interno della barriera, in linea con i tempi dell’orologio di Larmor, teoricamente previsti negli anni 80. E’ un tempo inferiore rispetto a quello che avrebbero impiegato gli atomi per attraversare una regione di spazio vuoto. Pertanto, i calcoli indicano che, aumentando lo spessore della barriera, l’accelerazione subita dagli atomi che attraversano la barriera, li farebbe viaggiare a una velocità superiore a quella della luce.
Un mistero, non un paradosso
Nel 1907, Albert Einstein si rese conto che la sua nuova teoria della relatività rendeva impossibile che la comunicazione potesse viaggiare a una velocità superiore a quella della luce. Si considerino due persone, Alice e Bob, che si allontanano l’una dall’altro, a velocità elevata. Per effetto della relatività, i loro orologi segnano orari differenti. Una conseguenza è che, se Alice manda a Bob un segnale, a una velocità superiore a quella della luce, e Bob invia immediatamente una risposta ad Alice con eguale velocità, la risposta di Bob potrebbe raggiungere Alice prima che quest’ultima trasmetta il suo messaggio. È come se l’effetto ottenuto precedesse la sua stessa causa.
Gli esperti sono convinti che l’effetto tunneling non vada a interferire sulla causalità, anche se non si può parlare di un consenso unanime sulla questione, che è considerata più come un mistero che come un paradosso.
Luis Manzoni, come detto in precedenza, ha sviluppato un lavoro di revisione e analisi dei calcoli. Insieme ad altri ricercatori, era convinto che, prendendo in considerazione gli aspetti relativistici (dove, per particelle in movimento rapido, i tempi si riducono), si sarebbe osservato un effetto tunnel con velocità inferiori a quella della luce. Invece, con immensa sorpresa, Manzoni scopre che anche in quelle condizioni l’effetto tunnel si realizza a velocità superiori a quella della luce.
Secondo i ricercatori comunque l’effetto tunnel a velocità ultraluminale non rappresenta un problema, fintanto che non consente che anche i segnali viaggino a velocità superiore a quella della luce. La situazione è simile all’azione spettrale a distanza, che aveva tanto infastidito lo stesso Einstein. L’azione spettrale riguarda quella capacità che hanno particelle, poste a distanza, di ritenersi legate per effetto entanglement, in modo che la misura effettua su una, determina delle variazioni sulle proprietà dell’altra. Questa connessione istantanea tra particelle distanti non genera alcun paradosso, perché non può essere utilizzata come strumento di segnalazione tra le due particelle.
In un articolo pubblicato lo scorso mese di settembre sul New Journal of Physics, il fisico Pollak afferma che vi sono delle motivazioni di natura statistica che impediscono al tunneling a velocità ultraluminale di permettere l’invio di segnali alla medesima velocità ultraluminale: anche se il tunneling attraverso una barriera estremamente spessa dovesse realizzarsi con velocità elevata, la possibilità che, di fatto, una tale tipologia di evento si verifichi, è molto bassa. Un segnalatore preferirebbe sempre mandare segnali attraverso lo spazio vuoto.
Allora perché non si inviano tonnellate di particelle verso una barriera molto spessa, nella speranza che almeno una effettui un tunneling a velocità ultraluminale? Una sola particella sarebbe sufficiente a trasmettere il messaggio. Il fisico Steinberg, che concorda con la visione statistica del fenomeno, afferma che non è sufficiente una singola particella, soggetta a tunneling, per trasportare informazione. Un segnale richiede determinati dettagli e una struttura ben definita, e, per l’invio di un qualunque segnale, con un minimo di dettaglio, sarà sempre preferita l’aria piuttosto che una barriera irrealizzabile.
La ricerca in materia di tunneling proseguirà con altri esperimenti di Steinberg, in cui, localizzando il campo magnetico dentro delle specifiche regioni della barriera, si cercherà non solo di determinare il tempo che la particella trascorre dentro la barriera, ma anche dove essa trascorrerà questo tempo. Secondo i calcoli teorici, gli atomi di rubidio trascorrerebbero la maggior parte del tempo alle estremità della barriera, e poco tempo nelle regioni interne.
Utilizzando l’esperienza acquisita con molti casi di tunneling di particelle, i ricercatori stanno contribuendo a costruire un quadro più chiaro della situazione, rispetto a quanto si potevano attendere i pionieri della meccanica quantistica, il secolo scorso. Nella visione di Steinberg, i risultati ottenuti confermano che, nonostante la strana reputazione della meccanica quantistica, quando si riesce a osservare la posizione di una particella, allora si hanno sicuramente più informazioni sulla sua vita precedente.
Fonte: quantamagazine.org