L’idea che l’ADHD possa essere un adattamento evolutivo non è nuova, già nel 1993 infatti il biologo Christopher Badcock propose che l’ADHD fosse una forma di neotenia, cioè la persistenza di caratteristiche infantili nell’età adulta.
Secondo Badcock, le persone con ADHD avrebbero conservato alcuni tratti tipici dei bambini, come la curiosità, la creatività, la flessibilità e la capacità di apprendere in modo informale, caratteristiche che sarebbero state utili per i cacciatori-raccoglitori, che dovevano affrontare ambienti variabili e imprevedibili, ma sarebbero diventate meno adatte nella società moderna, basata su regole, routine e istruzione formale.
Un altro studioso che ha sostenuto la teoria dell’ADHD come adattamento è il medico Thom Hartmann, che nel 1994 pubblicò il libro “Attention Deficit Disorder: A Different Perception”, e lo stesso propose una metafora per spiegare le differenze tra le persone con e senza ADHD: le prime sarebbero dei cacciatori, le seconde dei contadini.
I cacciatori avrebbero sviluppato uno stile cognitivo basato sull’attenzione periferica, cioè la capacità di monitorare simultaneamente diversi stimoli e di reagire rapidamente ai cambiamenti. I contadini, invece, avrebbero sviluppato uno stile cognitivo basato sull’attenzione focalizzata, cioè la capacità di concentrarsi su un solo compito per lunghi periodi di tempo e di seguire delle procedure.
Hartmann suggerì che l’ADHD fosse il risultato di una discordanza tra il tipo di attenzione richiesto dalla società moderna e quello ereditato dai nostri antenati cacciatori-raccoglitori.
La teoria di Hartmann ha ricevuto molte critiche, sia per la sua semplicità eccessiva che per la sua scarsa evidenza empirica, malgrado ciò alcuni studi hanno fornito dei dati a sostegno dell’ipotesi che l’ADHD possa avere delle origini evolutive, ed uno di questi è quello condotto nel 2008 da un gruppo di ricercatori dell’Università di Northwestern, che ha esaminato due comunità in Kenya: una nomade e una sedentaria.
I ricercatori hanno scoperto che entrambe le comunità presentavano una variante genetica, chiamata DRD4/7R, che è stata associata a una maggiore propensione alla ricerca di novità, a una maggiore dipendenza da cibo e sostanze, e ai sintomi dell’ADHD.
Tuttavia, mentre nella comunità sedentaria questa variante era correlata a una peggiore salute e a una minore performance scolastica, nella comunità nomade era correlata a una migliore salute e a una maggiore resistenza. Questo suggerisce che la variante DRD4/7R potrebbe aver conferito dei vantaggi ai cacciatori-raccoglitori, ma non ai contadini.
Un altro studio, realizzato da un team di ricercatori dell’Università della Pennsylvania, ha utilizzato un gioco online per simulare una situazione di raccolta di bacche, nel quale i partecipanti dovevano decidere se rimanere su un cespuglio o spostarsi su un altro, in base alla disponibilità di frutti e al tempo di viaggio.
I partecipanti non sono stati testati clinicamente, ma è stato loro chiesto di autovalutarsi in base a un sondaggio ADHD consolidato, con un notevole 45% che ha raggiunto il livello considerato indicativo di ADHD, molto al di sopra del livello della popolazione.
Non è noto se ciò sia dovuto al fatto che il modo in cui i partecipanti sono stati reclutati ha causato l’iscrizione di più persone con sintomi di ADHD o al fatto che il test è stato eseguito durante la pandemia, quando i sintomi del disturbo sono aumentati anche tra le persone normalmente non affette.
I risultati hanno mostrato che le persone con sintomi di ADHD erano più propense a cambiare cespuglio rispetto alle persone senza sintomi, e che questo comportamento era associato a una maggiore raccolta di bacche. Gli autori dello studio hanno interpretato questi dati come una prova che l’ADHD potrebbe aver favorito l’esplorazione rispetto allo sfruttamento delle risorse, e che questo potrebbe aver rappresentato un vantaggio evolutivo in alcuni ambienti.
Questi studi, tuttavia, non devono essere intesi come una giustificazione o una glorificazione dell’ADHD, questa infatti è una condizione complessa, che comporta sia dei punti di forza che delle difficoltà, e che richiede una diagnosi accurata e un trattamento adeguato.
Inoltre, l’evoluzione non è un processo lineare e teleologico, che porta a una forma ottimale e definitiva, ma è un processo contingente e dinamico, che dipende dalle interazioni tra gli organismi e i loro ambienti.
Pertanto, non ha senso parlare di adattamenti perfetti o imperfetti, ma solo di adattamenti relativi e temporanei. L’ADHD non è né un dono né una maledizione, ma una diversità che può essere fonte di sfide e di opportunità, a seconda del contesto e della prospettiva.
Lo studio connette l’ADHD del paleolitico ai giorni nostri
Sebbene siano emerse prove dei benefici evolutivi del disturbo da deficit di attenzione e iperattività (ADHD) nel paleolitico, spiegandone potenzialmente la presenza oggi, in effetti nello studio condotto, l’ADHD si è rivelato così vantaggioso che è giusto chiedersi perché non tutti ne soffrono.
La presenza di condizioni genetiche considerate svantaggiose ha posto un enigma almeno a partire da Darwin. In alcuni casi si può dare la colpa a mutazioni troppo recenti per essere state eliminate dalla selezione naturale, ma la sopravvivenza di altri tratti ha senso solo se riconosciamo che sono accompagnati da fattori che migliorano la sopravvivenza. Questi possono essere meno evidenti degli svantaggi, ma possono essere altrettanto reali.
Condizioni come l’anemia falciforme, ad esempio, sono state da tempo riconosciute come un effetto collaterale dei potenziatori della sopravvivenza, in tal caso, una protezione parziale contro la malaria per i portatori. Ora la neurodiversità comincia a essere considerata allo stesso modo.
Tuttavia, è chiaro che in determinate circostanze è positivo non restare così bloccati su un compito, e gli autori dello studio affermano:
“I nostri risultati, suggeriscono che le caratteristiche dell’ADHD possono conferire vantaggi nella ricerca del cibo in alcuni ambienti, e invitano alla possibilità che questa condizione possa riflettere un adattamento che favorisce l’esplorazione rispetto allo sfruttamento”.
Se l’ADHD fosse un vincitore universale per i nostri antenati, ci aspetteremmo che quasi tutti lo abbiano, inoltre gli autori notano che sono stati testati gli approcci di centinaia di specie a tali compiti, e tutti mostrano modelli simili su quando abbandonare un terreno familiare, ma in declino, per pascoli nuovi.
Qualcosa nel nostro passato deve spingere la maggior parte delle persone a rimanere nello stesso cespuglio in questo gioco più a lungo di quanto sarebbe l’ideale. Non è chiaro se ciò sia dovuto al fatto che la maggior parte dei compiti di raccolta non erano come quelli descritti nel gioco, con maggiori penalità per chi si muoveva troppo presto, o perché la perseveranza era più utile in altri compiti.
In ogni caso, è probabile che i nostri antenati abbiano beneficiato della neurodiversità presente nelle popolazioni locali, con alcune condizioni che favorivano coloro che presentavano i sintomi che ora chiamiamo ADHD, e altre che favorivano coloro che non ne avevano, le tribù si comportavano meglio quando avevano una popolazione mista.
La sopravvivenza individuale era influenzata dall’idoneità della tribù quanto dell’individuo, quindi una diversità di approcci mentali si è fissata nella popolazione, con alcuni che sono stati etichettati come un disturbo solo molto più recentemente.
In conclusione, l’ADHD è una condizione che presenta sia dei vantaggi che degli svantaggi, a seconda del contesto e della situazione, con alcuni studi che hanno suggerito che l’ADHD possa essere il risultato di un adattamento evolutivo che ha favorito le persone che erano più propense a esplorare nuove risorse e a reagire ai cambiamenti ambientali.
Queste caratteristiche sarebbero state utili per i cacciatori-raccoglitori, ma meno per i contadini e per la società moderna, nonostante ciò queste teorie devono essere intese come un modo per comprendere meglio la diversità umana e le sue origini.
L’ADHD è una sfida che richiede una diagnosi accurata e un trattamento adeguato, ma anche una risorsa che può essere valorizzata e sfruttata, se si tiene conto delle potenzialità e delle esigenze di ogni individuo.
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