La prima e ultima regola della dottrina di Benjamin Netanyahu sulla guerra perpetua è brutalmente diretta: la pace non può e non deve durare. Mentre un fuoco indiscriminato e mortale si abbatte ancora una volta sulla popolazione indifesa di Gaza, scatenato su ordine del bellicoso primo ministro israeliano, si ode un grido angosciato.
Il prezioso cessate il fuoco di due mesi concordato con Hamas è definitivamente tramontato? Questa la sconfortante risposta: non ha importanza. Questa tregua, che ora si sta frantumando in un milione di pezzi, non è stata altro che una breve, ingannevole pausa in una guerra che non finisce mai.
Non si ferma perché Netanyahu può rimanere in carica grazie all’incessante stato di emergenza nazionale che lui e i suoi sostenitori hanno coltivato e prolungato dagli attacchi terroristici del 7 ottobre 2023. La guerra non si ferma perché l’obiettivo principale di Netanyahu, la distruzione delle speranze di una nazione palestinese, è destinato a fallire. Non si ferma perché coloro, dentro e fuori Israele, che criticano le azioni del governo israeliano vengono tacciati di non essere in buona fede quando alzano la voce per dare l’allarme per il tributo umano che la reazione israeliana sta esigendo, e vengono accusati di antisemitismo.
Intendiamoci, l’attacco terroristico proditorio scatenato da Hamas il 7 ottobre del 2023 contro civili inermi che causò oltre 1200 morti tra civili e militari e il rapimento di 250 persone utilizzate poi come merce di scambio non ha scusanti di alcun genere e solo chi vive nel mondo dei sogni non aveva previsto che la reazione israeliana sarebbe stata terribile, nessuno poteva immaginare, però, le dimensioni che la vendetta voluta da Netanyahu avrebbe avuto, complice anche la necessità del premier israeliano di sopravvivere politicamente grazie allo stato di emergenza.
Purtroppo, ora, la guerra che i terroristi hanno scatenato 18 mesi fa continua, e minaccia ancora una volta di espandersi, perché Netanyahu e i suoi partner nazionalisti ebrei di estrema destra e ultrareligiosi hanno trovato in essa un mezzo per perseguire l’obiettivo più ampio di un Israele più grande. Tutto è diventato una scusa per espandere l’accaparramento di terre e intimidire i residenti palestinesi nella Cisgiordania occupata. Sono state sequestrate nuove aree delle alture del Golan in Siria. Il reinsediamento di Gaza stessa è un altro obiettivo dichiarato.
La guerra perpetua può essere sostenuta solo se l’altra “parte” continua a combattere. Le forze di Hamas sono così degradate che sembra quasi che non riescano più a farlo. La mancanza di una risposta armata immediata agli attacchi israeliani iniziati lunedì sera parla di relativa debolezza. E tuttavia Hamas non è sconfitta. Nelle ultime settimane abbiamo ben visto come ad ogni restituzione di ostaggi i suoi combattenti incappucciati di nero con le uniformi tirate a lucido hanno esibito grande dimostrazione di sfida militante.
Finché mancherà un piano credibile e concordato “del giorno dopo” – e in assenza di un’invasione di terra e di un’occupazione su vasta scala e a lungo termine – Hamas rimarrà effettivamente al comando a Gaza. E così la guerra continua.
Netanyahu non ha mai voluto un il fuoco e ha costantemente cercato una scusa per riprendere le ostilità dando la colpa ad altri. Ha acconsentito a fermare gli attacchi solo il 19 gennaio sotto la pressione di Donald Trump e del suo onnipresente inviato, Steve Witkoff. Dovendo insediarsi il giorno seguente, Trump ha imperiosamente chiesto la fine del conflitto che il suo predecessore, Joe Biden, non era riuscito a fermare. Riluttante a rovinare la festa a Trump e desideroso di ottenere il suo favore, Netanyahu ha accettato, con le dita incrociate dietro la schiena.
Eppure, anche allora, con oltre 48.000 palestinesi morti, decine di migliaia di feriti o traumatizzati e la maggior parte dei 2 milioni di abitanti di Gaza senza casa, Netanyahu non era pronto a fermarsi. Sapeva che i ministri del governo di estrema destra non avrebbero tollerato la pace a lungo. Uno, Itamar Ben-Gvir, si era già dimesso per protesta. Altri minacciavano di farlo, potenzialmente potevano far cadere il suo governo, mettendo fine alla sua parabola politica. Sapeva, anche se per lui questa è sempre stata una considerazione secondaria, che molti ostaggi israeliani erano ancora prigionieri: 59 all’ultimo conteggio, vivi e morti.
Netanyahu non ha mai avuto seriamente intenzione di onorare la seconda fase del cessate il fuoco, che avrebbe dovuto iniziare il 1° marzo e che prevedeva il ritiro militare completo di Israele. Ha bloccato gli aiuti umanitari; ha tagliato le forniture di acqua ed elettricità; ha ritardato l’attuazione della seconda fase e ostacolato i colloqui per rimetterla in carreggiata. Ha dichiarato guerra con altri mezzi. E quando queste provocazioni sono fallite, ha insistito, violando l’accordo di cessate il fuoco, che Hamas liberasse unilateralmente più ostaggi, offrendo in cambio solo un limitato rilascio di prigionieri e un’estensione temporanea della tregua.
La guerra perpetua, anche quando non dichiarata, è difficile da giustificare e Netanyahu, incriminato per crimini di guerra dalla corte penale internazionale e ampiamente condannato in Europa e nel mondo arabo, è disperatamente a corto di sostenitori. La sua situazione è peggiorata di recente. Accusato di crescente autoritarismo, è coinvolto in una disputa sul suo tentativo di licenziare il capo dello Shin Bet, Ronen Bar. Un nuovo scandalo di corruzione che coinvolge denaro del Qatar gli gira intorno. In questo contesto, una “distrazione” a Gaza è certamente considerata tempestiva.
“Netanyahu sta conducendo un’azione di contenimento su ogni possibile fronte: contro le elezioni anticipate, contro una commissione d’inchiesta statale [sugli attacchi del 7 ottobre], contro un accordo che riporterebbe indietro i 59 ostaggi rimasti, vivi e morti“, ha scritto Amos Harel di Haaretz . “Il primo ministro si sta comportando come qualcuno che non ha più nulla da perdere. Intensificare la battaglia fino ad ottenere il caos che gli serve“.
Con oltre 400 palestinesi, per lo più civili, secondo i numeri forniti dall’autorità palestinese, uccisi nei nuovi attacchi, e con Israele che minaccia di continuare e ampliare gli attacchi, nonostante le grida di rabbia, orrore e sgomento da parte dei palestinesi, dell’ONU, delle agenzie di aiuti internazionali e dei governi stranieri che echeggiano come lamenti spettrali nella devastata landa desolata di Gaza. Sono tanto familiari quanto inutili e ignorati.
Con Trump che conferma con orgoglio la sua complicità negli attacchi israeliani, che sembra desideroso che continuino, il processo di cessate il fuoco di gennaio sembra morto. L’assurdo piano di Trump per una riviera di Gaza non si vede né si sente più. Senza alcun pudore, risponde indirettamente, incitando Netanyahu. Eppure sarebbe ingenuo non vedere una connessione più ampia e schematica. Negli ultimi giorni, Trump ha agitato le sciabole in faccia all’Iran, chiedendo a Teheran di riprendere i colloqui sulla riduzione del suo programma nucleare o di affrontare un’azione militare. Allo stesso tempo, ha lanciato pesanti attacchi aerei contro gli alleati Houthi dell’Iran nello Yemen.
Nel mondo semplicistico e a somma zero di Trump, è tutto lo stesso affare. “Come ha chiarito il presidente Trump, Hamas, gli Houthi, l’Iran, tutti coloro che cercano di terrorizzare non solo Israele ma anche gli Stati Uniti, dovranno pagare un prezzo pesante e si scatenerà l’inferno“, ha affermato la portavoce della Casa Bianca, Karoline Leavitt.
Lo Yemen è un primo campanello d’allarme? Trump si sta muovendo per difendere Israele da un possibile attacco iraniano? O Trump sta effettivamente preparando il terreno per un attacco israelo-statunitense che vada nella direzione opposta, come molti a Teheran credono?
Come alcuni precedenti presidenti degli Stati Uniti, e ignaro come sempre della storia, Trump crede di poter rifare il Medio Oriente quasi con un atto di volontà imperiale. Ma a differenza di Barack Obama, che sognava al Cairo nel 2009 una rinascita democratica, Trump sta rimodellando con un diktat, sostenuto dall’uso o dalla minaccia della forza bruta, così come sta facendo il suo sodale Putin in Ucraina. La Palestina è il luogo tenebroso in cui il complesso messianico di Trump e la dottrina della guerra perpetua di Netanyahu si scontrano. Dove andremo ora? E chi aiuterà ora coloro che non possono aiutare se stessi?