Una catena di inspiegabili morti si dipanò in poco tempo nella Palermo del diciottesimo secolo. Fu solo per caso che si scoprì una serial killer ante litteram: la strega dell'aceto
Nella storia di Palermo c’è un personaggio che sembra uscito da un racconto di stregoneria: è Giovanna Bonanno, la strega dell’aceto, una donna vissuta alla fine del ‘700, che oggi definiremmo una vera serial killer. Giovanna Bonanno era nativa di Palermo, all’epoca dei fatti era vedova e viveva probabilmente nel quartiere detto del Noviziato, in un antro seminterrato, umido e maleodorante, dove esercitava da anni il mestiere di fattucchiera, molto lucroso se si pensa che a quel tempo la credenza del popolo siciliano nei sortilegi e nelle fatture era assai diffusa.
Molte persone andavano a trovare nel suo antro Vannuzza Bonanno, la fattucchiera, per consultarla ed assicurarsene i servigi, ma non è ci dato sapere se prima della scoperta dell’aceto – che doveva procurare tante vittime – ella avesse partecipato all’assassinio di persone odiate dai suoi clienti.
La storia comincia
La vicenda criminosa cominciò il giorno in cui Giovanna Bonanno assistette all’agonia di una bambina che, per sbaglio, aveva ingerito un’acqua speciale capace di ammazzare i pidocchi, acqua che veniva fabbricata dall’aromataioSaverio La Monica ed era detta dal popolo aceto.
Osservato attentamente il cadavere della bambina la vecchia si convinse che difficilmente si sarebbe potuto scoprire la causa della morte di un uomo avvelenato con quel liquore infernale, e cominciò ad elaborare nella sua mente un diabolico piano commerciale.
Si recò da La Monica ed acquistò una caraffa di aceto, pagandola esattamente tre grani: tornò poi nel suo antro per fare un esperimento. Bagnò nell’aceto un pane e lo diede da mangiare a poco a poco ad un cagnolino; dopo qualche giorno il cane morì, e la vecchia poté constatare che il veleno non procurava strazianti agonie se propinato lentamente, e che difficilmente ci si poteva accorgere di cosa aveva determinato la morte.
Primi delitti
Dopo alcuni giorni venne da lei tale Angela La Fata, sua amica, che le raccontò di essere divenuta l’amante di un amico del proprio marito e che temeva di essere scoperta e duramente punita. La donna domandò alla vecchia se conoscesse un mezzo per fare una efficace fattura al marito e metterlo in condizioni di non nuocere. Giovanna Bonanno rispose che conosceva un mezzo più efficace: un’acqua miracolosa che, propinata lentamente, aveva il potere di uccidere un uomo senza lasciare traccia dell’avvelenamento. Angela La Fata pagò sei tarì e tornò a casa con una caraffa di aceto, con le prescrizioni del caso e con la raccomandazione di non propinare il veleno in un’unica soluzione.
L’indomani la donna tornò dalla vecchia e le riferì che aveva mischiato l’aceto al vino e che suo marito nella notte era stato preso da dolori al ventre e da un grande bruciore alla gola. Giovanna Bonanno raccomandò di insistere nella “cura” e vendette nel giro di alcuni giorni ben sei caraffe alla La Fata, il cui marito, in breve, rese l’anima al Creatore.
Sembra che questo primo affare non fosse stato soddisfacente, perché la vecchia, nel farne il racconto al giudice istruttore, si lamentò che Angela La Fata non volle pagarle il premio finale che era stato convenuto in un tarì, e di questo ella si sentiva truffata.
I delitti continuano
Un’altra donna venne successivamente a chiedere aiuto alla Bonanno raccontandole che una sua amica era tenuta come schiava dal marito geloso e che la poveretta si sentiva impazzire e non vedeva l’ora di potersi liberare dalla tirannia. Anche questo caso fu dalla vecchia trattato con l’aceto anziché con le solite fatture, e in breve ebbe la notizia che tutto era andato bene e che la moglie, per dimostrarle la sua riconoscenza, le mandava un tarì in regalo.
Il terzo delitto fu commesso su una cameriera che era illecitamente legata al genero di tale Agata Demma, amica intima della Bonanno. La donna morì e la fattucchiera incassò otto tarì.
La catena delle clienti di Giovanna Bonanno andava allargandosi anche per opera di alcune abili mediatrici, tra le quali si distinse la giovane Maria Pitarra.
Tutti questi particolari furono narrati dalla strega al giudice istruttore don Gioacchino Firenda durante il suo interrogatorio.
Racconto particolareggiato
“Un giorno”, raccontò Vannuzza Bonanno tranquillamente, “vennero da me due donne, Michela Belsito e Rosalia Caracciolo, madre e figlia, le quali mi raccontarono che il marito di donna Rosalia le aveva mangiato la dote e gli averi ed ora pretendeva di spingere la moglie, e addirittura anche la suocera, a prostituirsi per fare danari. Esse mi dissero che avevano sentito dire molto bene delle mie arti magiche e si venivano a mettere nelle mie mani perché le liberassi da quel mostro. Io le fornii di una caraffella di aceto e le istruii su come dovevano somministrare il contenuto. Stabilimmo che dopo qualche giorno avrei fornito altra quantità di liquore e che ogni caraffella mi sarebbe stata pagata sei tarì. Passati due giorni, venne da me donna Michela e mi riferì che il genero vomitava e provava un senso strano di arsura che lo faceva impazzire, e che sua figlia, presa dalla paura, aveva deciso di sospendere le somministrazioni di aceto. Insistetti e donna Michela mi promise che avrebbe convinta la figlia a persistere. Non andò oltre che l’uomo morì ed io ebbi in dono il danaro promessomi”.
Tale Giuseppe D’Ancoja, tramite Rosa Bilotta, un’altra complice della Bonanno, acquistò dalla strega una caraffetta di aceto e mandò all’altro mondo la sua legittima moglie. Lo stesso fece Rosa Costanzo che somministrò l’aceto al marito Francesco per potersi liberamente unire al suo amante.
Come si venne a capo di questo affare criminoso?
Abbiamo accennato alla morte di Francesco Costanzo, avvelenato dalla moglie Rosa. La madre di costui, Maria, aveva assistito il figlio durante la malattia e si era convinta che quella morte non fosse stata naturale. Ad aggravare i sospetti venne la notizia che Rosa, poche settimane dopo la morte del marito, si era accompagnata con un giovane che si sospettava essere il suo amante da tempo
La povera donna, parlando con la sua amica Giovanna Lombardo, le confidò i suoi sospetti. La Lombardo subito si recò in casa di Giovanna Bonanno della quale sospettava la losca attività, e la pregò di dirle se avesse venduto l’aceto a persona interessata a sopprimere il figlio di Maria Costanzo.
Udito il nome della Costanzo, la vecchia (dice testualmente l’interrogatorio) si batté la mano sulla fronte e dichiarò che effettivamente aveva venduto, tramite Maria Pitarra, l’aceto a Rosa Costanzo, ma che non sospettava minimamente che il marito di costei fosse il figlio di comare Maria. “Se avessi sospettato una cosa simile”, disse Giovanna Bonanno, “mi sarei affrettata a recarmi dalla comare Maria per metterla in guardia e certamente ne avrei ricavato un premio”. Giovanna Lombardo, con la certezza che il figlio della sua amica era morto avvelenato, sentì il bisogno di recarsi in chiesa e di confessarsi. Inorridito, il sacerdote l’esortò a denunziare tutto alle autorità per mettere fine ai delitti.
La fine
Venne così catturata Giovanna Bonanno, la quale sottoposta a tortura fece i nomi dei suoi complici che furono tutti arrestati insieme ai clienti da essi procurati.
Al processo la strega dichiarò di non sentirsi affatto colpevole: essa aggiunse “che operava ciò senza peccato, perché sentiva di togliere le discordie dalle famiglie e metterci la pace, perendo con equivoci morbi per mano delle mogli i mariti e per mano dei mariti le mogli”.
L’istruttoria fu lunga e minuziosa. Fu interrogato don Saverio La Monica, l’aromataio, il quale spiegò che fabbricava l’aceto mescolando una libbra d’acqua comune con tre once di vino bianco generoso e un grammo di arsenico bianco cristallino, e facendo bollire il tutto per alcuni minuti. Gli fu facile provare che egli vendeva quell’acqua esclusivamente come mezzo per uccidere i pidocchi e che non poteva sospettare l’uso che invece ne faceva la strega.
Si sussurrava che ci fossero stati molti aristocratici palermitani che si erano serviti della Bonanno; ma quasi subito su questo aspetto della questione calò il silenzio.
Giovanna Bonanno pagò per i suoi delitti il 30 luglio 1789, impiccata al centro dei famosi Quattro Canti di Palermo. I palermitani, che si erano affollati per assistere all’esecuzione, appresero che la sera stessa era stata giustiziata anche la complice principale, Maria Pitarra, nella prigione della Correzione, detta della Quinta Casa. A gravi pene furono condannati gli altri imputati, mentre l’aromataio Saverio La Monica veniva mandato assolto per non avere commesso il fatto.