Nel 1918 New York rivaleggiava con Londra come metropoli più grande del mondo. Grazie agli ingenti flussi di immigrati che si erano riversati tra il 1880 e il 1920 la “Grande Mela” toccava i 5 milioni e 600.000 abitanti.
Venti milioni di immigrati quasi tutti provenienti dall’Europa, in cerca di una vita migliore, transitavano per la porta di accesso degli States: il porto di New York e molti di loro si fermarono nella grande città americana fondata nel 1624 dagli olandesi, col nome di Nieuw Amsterdam.
La città, all’epoca, era costituita da un guazzabuglio di etnie e di lingue diverse, ben lontane da rappresentare una comunità socialmente e culturalmente coesa. Inoltre era il punto di imbarco delle truppe americane che andavano a combattere in Europa. E’ in questo contesto che il neo Commissario alla Sanità, nominato nell’aprile di quell’anno, Royal S. Copeland si trovò ad affrontare a luglio la seconda ondata della “spagnola”.
Copeland era un chirurgo oculista ed omeopata, proveniva dal Michigan ed era riconosciuto come uomo pratico e determinato. Eppure all’inizio dell’estate temporeggiava rispetto alle prime avvisaglie dell’epidemia. Anche se le autorità portuali avevano intensificato agli inizi dell’estate il controllo sulle navi provenienti dall’Europa, il 12 agosto la Bergensfjord una nave norvegese attraccò a New York con undici persone contagiate.
Gli ammalati vengono ricoverati senza essere messi in isolamento nell’ospedale di Brooklyn. Soltanto il 17 settembre quando ormai l’epidemia imperversava in città, Copeland notificò l’influenza ed attese fino al 4 ottobre per dichiarare lo stato di epidemia. In quei mesi le navi da trasporto truppe avevano fatto la spola più volte tra le due sponde dell’Atlantico trasportando il loro carico di morte in Europa e viceversa.
Copeland era impotente rispetto alle superiori esigenze militari però dopo il 4 ottobre prese tre provvedimenti che ebbero un certo effetto sull’andamento epidemico: scaglionò gli orari di apertura di negozi, cinema e fabbriche eliminando di fatto l’orario di punta, quindi mise in piedi 150 centri d’emergenza sparsi per la città per coordinare i soccorsi e raccogliere le notifiche delle infezioni ed infine la decisione più controversa di tutte, tenne aperte le scuole pubbliche.
Copeland era convinto che mantenere i bambini all’interno delle scuole avrebbe permesso oltre ad un miglior controllo del contagio anche un suo contrasto attraverso un alimentazione più sana ed un’igiene migliore. Nonostante le feroci critiche ricevute dalla Croce Rossa e dagli ex Commissari alla Sanità, Copeland tenne duro ed ottenne la sua rivincita, quell’autunno pochi bambini si ammalarono di spagnola.
Copeland era anche consapevole che la malattia avrebbe alimentato il razzismo e la xenofobia contro alcune minoranze etniche e principalmente contro gli italiani verso cui si abbattevano una serie di pregiudizi impietosi, erano tutti sporchi, sciatti, criminali, comunisti, fannulloni, restii ad integrarsi etc. I nostri connazionali arrivavano a New York per lo più attraverso il porto-simbolo di Ellis Island, isolotto alla foce del fiume Hudson e nel 1910 superavano già (se si comprendono anche i nati in America da genitori italiani) le 500.000 unità. Nacquero così le Little italies, interi quartieri popolati quasi esclusivamente da italiani, il più famoso dei quali era situato nella parte meridionale di Manhattan, nel cuore di New York, attorno a Mulberry Street; sempre a New York, si consolidarono altre Little Italy non meno importanti, come nel Bronx, a Bensonhurst, a Staten Island e nel Queens.
Gli immigrati italiani vivevano in palazzoni fatiscenti con una densità abitativa nei quartieri dove si addensavano anche di 120.000 persone per chilometro quadrato. In alcune aree della Tredicesima Strada Est, enclave dell’immigrazione siciliana, non era raro che dieci persone occupassero una sola stanza. Gran parte degli italiani immigrati erano contadini analfabeti, che non parlavano inglese, ancora avvinti alle loro superstizioni ed alla cultura popolare del paese nativo. All’epoca il principale quotidiano newyorchese in lingua italiana era “Il Progresso Italo-Americano” che vendeva quasi 100.000 copie al giorno.
Il giornale svolse una funzione importante nel contrasto all’epidemia e nell’integrazione della grande comunità italiana. Le poche persone in grado di leggere diffondevano poi le notizie agli altri membri della comunità fungendo da prezioso tramite tra le autorità sanitarie e questa emarginata parte dei cittadini di New York.
Il “Progresso” fu uno dei pochi giornali che appoggiarono la decisione di Copeland di mantenere aperte le scuole. Le misure di Copeland non impedirono però che anche New York pagasse un pesante tributo di vittime alla spagnola, la fine dell’epidemia fu comunicata il 5 novembre, anche se agli inizi del 1919 ci fu una breve recrudescenza della malattia, ed alla fine si contarono circa 20.000 vittime. Lo stesso Copeland secondo il figlio si ammalò in ottobre ma non lo disse a nessuno e continuò a gestire l’emergenza.
Non poche misure adottate allora da Copeland sono le stesse o molto simili a quelle adottate dai Governi nel contrasto a Covid19, ci limitiamo a citarne fra le altre, soltanto due: l’uso generalizzato delle mascherine e la proibizione di tenere funerali pubblici.
Copeland dopo quell’esperienza si diede alla carriera politica e venne per tre volte eletto nel Senato degli Stati Uniti, morì nel suo ufficio il 17 giugno 1938, all’età di 70 anni.