Il primo ad usare questa espressione in Italia è stato probabilmente Umberto Eco che nel 1998 scriveva: «La scienza non è democratica, almeno non nel senso politico del termine. Nella scienza non vale il giudizio della maggioranza. Galileo poteva avere tutti contro, ma aveva ragione lui. Era la maggioranza dei medici che ha trattato da matto il dottor Semmelweis perché voleva che gli ostetrici si lavassero le mani per non far morire le partorienti, ma era questa maggioranza ad avere torto».
Nella frase di Eco è già implicita la distinzione che il grande intellettuale opera tra il concetto di democrazia in senso politico dove l’espressione “uno vale uno”, almeno di fronte all’esercizio di voto è ammissibile e la sua traslazione all’interno del processo scientifico, quasi ad adombrare che gli “esperti” non possono essere gli unici depositari della verità scientifica ma devono condividerla, in qualche misura, con il popolo.
Naturalmente gli scienziati sono tutt’altro che infallibili, in fondo sono anch’essi uomini con gli stessi pregi e difetti di ciascuno di noi: ambizione, vanità, arroganza, presunzione, competitività spinta all’eccesso, etc. Se gli scienziati sono fallibili però è il processo scientifico che nell’arco del tempo, attraverso il metodo rigoroso, condiviso e replicabile, sistema gli errori ed afferma la verità, perlomeno quella sorretta dalle conoscenze del momento.
In realtà la scienza è assolutamente democratica, non nel senso di chi pretende che un carneade qualunque abbia lo stesso “peso” nel parlare di argomenti per i quali altri hanno studiato e lavorato per 20 o 30 anni, ma per il fatto che è aperta e permette a chiunque segua il metodo scientifico di fare scoperte straordinarie, indipendentemente dal suo curriculum.
La storia della scienza è piena di esempi di persone che pur non avendo una formazione specifica hanno fatto scoperte straordinarie. Lo hanno fatto però seguendo il metodo scientifico e pubblicando le loro ricerche su autorevoli riviste scientifiche dove altri esperti possono leggere i loro lavori, valutarli, confutarli e perfino con altrettanto rigore, se del caso, “smontarli”. Chi non segue questo rigoroso percorso non fa scienza, che abbia due lauree oppure nemmeno una.
Sempre Eco aggiungeva per completare il suo ragionamento: «La scienza è democratica nel lungo periodo: nel senso che alla fine quello che prevale è il giudizio della comunità scientifica, che si stabilizza nel corso degli anni, talora dei secoli, e costituisce quelli che noi riteniamo Manuali Attendibili. E sono attendibili perché sono il risultato di una discussione collettiva, di prove su prove… Questo consenso, che si forma nei modi più disparati, in fin dei conti “tiene”, e non dipende dalle maggioranze, anche se esprime appunto qualcosa che tutti (sino a prova contraria) dovrebbero considerare come vero».
La scienza progredisce grazie ai suoi errori e il “principio di maggioranza” non vale neppure tra gli stessi scienziati. Quello che conta non è il numero di chi sostiene una determinata teoria ma i risultati corroborati dal metodo sperimentale e condivisi con tutta la comunità scientifica.
Un’esempio dei tanti esempi di questo concetto è quello che riguarda un medico australiano Barry Marshall. Negli anni Ottanta dello scorso secolo era convinzione della comunità medica che l’ulcera fosse provocata dallo stress, dal cibo piccante o da un eccesso di succhi gastrici. L’ipotesi che potesse essere un batterio il responsabile era irrisa: come poteva un microrganismo sopravvivere al potere distruttivo dei succhi gastrici?
Marshall, all’epoca poco più che trentenne, scopre che 20 pazienti del suo ospedale hanno colonie di batteri nello stomaco. Nonostante il “potere corrosivo” dei succhi gastrici. Studiandoli si rende conto che appartengono a una specie fino ad allora sconosciuta: l’Helicobacter pylori.
Insieme ad un collega, il patologo Robert Warren, Marshall scopre una singolare coincidenza tutti quei pazienti soffrono di ulcera. Per i due è abbastanza scontato che l’Helicobacter pylori sia la causa dell’ulcera. La teoria sull’Helicobacter pylori fu messa in ridicolo dall’establishment scientifico dell’epoca, che non credeva che i batteri potessero vivere in un ambiente acido come quello dello stomaco.
Per questo Marshall prese una decisione drastica: decise di inghiottire una colonia di batteri per verificare sulla sua persona l’insorgenza dell’ulcera. Cinque giorni dopo inizia ad avere attacchi di vomito e una biopsia del suo stomaco conferma che ha le pareti piene di Helicobacter. La gastrite è in corso e i primi sintomi dell’ulcera si stanno manifestando. Due settimane dopo grazie ad una cura antibiotica, Marshall guarì e finalmente l’ostracismo e la diffidenza della comunità scientifica si dissolse davanti all’evidenza. Nel 2005 il medico australiano vinse il Nobel per la Medicina con la seguente motivazione: “Per avere scoperto il batterio Helicobacter pylori e il suo ruolo nella gastrite e nell’ulcera peptica”.
Anche in quell’occasione la scienza non fu democratica, non aveva ragione la maggioranza dei medici dell’epoca, ma un solitario dottore australiano assistito dalla più potente delle armi: il metodo scientifico.