La pandemia prossima ventura

Covid19 ha chiaramente fatto capire che senza un sistema di sorveglianza e prevenzione globale non saremo in grado di proteggerci dalle nuove pandemie

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La zoonosi che ha provocato la pandemia di SARS-COV-2, che sta dilagando nel mondo in modo che non ha eguali dopo quella dell’influenza “spagnola” di cento anni fa, non è stata la prima e non sarà certamente l’ultima. Autorità politiche, media e cittadini sono rimasti spiazzati da un evento che però molti scienziati avevano largamente previsto. Di più, virologi, infettivologi ed epidemiologi si aspettano una prossima pandemia ancora più aggressiva e letale in un futuro prossimo.

La “malattia X” come è stata definita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) non è in discussione, accadrà. Quello che esperti e ricercatori cercano di capire è come, quando e dove accadrà.


I motivi per i quali sussiste questa certezza che Covid19 non sarà certamente l’ultima pandemia e che dobbiamo aspettarci di peggio è brillantemente illustrato nel saggio scritto nel 2012 da David Quammen, dopo sei anni di ricerche. “Spillover” punta il dito sulla progressiva distruzione dei grandi eco-sistemi naturali della Terra, sull’uccisione ed il commercio anche a fini alimentari degli animali selvatici, sulla maggiore prossimità degli insediamenti umani rispetto alle ultime nicchie ecologiche sopravvissute, sull’introduzione degli animali domestici al posto degli erbivori selvatici quali elementi che facilitano il salto di specie di virus dagli animali all’uomo.

Se questo scenario è corretto, è naturale chiedersi come mai non sono ancora più frequenti queste pandemie. Alla base c’è un singolo, spesso fortuito episodio, quando un agente patogeno, un virus o un batterio, effettua lo spollover, il salto di specie, da animale all’uomo, generando una zoonosi che trova il modo di trasmettersi poi, da persona a persona. E’ quello che è accaduto con SARS-COV-2 originato quasi certamente da un pipistrello o da un pangolino, e che ha dato vita alla pandemia di Covid 19 che al 2 maggio ha infettato 3.400.000 persone in tutto il mondo provocando quasi 240.000 vittime.

Lo spillover non è un evento naturale, affinché si verifichi occorre un concorso dell’uomo. Sempre di più gli esseri umani vivono in promiscuità con la fauna selvatica: la cacciano, anche illegalmente, ne fanno commercio, anch’esso spesso illegale, in condizioni igieniche precarie, elemento che aumenta il rischio di contaminazione con agenti patogeni.

Ad alimentare questo mercato legale ed illegale di animali selvatici non è prevalentemente la fame come si potrebbe immaginare, in certe aeree del mondo le motivazioni sono correlate al background culturale di certe popolazioni e persino all’acquisizione di un certo status sociale.

Gli spillover sono avvenuti anche nel passato meno recente. Basti pensare al virus HIV originatosi in Africa da alcune scimmie per la prima volta nel 1908. Quello che è cambiato nel corso degli ultimi trenta anni è la frequenza con cui avvengono questi salti di specie. La ragione è che la nostra impronta ecologica si sta avvicinando sempre di più alla fauna selvatica in aeree una volta inaccessibili del pianeta e pipistrelli, scimmie, roditori vengono macellati e venduti in mercati inseriti nel cuore urbano di città anche molto popolose, come accaduto ad esempio, a Wuhan che conta 11 milioni di abitanti.

Il commercio globale e la mobilità molto più veloce, grazie agli aerei, di quella  di un secolo fa, rendono poi questi agenti patogeni molto più pericolosi di un tempo.

Se è indubitabilmente l’uomo la “miccia” delle nuove epidemie zoonotiche, è pur vero che esistono animali più predisposti di altri ad incubare i virus. Nel 2017 un articolo pubblicato su Nature prendeva in esame il potenziale di pipistrelli, uccelli e roditori nel trasportare specie virali potenzialmente trasmissibili agli esseri umani.

I pipistrelli sono risultati la specie più pericolosa.

Le ragioni sono essenzialmente tre: vivono in branchi numerosi e promiscui, sono in grado di spostarsi su lunghe distanze ed infine ci sono oltre 1400 specie diverse di questi mammiferi, ognuna delle quali può interagire in modo diverso con i virus, dando vita a varianti in grado di essere molto pericolose per l’essere umano.

Nel corso della sua evoluzione il pipistrello ha acquisito la capacità di non ammalarsi pur ospitando nel suo organismo una forte carica virale. Lo stesso accade per l’uomo in determinati casi, anche nella pandemia tutt’ora in corso, Covid19, spesso non ci ammaliamo per il virus in sé, ma per un’abnorme reazione infiammatoria che il nostro corpo mette in atto quando il  sistema immunitario riconosce la presenza di SARS-COV-2.

I pipistrelli eseguono questa risposta infiammatoria in modo più efficiente e quindi non si ammalano. Questi animali svolgono un’importante funzione in natura che ha anche concrete ricadute economiche per gli agricoltori. Sono dei formidabili insettivori ed una ricerca ha calcolato che i pipistrelli farebbero risparmiare soltanto agli agricoltori statunitensi quasi 23 miliardi di dollari in minori acquisti di pesticidi ed altri preparati chimici necessari per salvaguardare le loro colture.

Fortunatamente per noi, non sempre uno spillover produce automaticamente un’epidemia. Il virus può non essere sufficientemente efficiente nell’infettare l’essere umano oppure può non riuscire a trasmettersi facilmente da persona a persona. Ci sono almeno tre esempi di scuola: la rabbia, Ebola ed HIV.

Nel primo caso il virus si trasmette dall’animale all’uomo (ma non da uomo a uomo), nel secondo caso è mantenuto in natura dall’animale e genera epidemie a seguito di trasmissione inter umana, nel terzo il virus è stato trasmesso in origine dall’animale ma poi si è adattato all’essere umano e non ha bisogno di nuove introduzioni.

La maggior parte dei virus ha a disposizione soltanto l’RNA per replicarsi (è il caso anche di SARS-COV-2). Il virus ha strutture proteiche esterne che usa come chiavi per aprire le cellule animali ed umane e replicarsi infettando l’ospite. Non sempre però queste chiavi sono adatte alla “serratura” umana e questo è un altro degli impedimenti all’insorgere di frequenti epidemie.

Un altro momento cruciale per il virus che aggredisce l’essere umano è la sua capacità di riprodursi all’interno dell’ospite. A volte questa capacità non è ottimale ed anche questo concorre alla mitigazione del rischio di insorgenza di un’epidemia. L’insieme degli ostacoli che abbiamo soltanto parzialmente descritto fa si che secondo una stima soltanto lo 0,1% di tutti i virus che potrebbero costituire una minaccia alla salute globale dell’umanità si sia riversato dagli animali all’uomo.

Le prime zoonosi risalgono a circa 10.000 anni fa in concomitanza con la nascita dell’agricoltura e la domesticazione dei primi animali. Di questo siamo piuttosto sicuri studiando gli alberi filogenetici dei virus. Sappiamo quindi che la “malattia X”, la pandemia ad alta letalità, si può verificare in un prossimo futuro e quindi la domanda successiva è come possiamo intercettare questo rischio prima di esserne colpiti.

La salute umana è strettamente correlata ad aspetti ecologici, antropici, ambientali e climatici e naturalmente alla salute degli animali ed al rispetto degli ecosistemi naturali. Per questo occorre una forte integrazione multidisciplinare ed una cooperazione non soltanto tra i sistemi sanitari ed i centri di ricerca internazionali ma anche con tutte le agenzie sovranazionali come ONU, FAO, OMS, Commissione Europea etc.

La prevenzione assume un ruolo fondamentale e, se c’è una cosa che la pandemia di Covid19 ci sta insegnando, è che spendere massicciamente nella prevenzione è molto meno costoso che riprendersi dal disastro economico e sociale che l’evento pandemico in atto ha prodotto e produrrà nei prossimi mesi ed anni.

Un ruolo chiave è ricoperto in questa rete di sorveglianza dai modelli predittivi e dalla genetica che svolgeranno sempre di più una funzione essenziale nell’individuazione delle aree critiche di insorgenza di nuovi focolai epidemici, magari anticipandone perfino la manifestazione.

Nel 2007, Nature Communications aveva pubblicato uno studio che mappava una serie di siti sede di possibili focolai epidemici futuri, tra questi c’era la provincia di Hubei da dove, nell’inverno del 2019 si è generata la pandemia Covid19. I siti erano stati individuati attraverso un’analisi comparata di molti indicatori ambientali, antropici, genetici e climatici che concorrono ad aumentare la soglia di rischio di nuove zoonosi virali potenzialmente pericolose per gli esseri umani.

La maggior parte di questi “punti caldi” è concentrata nelle zone tropicali ad alta biodiversità della fauna selvatica e dove si verificano profonde trasformazioni nell’uso del suolo. Naturalmente le previsioni si basano su modelli che per quanto solidi non sono sufficienti ad impedire l’insorgenza di nuove epidemie. Occorre lavorare profondamente nella prevenzione, cosa più semplice a dirsi che a farsi vista la notevole frammentazione di competenze statali, regionali e locali in quasi ogni angolo del mondo.

Il Global Virome Project, una grande collaborazione internazionale, nata per dare la caccia a circa a 1,67 milioni di virus sconosciuti in grado di infettare gli animali (tra questi, ce ne sono centinaia di migliaia che potrebbero essere trasmessi all’uomo e causare le prossime pandemie) ha l’ambizione di passare dalla “reattività” di fronte ad una nuova minaccia, alla “proattività” adoperandosi per anticipare il primo spillover potenzialmente in grado di innescare una nuova epidemia.

L’obiettivo di GVP è quello di creare un gigantesco database virale globalmente accessibile su cui costruire una rete di sorveglianza internazionale all’interno di un quadro legale ed etico per condividere informazioni, dati e campioni. Questo progetto può costruire una parte dell’armamentario di prevenzione e contrasto per le nuove minacce virali, ma diversi studiosi sono convinti che non sia abbastanza.

D’altra parte molto spesso gli spillover avvengono del tutto casualmente.

Un’altro approccio è costituito da EcoHealth Alliance che conduce una ricerca scientifica all’avanguardia nelle connessioni critiche tra la salute umana e della fauna selvatica e gli ecosistemi delicati. Con questo approccio, sviluppa soluzioni in grado di prevenire le pandemie e promuove la conservazione dell’habitat naturale. La salute degli animali è un indicatore sempre più importante della salute del pianeta ed in definitiva degli esseri umani.

In conclusione una delle lezioni che dovremmo imparare dalla pandemia di Covid19 è che modelli matematici e genetici, studi per nuovi farmaci e vaccini non saranno sufficienti a circoscrivere o, meglio ancora, prevenire l’insorgenza di nuove e pericolose pandemie senza azioni di prevenzioni e sanità pubblica coordinate a livello internazionale. Le politiche di One Health devono essere sovranazionali e capaci di interventi mirati soprattutto nelle aree più povere del mondo.

Se non saremo in grado di far tesoro dell’esperienza di Covid19 allora la prossima pandemia potrebbe rivelarsi ancora più letale ed aggressiva.