La conservazione del cibo quando non c’era il frigorifero

Il problema della conservazione del cibo è sempre stato uno dei più pressanti: come mettere da parte risorse preziose nei momenti di abbondanza, per poi utilizzarle in quelli di penuria, senza che andassero a male o diventassero comunque dannose per la salute, impedendo inoltre a topi e insetti di cibarsene?

0
1482

In questo periodo di quarantena, non potendo uscire spesso per andare a fare acquisti, si fa abbondantemente ricorso ai cibi in scatola o surgelati, che durano parecchi mesi o addirittura anni rimanendo sempre commestibili. Ma come facevano i nostri antenati per la conservazione del cibo?

Se per noi è normale congelare e poi mangiare cose prodotte anche parecchi mesi fa, non era così per le popolazioni antiche.

Come se la cavavano i nostri antenati con la conservazione del cibo?

Il problema della conservazione del cibo è sempre stato uno dei più pressanti: come mettere da parte risorse preziose nei momenti di abbondanza, per poi utilizzarle in quelli di penuria, senza che andassero a male o diventassero comunque dannose per la salute, impedendo inoltre a topi e insetti di cibarsene?

Gli archeologi, nei loro scavi, hanno trovato le prove di una varietà di tecniche utilizzate già dal passato più remoto per la conservazione del cibo.

Alcune, come l’essiccazione e la fermentazione (si pensi, ad esempio, ai crauti o al kimchi coreano) rimangono comuni ancora oggi: altre si sono perse nel corso dei secoli, ma risultavano comunque efficaci, perché alcuni prodotti conservati in questi modi si sono mantenuti per millenni.



Per farsi un’idea di quali tecniche di conservazione del cibo avrebbero potuto essere utilizzate dagli antichi, gli archeologi hanno studiato i sistemi ancor oggi praticati da società primitive, trovando molti metodi poco tecnologici che potevano essere alla portata di persone vissute migliaia di anni fa.

I più comuni includono l’essiccazione, la salatura, l’affumicatura, la fermentazione e la refrigerazione in frigoriferi naturali come ruscelli e fosse sotterranee.

Ad esempio, i Sami (anche conosciuti come Lapponi) tradizionalmente macellavano le renne in autunno e in inverno, essiccando e affumicando la loro carne e facendo fermentare il latte dal quale ottenevano un formaggio duro e compatto che può durare anni.

Questi metodi funzionano perché rallentano la crescita microbica; l’essiccazione è il metodo migliore perché i microrganismi hanno bisogno di una certa quantità di umidità per trasportare nutrienti e rifiuti all’interno e all’esterno delle loro cellule. Senza acqua i microbi muoiono, o almeno vanno in letargo.

L’essiccazione inibisce anche l’ossidazione e l’attività degli enzimi – reazioni naturali delle molecole del cibo all’esposizione all’aria, che causano alterazioni di sapore e colore.

Richiedendo una tecnologia minima, metodi come la fermentazione e l’essiccazione potrebbero essere stati probabilmente usati in un lontano passato, e sono un buon punto di partenza per gli archeologi in cerca di prove per stabilire a quali sistemi ricorrevano gli antichi per la conservazione del cibo.

Inoltre, osservando le pratiche ancora in atto oggi, i ricercatori sono stati in grado di notare gli strumenti richiesti e i detriti prodotti – materiale che ha maggiori probabilità di sopravvivere e emergere in uno scavo archeologico rispetto al cibo reale.

Trovare residui di cibo è possibile (ad esempio è stata rinvenuta carne essiccata di cervo vecchia di 14.000 anni) ma molto difficile, mentre sono state rinvenuti più facilmente oggetti e strutture necessarie per la conservazione.

Per esempio, in un sito svedese datato da 8.600 a 9.600 anni fa, i ricercatori hanno scoperto molti resti di lische di pesce.

In generale si trattava di persico e luccio, ma un pozzo situato nel sito conteneva i resti di più di 9.000 pesci chiamati in Italia rutilo o gardon, commestibili ma talmente pieni di spine da renderli quasi immangiabili senza qualche sorta di elaborazione.

Circa un quinto delle vertebre di gardon trovati mostrava segni di alterazione da parte di un acido: questo ha fatto pensare che il pozzo venisse utilizzato per farli fermentare, cosa che lo renderebbe la più antica prova di questa tecnica di conservazione.

Allo stesso modo, in un sito vecchio di circa 19.000 anni nell’attuale Giordania, gli archeologi hanno analizzato più di 10.000 ossa.

Per quasi il 90 % si trattava di gazzelle e le ossa furono trovate accanto a tracce di fuochi e piccole buche dove probabilmente erano infissi pali di supporto di griglie su cui le carni venivano affumicate ed essiccate.

Alcuni resti antichi potrebbero essere ancora oggi commestibili, o almeno essere utilizzati per creare un piatto o una bevanda moderni.

Recentemente, infatti,  i ricercatori dell’Università Ebraica di Gerusalemme hanno “resuscitato” cellule di lievito recuperate da antichi vasi di ceramica. Si suppone che questi vasi fossero boccali da birra e provenivano da quattro siti archeologici tra i 5.000 e i 2000 anni di antichità nell’attuale Israele.

Dopo aver “risvegliato” il lievito dormiente e sequenziato il suo genoma, gli scienziati lo hanno usato per preparare della birra, che è stata giudicata bevibile e simile per colore ad aroma alla ale inglese da parte dei giudici del Beer Judge Certification Program.

Nelle regioni paludose dell’Irlanda e della Scozia sono state ritrovate quasi 500 forme di un burro acido e molto grasso seppellite nelle torbiere a partire dall’Età del Bronzo (circa 5.000 anni fa) fino al diciottesimo secolo.

Per quanto alcuni ricercatori ritengano che si tratti di offerte rituali, il protrarsi nei secoli della pratica fa pensare che invece il motivo sia la conservazione o lo sviluppo di particolari aromi graditi a quelle popolazioni.

Qualunque fosse il motivo, il risultato fu di inibire la crescita microbica e la decomposizione del burro seppellendolo in torba umida, acida e povera di ossigeno, facendolo così durare migliaia di anni.

Gli archeologi ritengono che il burro di palude sia teoricamente ancora commestibile, anche se ovviamente non consigliano di provare a mangiarlo.

Nel 2014 il celebre chef irlandese Kevin Thornton, proprietario di un ristorante stellato a Dublino, ha detto di averne assaggiato un pezzetto e di averlo trovato delizioso, mentre Stephen Colbert, presentatore del famoso programma CBS The Late Show, ha fatto finta di assaggiarlo in un divertente sketch del 2016.

Ci sono state comunque persone che, per curiosità, hanno provato a seppellire campioni di burro per periodi ovviamente più brevi. Nel 1892 il rev. James O’Laverty scrisse sul Journal of the Royal Society of Antiquaries of Ireland di aver assaggiato burro che era rimasto nella torba per otto mesi, dicendo che “aveva assunto il sapore del formaggio più che del burro”.

Più recentemente, nel 2012, il ricercatore alimentare Ben Reade condusse un esperimento simile, seppellendo sottoterra del burro per tre mesi. L’assaggio rivelò un sapore “selvatico, strano e pungente, simile al muschio”, che fu descritto da Reade come “molto buono”.

Purtroppo, per conoscere il vero sapere del burro di torbiera, bisognerà aspettare almeno 3.000 anni

2