La “belva” di Via San Gregorio

Alla fine del 1946 a Milano si consuma un efferato delitto, una madre e tre bambini vengono massacrati con una sbarra da colei che sarà definita la "belva di via San Gregorio"

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Questa drammatica ed efferata vicenda si svolge nel 1946, all’indomani della fine della seconda guerra mondiale e pur in un paese tristemente abituato da anni alla violenza, sconvolgerà l’opinione pubblica per la sua efferatezza.
Caterina Fort, detta Rita, nasce a Santa Lucia di Budoia un piccolo paese friulano il 28 giugno 1915, all’alba della Grande Guerra. La sua gioventù sarà segnata da eventi drammatici e luttuosi che la colpiranno in prima persona.
Vede morire il padre all’età di 10 anni che precipita in un burrone durante un’escursione montagna, quasi maggiorenne le muore per tumore l’uomo che di lì a poco avrebbe dovuto sposare. Poi scopre di essere sterile: non avrebbe mai avuto dei figli, Nel 1937, all’età di 22 anni, sposa un compaesano che, già dal giorno delle nozze, darà segno di squilibrio psichico, per essere di lì a pochi giorni rinchiuso in manicomio.

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Sono colpi che possono annientare chiunque. Alla fine si trasferisce a Milano dove viene ospitata da una sorella. Rita però non sta con le mani in mano, trova lavoro con un commerciante di tessuti di cui diviene l’amante. Quest’ultimo decide di trovarle un “posto sicuro” come commessa presso Giuseppe Ricciardi, un trentacinquenne catanese che ha un negozio di tessuti in via Carlo Tenca, a Porta Venezia, vicino alla trafficata via San Gregorio dove risiede.

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Il Ricciardi è un uomo segaligno, con due baffetti sottili e l’aria da seduttore di provincia. In breve fa credere a Rita di essere scapolo mentre in realtà in Sicilia aveva moglie e tre figli che aspettavano di raggiungerlo a Milano. La trentunenne Rita Fort cede alle avances del Ricciardi e ne diviene l’amante. La relazione va avanti e con il tempo si fa “spudorata”; i due oltre a lavorare insieme, fanno una vita mondana nei locali milanesi, lui spesso dorme in casa di lei e si dice che spesso la presenti come sua moglie.
La situazione precipita quando la vera moglie, Franca Pappalardo, insieme ai tre figli, decide di lasciare la Sicilia per ricongiungersi con il marito. Franca è una donna sveglia e non impiega molto a capire che il marito ha una relazione con la sua commessa. Impone quindi all’uomo l’immediato licenziamento di Rita, Ricciardi però si premura di trovare un altro posto di lavoro all’amante in una pasticceria di un amico.
La relazione tra i due continua, anche se in modo più difficile e saltuario di prima, fino alla tragica data del 29 novembre 1946. Quella sera Rita Fort si presenta a casa della famiglia Ricciardi e l’orrore di questa visita sarà scoperto il giorno dopo, 30 novembre, dalla commessa che ha preso il suo posto nel negozio dell’amante, Pina Somaschini, che bussa alla porta dell’appartamento di Via San Gregorio, 40. Deve recuperare le chiavi del negozio perché il Ricciardi è a Prato per lavoro.
La Somaschini non ottiene risposta ma si accorge che la porta e socchiusa e decide di entrare. L’immagine che l’attende l’accompagnerà per il resto dei suoi giorni. Quattro corpi sono riversi nel loro sangue; in terra, poco distanti gli uni dagli altri, i due figli; il terzo, il più piccolo, è nel seggiolone, la testa ripiegata sul ripiano, il braccio sinistro penzola. Sangue sulle porte e le pareti.

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La donna fugge sconvolta e terrorizzata ed in poco tempo la notizia del massacro si diffonde tanto che giornalisti e fotografi arrivano sul luogo del delitto prima della polizia. L’arma del delitto è un corpo contundente e gli inquirenti non faticano individuare un maldestro tentativo di simulare una rapina finita male. Tra i cadaveri viene rinvenuta una fotografia stracciata, raffigurante i coniugi Ricciardi nel giorno delle nozze. Indizio di un delitto a sfondo passionale. I periti stabiliscono che il massacro è avvenuto tra le 20 e le 21 della sera prima. Non ci sono segni di effrazione, quindi l’assassino doveva essere conosciuto da Franca tanto da farlo entrare. Nel pugno della povera donna la polizia rinviene una ciocca di lunghi capelli femminili. All’epoca non esisteva l’esame del DNA che avrebbe inchiodato senz’altro l’assassino.

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Una lettera anonima indirizzata alla questura di Milano con timbro postale del 30 novembre (il giorno successivo al delitto) indirizza ulteriormente le indagini : «Da fonte sicura siamo in grado di precisare che a uccidere Franca Pappalardo e i suoi tre bambini è stata Caterina Fort e con lei due loschi figuri della Stazione Centrale. Il delitto è stato concertato otto ore prima. Anche lui ne era al corrente. Bastonateli bene che parleranno. Non ci firmiamo perché abbiamo paura di rappresaglie».
La donna viene portata in Questura ed interrogata duramente per 18 ore di fila, al termine dell’interrogatorio Rita confessa. In una prima versione sostiene di essere l’unico colpevole: il 4 dicembre «Il Nuovo Corriere della Sera», esce con un titolo destinato a trasformare la Fort in “belva”: «Li ho ammazzati tutti io! Caterina Fort ha firmato il verbale di confessione».

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Successivamente la donna coinvolge nel delitto altre persone, tra cui un certo Carmelo ed indica nell’ex amante, il Ricciardi, l’ispiratore della strage. Ovviamente l’uomo nega tutto ed indica nella Fort una donna assetata di vendetta per essere stata “scaricata” a favore della moglie. Le accuse della donna cadranno nel vuoto, ma non prima di un anno e mezzo che sia Ricciardi che Carmelo Zappulla, il fantomatico “Carmelo” presunto co-autore del massacro passeranno in prigione.
Quando Zappulla dopo venti mesi di San Vittore uscirà profondamente provato nel fisico e nella mente, morirà quasi subito. Il processo inizia il 10 gennaio 1950 ed è seguito con grande interesse dalla stampa, il Corriere della Sera schiera una delle sue firme migliori: Dino Buzzati. Dieci giorni dopo il processo si conclude con la condanna all’ergastolo di Rina Fort. Il 21 gennaio sul Corriere della Sera, Buzzati descriveva così la conclusione di questa sconcertante vicenda umana e giudiziaria:
“Andandosene, non si voltò indietro a guardare quell’ultimo pezzetto di mondo che le era concesso di vedere, il mondo dove pure era vissuta fino allora e in cui mai più sarebbe ritornata. Ma non capiva che queste stesse giornate di processo, pur atroci, un giorno lei le rimpiangerà come un paradiso? Non ci saranno mai più per te, Rina Fort, giorni come i nostri, allegre cene in compagnia di amici, né andare e venire per la città, né begli abiti nuovi, né sguardi di giovanotti, né corse in automobile, né gusto di mettere via i soldi, né baci, mai, né casa tua, né teneri risvegli nel tuo letto. Mai più, capisci? Per te non nascerà più il sole, né pioverà, né scenderà la neve, né le piante metteran le foglie, né la sera le vetrine si accenderanno di meravigliose luci e desideri. E non ci saranno più per te neanche i lampi dei fotografi – che ora fingi di aborrire – né il ronzare intorno dei cronisti, né titoli sui giornali col tuo nome”.
Anche il processo di appello, che si svolge nel 1952 a Bologna ed il successivo ricorso in Cassazione confermano la sentenza di prigione a vita per Rita Fort, la “belva” di via San Gregorio. Quando le comunicano l’esito del verdetto della Cassazione laconicamente risponderà: «Me l’aspettavo. Da molto tempo sono rassegnata a passare il tempo che mi resta ancora da vivere tra le mura di questo carcere».

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Non sarà così, il 12 febbraio 1975, all’età di 60 anni le verrà concessa la grazia dal Presidente della Repubblica Giovanni Leone. Caterina Fort cambia nome, diviene Caterina Benedet e vive a Firenze, isolata, fino al marzo 1988 quando muore dimenticata e sola. Il suo ex amante Giuseppe Ricciardi l’aveva anticipata nella tomba l’anno precedente.