30 agosto 1918. La Grande Guerra divampa ancora in Europa. La Russia che si è liberata prima dei Romanoff e poi del governo Kerensky, è lacerata dalla guerra civile tra bolscevichi e bianchi, con i primi che stanno stringendo il controllo politico sulla parte centrale europea, Mosca e Pietrogrado su tutto. L’Orso russo è ormai fuori dalla guerra dopo l’armistizio firmato il 3 marzo del 1918 a Brest-Litovsk.
La situazione è caotica, la guerra civile è in corso nelle distese sterminate del grande paese, il fronte rivoluzionario sempre più diviso, l’ultima delle contrapposizioni in ordine di tempo vede protagonisti gli ex alleati dei bolscevichi, i socialisti rivoluzionari di sinistra. Fame, caos e disperazione attanagliano il nascente regime bolscevico che lotta strenuamente per la sopravvivenza.
Tutto inizia quel 30 di agosto quando un giovane poeta ed ex militare Leonid Kannesiger, convertito al terrorismo, uccide il capo della Ceka di Pietrogrado, la polizia politica bolscevica, Moisej Solomonovič Urickij, figlio di devoti ebrei ortodossi ucraini, tra i pochissimi ad opporsi al terrore indiscriminato predicato da Lenin.
Venuto a conoscenza dell’atto terroristico Lenin spedisce da Mosca, divenuta da poco la nuova capitale della Russia, a Pietrogrado, Feliks Ėdmundovič Dzeržinskij, il capo della Ceka. Il suo compito è scoprire se l’uccisione di Urickij, fa parte di un più vasto complotto per colpire la rivoluzione bolscevica. Mentre Dzeržinskij è in viaggio Lenin si reca alle officine Michelson di Mosca per tenere un comizio su “dittatura del proletariato e dittatura della borghesia”.
Mentre Lenin parla, una donna dall’aspetto ordinario e dimesso è seduta vicina al palco e sembra non perdere una parola del rivoluzionario comunista. L’unico elemento di nervosismo è la quantità di sigarette che la giovane fuma ininterrottamente.
Quando verso le 19.30 Lenin termina il suo intervento, esce dalle officine e si avvicina all’automobile che lo attende, fermandosi a scambiare alcune parole con un gruppetto di operai, per la maggior parte donne, la donna che ha seguito con ossessiva attenzione il suo comizio gli si avvicina, estrae una rivoltella e spara tre colpi. Un proiettile trapassa il cappotto di Lenin, mentre gli altri due lo feriscono al collo e alla spalla sinistra.
L’autista-guardia del corpo Stepan Gil, non osa portare Lenin in ospedale per timore che cada in mano a qualche medico fedele ai socialisti rivoluzionari. Guida velocemente fino al Cremlino e fa avvertire alcuni medici fidati che si precipitano al capezzale del quarantottenne leader della rivoluzione.
Accorrono al Cremlino anche il segretario del Consiglio del popolo Branc-Brucvic, che nel frattempo aveva allertato l’Armata Rossa e triplicato le guardie del palazzo e il commissario del popolo alla previdenza sociale Vinokurov. Dzeržinskij informato a metà strada, torna precipitosamente a Mosca.
Nel frattempo la Ceka arrestava l’autrice dell’attentato, la ventottenne Fanja Kaplan, trovata nei pressi delle officine Michelson. Interrogata duramente dalla polizia politica per scoprire la rete di protezione e di sostegno di cui aveva goduto, la donna fa la seguente dichiarazione:
«Il mio nome è Fanya Kaplan. Oggi ho sparato a Lenin. L’ho fatto da sola di mia propria iniziativa. Non rivelerò chi mi ha procurato la pistola. Non darò nessun dettaglio. Decisi di uccidere Lenin molto tempo fa. Lo considero un traditore della rivoluzione. Fui esiliata ad Akatui per aver partecipato a un attentato contro un ufficiale zarista a Kiev. Ho passato 11 anni in un duro campo di lavoro. Dopo la rivoluzione, fui liberata. Ero favorevole all’Assemblea Costituente e lo sono ancora adesso”.
Sarà giustiziata pochi giorni dopo, il 3 settembre, con un colpo di pistola alla nuca in un cortile della prigione dove era segregata. La Ceka però era convinta che la Kaplan facesse parte di un disegno più generale messo a punto dai socialisti rivoluzionari e che lei non fosse altro che una pedina.
Dall’ottobre 1917 nessun evento cambiò tanto il corso della Rivoluzione quanto l’attentato di Lenin.
E’ in quelle ore che prende forma e si scatena il Terrore Rosso che insanguinerà la Russia nei mesi a venire. La Ceka, affermò Peters, uno dei vice direttori della polizia segreta “avrebbe replicato con il terrore di massa ai disegni criminali dei nemici della classe operaia.”.
Il giorno dopo la Pravda scriveva: “da questo momento l’inno della classe operaia sarà un canto di odio e di vendetta…”. L’Izvestija il 3 settembre 1918, chiamava i lavoratori a “schiacciare l’idra della controrivoluzione con massiccio terrore”. A ciò fece seguito il decreto “Sul terrore rosso”, emanato il 5 settembre dalla Čeka.
L’ondata repressiva avviata dal governo bolscevico non risparmiò neppure i vecchi alleati nella causa rivoluzionaria quali i socialisti rivoluzionari, progressivamente defilatisi dalle politiche radicali del nuovo regime e responsabili dei sommovimenti anti-bolscevichi del 6-7 luglio (che videro tra l’altro l’attentato all’ambasciatore tedesco Mirbach a Mosca).
Meno di una settimana dopo l’attentato della Kaplan, la Ceka fucilò 512 prigionieri nella sola Pietrogrado, in gran parte appartenenti al vecchio regime zarista. I marinai rivoluzionari di Kronstadt in una sola notte uccisero 470 ostaggi. Per tutto l’autunno del 1918 i massacri, spesso indiscriminati, si moltiplicarono, diffondendosi anche nelle più lontane province.
Secondo una stima di uno dei capi della Ceka, prima della fine del luglio 1919, soltanto la polizia politica, aveva fucilato più di 8000 persone nelle venti province russe. Una stima probabilmente fin troppo modesta.