All’indomani dell’Unità d’Italia il nascente stato nazionale sotto l’egida dei Savoia si trovò a fronteggiare una vasta ribellione militare e sociale nelle campagne meridionali che fu etichettata, troppo sbrigativamente, come la guerra al brigantaggio.
Per cinque anni fu combattuta una guerra crudele, insidiosa e imprevista che cercò di far leva su un fenomeno, il brigantaggio, da sempre esistente nel Meridione d’Italia, ma che in realtà rappresentava una minoranza delle forze che si opposero al Regio Esercito ancora totalmente di estrazione sabauda.
La maggioranza degli insorti era costituita da circa 10.000 soldati dell’ex esercito borbonico che si erano sbandati nelle campagne del sud all’indomani della fuga a Roma di Francesco II di Borbone. A questi soldati si aggiunsero diverse migliaia di braccianti e disperati che rifiutavano l’inasprimento fiscale introdotto dallo Stato unitario e la leva obbligatoria. Come ha scritto un autorevole storico italiano, Mario Isnenghi, fu “una guerra senza regole e senza onore“.
Vi fu indubbiamente un contributo di alcune centinaia di briganti, bande comandate da criminali del calibro di Carmine Donatelli, detto Crocco, Luigi Alonzo, detto Chiavone, Cosimo Mazzeo, detto Pizzichicchio, Luigi Andreozzi, Nunzio Tamburrini, Luigi Croce Di Tola tutti profondi conoscitori dei luoghi e addestrati da anni di scorrerie nell’arte della guerriglia.
La ribellione iniziò in Basilicata nell’aprile del 1861 per poi dilagare in tutto l’ex Regno di Napoli e si concluderà nel 1865, con alcune marginali sacche di resistenza fino al 1870. Al culmine della rivolta, si contavano, secondo alcune stime, 400 bande per complessivi 80.000 uomini, mentre i paesi coinvolti nei conflitti erano oltre 1400. Le bande, spesso capeggiate da ex militari dell’esercito borbonico, erano in grado di occupare per giorni interi villaggi e cittadine, assassinando e sequestrando tutti coloro che erano ritenuti fautori dello Stato unitario.
Il governo rispose con una ferocia senza precedenti. Superato lo sconcerto per la morte prematura di Cavour venne nominato il generale Enrico Cialdini, con ampi poteri civili e militari, per reprimere le rivolte. Cialdini aveva una considerazione antropologica del Sud e dei meridionali aberrante. Così scrisse qualche mese dopo aver assunto l’incarico: «Questa è Africa! Altro che Italia! I beduini, a riscontro di questi cafoni, sono latte e miele».
Cialdini attuò una politica di terrore nei confronti delle popolazioni sospettate di dare rifugio o protezione ai “briganti”. Incendiava i loro villaggi e le loro masserizie, procedeva a fucilazioni sommarie, spesso inscenando riprese fotografiche nelle piazze del paese con la gente terrorizzata costretta ad assistere alle fucilazioni di massa.
La brutalità del Regio Esercito, che inviò crescenti rinforzi a Cialdini fino a raggiungere i 116.000 effettivi nel 1863, fu tale da attrarre le proteste di alcuni paesi esteri ad iniziare dalla Francia di Napoleone III certamente non ostile all’unificazione italiana. Il Presidente del Consiglio Ricasoli rispose alle note diplomatiche invocando il diritto dello Stato italiano a rispondere duramente alle violenze degli insorti.
In realtà le violenze dei soldati italiani rappresentarono una scala difficilmente eguagliabile. L’episodio più spietato e crudele avvenne probabilmente il 14 agosto 1861 contro le popolazioni di due grossi paesi campani, Pontelandolfo e Casalduni, in provincia di Benevento.
Qualche giorno prima della tragica rappresaglia una banda di 400 briganti capeggiata da un ex caporale dei Carabinieri dell’Esercito borbonico, Cosimo Giordano, aveva occupato le località di Pontelandolfo e di Casalduni per mostrare alla gente del Sannio e del Matese e agli invasori piemontesi la sua capacità di gestire il territorio.
A questo punto il tenente colonnello Negri inviava tre plotoni di soldati al comando del tenente Augusto Bracci con l’ordine di fare una ricognizione senza però prendere contatto con il nemico. Bracci, illuso che Pontelandolfo fosse stato abbandonato dai ribelli entrò in paese, trovandosi però accerchiato da forze preponderanti. Bracci tentò di guidare una disperata sortita ma lui e i 44 soldati che formavano il contingente furono tutti massacrati dalla banda di Giordano.
Cialdini ordinò allora che dei due paesi non rimanesse più “pietra su pietra”. Partiva quindi una colonna di 900 bersaglieri al comando del colonnello Negri e del maggiore Melegari. All’alba del 14 agosto 1861 la colonna si divideva in due distaccamenti, Negri entrava con 500 soldati in Pontelandolfo, non prima di aver perso in una imboscata 25 uomini, il maggiore Melegari, al comando di 400 bersaglieri, investiva Casalduni senza però incontrare resistenza.
A questo punto si scatena la barbarie: il maggiore Melegari ordina di dar fuoco a tutte le case di Casalduni, mentre stupri, uccisioni di inermi paesani, violenze di ogni genere si svolgono sotto le dense volute di fumo che avvolgono il paese. Lo stesso trattamento Negri riservò a Pontelandolfo. Gli organi di stampa riportarono di “sole” 164 vittime nei due paesi, in realtà furono molte di più. Nessuna inchiesta e nessun processo fu mai svolto per gli eventi drammatici di quel 14 agosto.
Quando tre mesi dopo, con un viaggio estremamente difficoltoso, il deputato della sinistra Giuseppe Ferrari raggiunse la località di Pontelandolfo potè constatare che di tutto il paese erano sopravvissute soltanto tre case.