Durante il periodo invernale, alcune tartarughe entrano in letargo all’interno di stagni e laghi. Nascosti in modo sicuro sotto un sottile strato di ghiaccio, questi rettili d’acqua dolce possono sopravvivere fino a sei mesi in totale assenza di ossigeno.
Come riescono i loro corpi ad affrontare questo stato? A quanto pare dipende dall’ambiente in sono cresciuti. Una nuova ricerca ha rivelato che, se le tartarughe allo stato larvale vengono esposte a bassi livelli di ossigeno, la loro fisiologia risponde programmando i loro cuori a essere più resistenti a tali condizioni per il resto della loro vita.
Pare proprio che queste creature, fin dall’inizio della loro esistenza, si adattino ad una vita in stato di ipossia. Sviluppandosi in nidi situati nelle profondità di stagni e laghi, gli embrioni di tartaruga devono sopravvivere e crescere in una situazione in cui ottengono ossigeno respirabile (O2) molto raramente, e questo altera permanentemente la loro struttura e funzione cardiaca.
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Siamo entusiasti di essere stati i primi a dimostrare che è possibile modificare il grado di tolleranza che le tartarughe hanno per gli ambienti a bassa disponibilità di ossigeno a causa dell’esposizione precoce all’ipossia durante lo sviluppo“,
afferma il biologo cardiaco
Ilan Ruhr dell’Università di Manchester.
La sopravvivenza in condizioni di ipossia dipende dalla capacità del cuore di continuare a fornire nutrienti ed evitare sprechi di energia. Gli esseri umani colpiti da infarto del miocardio subiscono un danneggiamento del cuore causato dall’ostruzione di una delle arterie coronarie che provoca ipossia nelle cellule del miocardio non più rifornite di ossigeno portato dal sangue arterioso. Una cosa simile accade al cuore durante i trapianti di cuore, nella fase in cui si passa alla circolazione extracorporea.
Diversamente da noi, i rettili come le tartarughe e gli alligatori possono resistere ad ambienti estremi e mantenere il loro metabolismo e la loro funzione muscolare. Per capire cosa accade a livello cellulare, i ricercatori hanno studiato un gruppo di giovani tartarughe comuni (Chelydra serpentina), metà delle quali sviluppate in condizioni normali di ossigeno del 21%, e metà delle quali sviluppate con livelli di ossigeno di appena il 10% .
Isolando le cellule muscolari dal cuore, Queste sono state poi sottoposte a livelli più bassi di ossigeno, consentendo al team di misurare i cambiamenti nel pH, di calcio intracellulare (che aiuta a contrarre i muscoli del cuore) e delle sostanze chimiche chiamate ROS (specie reattive dell’ossigeno).
Anche dopo la reintroduzione di livelli normali di ossigeno, qualcosa che può provocare un esteso danno tissutale nei mammiferi, le cellule del cuore delle tartarughe non hanno mostrato danni apparenti.
I risultati suggeriscono che, evolutivamente, la presenza o meno dell’ossigeno è un importante segnale ambientale per l’attivazione e la disattivazione di alcuni geni, che consentono al cuore della tartaruga di tollerare l’ossigeno zero.
L’esposizione improvvisa non solo riduce la quantità di ROS, una molecola che può diventare tossica quando il tessuto viene riossigenato troppo rapidamente, ma può anche proteggere le cellule muscolari cardiache da danni, permettendo loro di contrarsi normalmente anche in completa assenza di ossigeno.
“Collettivamente, questi risultati suggeriscono che l’adattamento evolutivo all’ipossia altera le vie coinvolte nella gestione dei ROS che possono proteggere il cuore dallo stress ossidativo“, concludono gli autori.
I ricercatori sperano che questa conoscenza possa essere, un giorno, usata per mantenere vivo il cuore umano in condizioni di ipossia. Ad esempio, in futuro un farmaco potrebbe essere in grado di attivare gli stessi meccanismi e proteggere il cuore umano dalla privazione dell’ossigeno.
“Le cellule cardiache di tartarughe e umani sono anatomicamente molto simili“, spiega la fisiologa comparata Gina Galli dell’Università di Manchester, “quindi se riusciremo a capire quali fattori consentono alle tartarughe di sopravvivere in un ambiente privo di ossigeno, potremmo imparare ad applicare gli stessi processi in scenari medici come, ad esempio, i trapianti“.
La ricerca è stata pubblicata in Proceedings of the Royal Society B