“Sono nata in Sardegna. La mia famiglia, composta di gente savia ma anche di violenti e di artisti primitivi, aveva autorità e aveva anche biblioteca. Ma quando cominciai a scrivere, a tredici anni, fui contrariata dai miei”.
Così cominciava il discorso di Grazia Deledda davanti all’Accademia Reale Svedese, quando il 10 dicembre 1927 le venne conferito il Premio Nobel per la Letteratura 1926, “per la sua potenza di scrittrice, sostenuta da un alto ideale, che ritrae in forme plastiche la vita quale è nella sua appartata isola natale e che con profondità e calore tratta problemi di generale interesse umano”. Questa la motivazione che la fece diventare la prima donna italiana a riceverlo, sancendo un primato di non poco conto.
E c’è tanto della Sardegna rurale dell’epoca nella poetica di questa donna, tanto minuta quanto determinata a perseguire la propria passione e la propria vocazione letteraria contro gli stereotipi della sua stessa terra, assoluta protagonista della sua produzione letteraria.
Nata a Nuoro il 28 settembre 1871, quarta di sette tra figli e figlie in una famiglia benestante. In qualche modo si può dire che fosse “figlia d’arte”, in quanto suo padre, sebbene svolgesse tutt’altro mestiere, componeva poesie in sardo, aveva fondato una tipografia e stampava una rivista; sua madre invece era una donna molto severa.
Grazia Deledda frequentò le scuole solo fino alla quarta elementare – cosa che le costò sempre la diffidenza da parte del mondo intellettuale dell’epoca, e non solo – proseguendo gli studi con un precettore che le venne affiancato, Pietro Ganga, dal momento che le ragazze difficilmente frequentavano la scuola superiore. La sua fu principalmente una formazione da autodidatta, e per questo colpisce ancora di più la sua caparbietà nel voler raggiungere gli obiettivi che si era prefissata.
Purtroppo la sua vita fu costellata di eventi tragici: il fratello maggiore, Santus, abbandonò gli studi e divenne alcolizzato, il più giovane, Andrea, fu arrestato per piccoli furti. Il padre morì per una crisi cardiaca il 5 novembre 1892 e la famiglia dovette affrontare difficoltà economiche. Quattro anni più tardi morì anche la sorella Vincenza.
Scrisse sin dalla più giovane età, e il suo talento venne riconosciuto per primo dall’archivista e storico sassarese Enrico Costa. “Cominciai a scrivere così, quasi per istinto. Come l’uccello comincia a cantare, come la farfalla vola, come la sorgente sgorga”, affermò la scrittrice in una lettera.
Trasferitasi a Cagliari nel 1899, qui conobbe il futuro marito Palmiro Madesani, col quale inizierà una nuova vita a Roma nel 1900. Madesani abbandonò il suo lavoro di funzionario statale per dedicarsi alla carriera letteraria della moglie in qualità di suo agente.
La vita di Grazia Deledda fu relativamente tranquilla, dedita totalmente alla scrittura che le frutterà nel 1926 il Premio Nobel, riconoscimento assoluto e internazionale.
Morì a Roma nell’agosto del 1936 a causa di un tumore al seno.
LA POETICA
Grazia Deledda non fu mai presa troppo in considerazione dagli ambienti letterari della sua epoca, che la giudicavano una illetterata a causa della sua istruzione, principalmente da autodidatta, e anche nel corso dei decenni successivi, la nostra letteratura è stata poco generosa nei suoi confronti, dandole poco spazio nei programmi di studi.
In realtà la poetica di Grazia Deledda apre per la prima volta gli occhi dei lettori sulla Sardegna dell’epoca, un mondo chiuso e rurale, dove la figura femminile è unicamente relegata ai ruoli classici di moglie e madre. Quello sardo è un microcosmo dove vige una severa etica patriarcale.
Ma non solo: le opere della Deledda si basano su temi quali l’amore, la morte, il dolore, la lotta tra il bene e il male, ma soprattutto il Fato, vero e proprio impietoso autore delle vicende umane, contro cui nulla può essere fatto. Gli uomini altro non sono che delle misere “canne al vento”, titolo anche della sua opera più importante, pubblicata nel 1913, alla quale deve la sua fama a livello mondiale. In “Canne al vento” la fragilità umana emerge nella sua tragicità, vittima di una forza sovrannaturale e al di sopra di noi, la sorte, concepita come una “malvagia sfinge”, contro cui l’uomo non può fare nulla.
Il mondo sardo appare quasi magico tanto è misterioso, ma anche bloccato nella sua rigidità, nelle sue regole, nelle sue superstizioni e nella sua staticità che iniziano a scontrarsi coi primi cambiamenti apportati dall’avanzare della tecnologia e della società industiale del primo Novecento. Grazia Deledda ci fa conoscere questo piccolo mondo arcaico anche con l’utilizzo del dialetto sardo, che conferisce veridicità alla narrazione, e conferisce ancor di più la sensazione di trovarsi in un luogo “altro”.
Proprio per questo la narrativa della Deledda venne spesso accostata al Verismo, per la sua capacità di narrare vicende umane reali, della sua terra, con un linguaggio proprio di quei personaggi. La sua fonte di ispirazione per la scrittura era la vita. “Io racconto di uomini e donne”, scriveva lei stessa.
Dai racconti alle altre opere importanti, come “Elias Portolu” del 1903, o “La Via del male” del 1896 o ancora “La madre” del 1920, Grazia Deledda fugge dall’ambiente chiuso in cui è nata per seguire la propria voce interiore che la voleva letterata e pari grado tra gli intellettuali dell’epoca, portavoce di una Sardegna rurale di cui denunciò i limiti, ma che amava profondamente.
“Io non sogno la gloria per un sentimento di vanità e di egoismo, ma perché amo intensamente il mio paese, e sogno di poter un giorno irradiare con un mite raggio le fosche ombrie dei nostri boschi, di poter un giorno narrare, intesa, la vita e le passioni del mio popolo, così diverso dagli altri così vilipeso e dimenticato e perciò più misero nella sua fiera e primitiva ignoranza”.