Contrariamente a quanto accadeva nel resto d’Europa, dove un sovrano poteva delimitare giuridicamente il concetto di nobiltà, nell’Italia del XIV secolo le cose erano un po’ più complicate. Essere nobili nell’Italia dei Comuni non dipendeva da un titolo giuridico ma, piuttosto dall’antichità della famiglia e dalla posizione di potere e rispetto goduta nella città.
I nobili, o meglio i gentili uomini come più comunemente venivano chiamati (da gens parola che in latino riconduce al concetto di famiglia), dovevano essere ricchi. A niente valeva avere antenati illustri se lo stato attuale della famiglia era modesto od addirittura miserevole.
In quanto alla profondità della catena genealogica bastava avere un antenato eponimo tra la fine del XI secolo e la prima metà del XII. A Firenze, gli Uberti, che insieme ai Donati erano le famiglie più prestigiose ed antiche della città, invocavano un’assurda discendenza addirittura da Catilina. In realtà, il primo avo illustre della famiglia era stato un giurista, Uberto di Benzone, le cui fonti ne tracciano l’attività (e quindi l’esistenza) tra il 1085 e il 1098. Al tempo di Dante, quindi, “godevano” di una discendenza gentilizia di circa 150 anni.
La Firenze di Dante è una vera e propria metropoli. I suoi centomila abitanti ne avevano fatto una delle città più ricche ed importanti d’Europa, con una grande mobilità sociale. I rapidi arricchimenti di molte famiglie però non si traducevano automaticamente nell’acquisizione di uno status gentilizio.
Lo stesso rapporto di Dante con il concetto di nobiltà fu mutevole nel corso della sua vita, passando da una severa condanna della pretesa che lo stato gentilizio fosse una prerogativa di sangue, ad una ricerca sempre più spasmodica dei propri antenati che conferissero anche agli Alighieri la condizione di nobili.
E se nel Convivio dichiara senza mezzi termini che la nobiltà di sangue non esiste, molti anni dopo, quando è già in esilio, nel Monarchia cambia decisamente registro affermando “Gli uomini sono nobili per la virtù, sia la propria, che quella degli antenati”.
Questo percorso si completa nel canto XV del Paradiso dove Dante incontra il suo avo più illustre, Cacciaguida, da cui fa discendere di fatto la nobiltà degli Alighieri.
«O fronda mia in che io compiacemmi
pur aspettando, io fui la tua radice»:
cotal principio, rispondendo, femmi.
Poscia mi disse: «Quel da cui si dice
tua cognazione e che cent’ anni e piùe
girato ha ’l monte in la prima cornice,
mio figlio fu e tuo bisavol fue:
ben si convien che la lunga fatica
tu li raccorci con l’opere tue.
Cacciaguida sarebbe stato fatto cavaliere direttamente dall’Imperatore Corrado. Anche sui cavalieri, o meglio i milites, come venivano chiamati occorre fare chiarezza. Nel resto d’Europa la cavalleria era sinonimo di nobiltà e il conferimento di questo “status” determinava un preciso titolo giuridico attribuito dal sovrano o da un gran Signore, che si tramandava di padre in figlio.
A Firenze e nell’Italia dei Comuni più in generale, essere cavalieri non significava automaticamente essere un nobile. Un ricco mercante o banchiere poteva pagare i costi ingenti dell’addobbamento (cavallo, selle, armi e scudiero) e diventare un cavaliere, a volte dopo cerimonie sfarzose, senza per altro essere riconosciuto come nobile.
In ogni caso sia i magnati, altro appellativo con il quale si indicavano i membri della nobiltà, sia i cavalieri erano esclusi dal governo del popolo che costituiva il regime dominante nella Firenze del XIV secolo.
Essere nobili nella Firenze di Dante
Il concetto di nobiltà tra la Firenze del XIV secolo e il resto d'Europa era molto diverso, così come fu contraddittorio il rapporto che ne ebbe Dante nel corso della sua vita
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