Alieni, perché ci impegniamo tanto per sapere se esistono?
Molti sono quelli che hanno adottato la matematica nella loro ricerca. Calcolo della probabilità di trovare vita su altri pianeti, identificazione della direzione migliore dove inviare, o aspettarsi di ricevere, un segnale e la ricerca di un possibile linguaggio comune, probabilmente su base matematica, per comunicare
Il primo tentativo da parte di esseri umani di contattare civiltà extraterrestri fu compiuto il 16 novembre 1974 dagli astronomi del radiotelescopio di Arecibo, a Puerto Rico, che trasmisero un segnale molto forte verso il bordo della galassia. Il segnale era costituito da ben 1679 ping.
Perché 1679? È il risultato della moltiplicazione tra 23 e 73 che sono numeri primi ossia divisibili solo per sè stessi. L’idea era che trasmettendo un numero assai improbabile da presentarsi come fenomeno naturale, eventuali alieni in ascolto non avrebbero che potuto capire di avere a che fare con un segnale artificiale. Nel messaggio era anche codificato il nostro sistema solare, una figura umana stilizzata e un’immagine della doppia elica del nostro DNA.
La ricerca degli alieni può sembrare fantascienza, eppure, per molti scienziati, è diventata una faccenda seria. Molti sono quelli che hanno adottato la matematica nella loro ricerca. Calcolo della probabilità di trovare vita su altri pianeti, identificazione della direzione migliore dove inviare un messaggio, o aspettarsi di ricevere un segnale e la ricerca di un possibile linguaggio comune, probabilmente su base matematica, per comunicare.
Douglas Vakoch è il presidente del METI di San Francisco (METI è acronimo di messaging to Extra-Terrestrial Intelligence). Il suo gruppo si concentra sui segnali di trasmissione verso lo spazio esterno nella speranza di contattare una civiltà su qualche altro mondo.
Vakoch pensa di trasmettere il messaggio usando un fascio laser oppure un potente radiotelescopio come quello di Arecibo ma la domanda che si pone è: Come inviare un messaggio che gli alieni possano capire?
“Guardiamo alla matematica come linguaggio universale”. Spiega Vakoch.
L’idea è semplice. È necessario capire la matematica per costruire le cose. Ogni mondo abbastanza avanzato da avere la tecnologia per ricevere i nostri segnali dovrebbe anche sapere come interpretare i numeri. Non è un’idea nuova. Già nel 1820 si propose di usare la geometria per comunicare con gli abitanti della Luna.
Doug Vakoch propone di creare un codice utilizzando tre frequenze di segnali radio per trasmettere messaggi tra cui la tavola periodica degli elementi.
Quindi, per parlare con un alieno, basta puntare un trasmettitore verso una stella e premere il tasto invio?
No, afferma Philip Lubin, fisico presso l’Università di Santa Barbara, che lavora sui sistemi ad energia diretta. Si tratta di potenti laser che potrebbero essere utilizzati per lampeggiare segnali verso altre stelle. Però, mentre i segnali radio si propagano allargandosi sempre di più mentre viaggiano attraverso lo spazio, i laser sono strettamente focalizzati. Ciò significa che è importante mirare con precisione. Sbagliare la mira renderebbe vano l’invio del segnale.
Si, perché la luce delle stelle che vediamo oggi ha viaggiato per anni, secoli, millenni e noi vediamo dove le stelle si trovavano nel momento in cui è partita la loro luce. Non basta, perché, oltre a calcolare dove sia esattamente oggi una stella bersaglio, dovremmo anche calcolare dove sarà nel momento esatto in cui la luce del laser la raggiungerà e, infine, puntare in quel punto. Ancora matematica.
Gli astronomi usano la matematica per determinare il corretto movimento – una misura di come gli oggetti nello spazio esterno cambiano la loro posizione apparente nel nostro cielo. Per fare questo, calcolano l’angolo dell’oggetto rispetto alla Terra. Successivamente, cercano di capire quanto velocemente si muove e in quale direzione.
Molti oggetti astronomici sono così distanti che tali angoli sono misurati in secondi d’arco o anche milli-secondi d’arco. Questi sono piccole quantità che descrivono angoli di meno di un grado di dimensione. Calcolando il moto proprio, Lubin può capire dove sarà un sistema stellare quando il suo segnale lo raggiungerà. “Devi capire non solo dove la stella è ora, ma dove sarà in futuro”, sottolinea.
Per molti scienziati, cercare di comunicare con gli alieni sta diventando una questione fondamentale. Si pongono domande come: siamo soli nell’universo? Quante sono le probabilità che la vita esista altrove? Scienziati che, ancora, usano la matematica per capire se è più probabile che la Terra sia un fenomeno unico oppure soltanto uno tra i tanti mondi dove si è sviluppata la vita.
Più di 50 anni fa, l’astronomo Frank Drake ideò un’equazione per stimare il numero di civiltà extraterrestri i cui segnali potremmo ricevere.
Per ottenere questo numero, ha moltiplicato molti fattori. Tra queste, la velocità con cui le nuove stelle si formano, il numero di stelle con pianeti in grado di ospitare la vita e il numero di pianeti dove si possa essere sviluppata la vita intelligente. Ottima idea. Solo un problema: quasi tutte le variabili in questa ormai famosa “equazione di Drake” sono ancora indeterminate.
“Non è un’equazione con cui si possano fare previsioni” spiega Avi Loeb. “È un’equazione che riassume ciò che noi non sappiamo.” Loeb è un astrofisico dell’Università di Harvard. Ha deciso di guardare la ricerca di vita extraterrestre da una prospettiva diversa. Invece di chiedere quanta vita esiste nell’universo, si è chiesto quanto probabile sia il fatto che si sviluppi la vita durante tutta la storia dell’universo.
Per calcolarlo, Loeb ha sviluppato un’equazione sua. Verifica quanti tipi di stelle esistono, la velocità con cui si formano e per quanto tempo vivono. La risposta cui è giunto Loeb è sorprendente: su scala cosmica, i giorni di un universo brulicante di vita potrebbero essere ancora molto lontani nel futuro.
Se avesse ragione Loeb, forse, toccherà a noi disseminare la vita nell’universo.
Molti scienziati avevano ipotizzato che la vita possa svilupparsi solo in sistemi stellari simili al nostro, partendo dall’unico assunto di cui siamo certi: il nostro sole sostiene la vita. Sulla base di ciò, dovremmo concludere che, se esiste vita nell’universo, oltre la nostra, deve essere vicino a stelle simili al nostro sole.
La maggior parte delle stelle simili al nostro sole esauriscono, però, il proprio carburante in sei miliardi di anni ma ci sono stelle che vivono più a lungo. Si pensa che alcune stelle molto piccole possano vivere per diecimila miliardi di anni e sappiamo che molte di queste hanno pianeti. Potranno sostenere la vita?
“Se la risposta è sì, allora è probabile che la Terra sia un caso di sviluppo precoce della vita e che, quando il nostro sole avrà esaurito il suo combustibile, o saremo riusciti a disseminarci tra le stelle oppure la vita nell’universo esisterà solo su stelle di piccola massa e vita lunghissima.”
A differenza della equazione di Drake, la matematica di Loeb contiene una sola incognita: se stelle di piccola massa siano o no in grado di ospitare la vita.
Gli scienziati impegnati nella ricerca passiva di intelligenza extraterrestre, o SETI, sanno che sarà molto difficile trovare un Vulcaniano o un Klingon durante il corso della loro vita eppure esplorano con entusiasmo l’universo alla ricerca di segni di vita, per capire, attraverso la matematica, e l’osservazione per confermarla, se siamo soli o abbiamo dei compagni nel nostro viaggio nell’universo. O forse sono terrorizzati dall’idea di trovare la risposta. In fondo, per dirla con Sir Arthur C. Clarcke, l’uomo che ha scritto “2001, odissea nello spazio“, il romanzo trasposto cinematograficamente da Stanley Kubrick, a questa domanda, “le risposte possibili sono solo due: o siamo soli nell’universo o non lo siamo. Ed entrambe sono ugualmente terrificanti.”