Tutte le persone di una certa età ricordano la burla delle false teste di Modigliani, che indignò e fece ridere l’Italia nell’estate del 1984: la riassumiamo qui per chi fosse troppo giovane e non ne sapesse nulla.
I fratelli Vera e Dario Durbè, critici d’arte, in quell’anno fanno dragare il Fosso Reale di Livorno per verificare che l’artista avesse veramente gettato in quel canale alcune teste da lui scolpite, cosa che si raccontava fosse avvenuta ma per cui non c’erano prove concrete.
Dopo parecchi tentativi improvvisamente nel canale vengono effettivamente trovate tre teste di pietra scolpite nel tipico stile di Modigliani, che creano molto scalpore: alcuni critici tra cui Argan e Brandi le attribuiscono all’artista mentre Federico Zeri sostiene che siano dei falsi. Un mese dopo la sorpresa: tre studenti livornesi si presentano alla redazione del settimanale Panorama dichiarando di essere gli autori della burla e presentando come prova della falsificazione una fotografia che li ritrae nell’atto di scolpire una delle teste, ricevendo, come compenso per lo scoop, dieci milioni di lire.
Questa la storia del 1984. Quello che però non tutti sanno è che qualcosa di simile avvenne anche ai primi del ‘900 ad opera di uno scultore: Alceo Dossena.
Dossena era nato a Cremona nel 1878 in una famiglia umile, che però vedendo la sua disposizione per il disegno lo iscrisse ad una scuola d’arte. In seguito si trasferì a Milano dove trovò lavoro in vari studi di scultura, ma i magri guadagni non gli bastavano per vivere quindi tornò a Cremona dove si mise a scolpire il marmo imitando le statue antiche.
Un giorno pensò bene di fare uno scherzo al conservatore del museo cittadino, il marchese Sommi. Nel centro della città si stavano facendo delle fognature, e mentre erano in corso gli scavi Dossena si mise d’accordo con gli operai affidando loro un frammento di una sua scultura perché fingessero di estrarla dal sottosuolo.
Il ritrovamento fece accorrere sul posto una folla di curiosi e tra questi anche il marchese Sommi, che esaminando il “pezzo archeologico” dichiarò solennemente che si trattava di un pregevole frammento di scultura di scuola lombarda del XIV secolo, ordinando che il pezzo fosse onorevolmente collocato nel museo. In seguito, quando si seppe della burla, il marchese si indignò fieramente e non perdonò mai a Dossena la brutta figura che gli aveva fatto fare.
Il primo a intuire la possibilità di sfruttare l’abilità dello scultore per far soldi fu un suo vecchio amico, uomo senza istruzione ma intelligente e furbo. Costui, in società con un suo amico sagrestano, cominciò ad acquistare per poche lire i lavori del Dossena, collocandoli in un deposito gestito da un pittore e frequentato da alcuni antiquari, che si contendevano gli oggetti convinti di trovarsi di fronte a rari pezzi di scuola toscana.
Dossena quindi si trasferì a Parma dove aprì un laboratorio di scultura. Scolpiva per lo più opere cimiteriali, ma quando non aveva ordinazioni si dedicava al suo genere preferito e cioè ad imitare sculture antiche. Fra le altre cose scolpì un magnifico caminetto in stile ‘500 che cedette a un antiquario il quale lo pose in vendita nel suo negozio; senonché il sopraintendente alle gallerie dell’Emilia ne ordinò l’immediato sequestro dichiarando che si trattava di un pezzo originale sottratto ad un antico castello considerato monumento nazionale. Anche stavolta l’episodio suscitò le risate di coloro che conoscevano benissimo l’origine dell’antico caminetto.
Allo scoppio della prima guerra mondiale Alceo viene chiamato alle armi e assegnato alla “territoriale” di stanza a Roma. A casa aveva moglie e un figlio che non sapeva come mantenere, quindi decise di mettersi a lavorare durante le ore di libera uscita, per guadagnare qualche soldo, e a tale scopo prese in affitto uno stanzone al pianterreno di via del Vantaggio, vicino a piazza del Popolo. La prima opera che fece fu una Madonna di stile senese, che appena finita cercò di vendere in giro per Roma, finchè in una trattoria incontrò un noto antiquario della capitale, che esaminò la statua e rimase stupefatto per la mirabile fattura: non solo la acquistò seduta stante per 90 lire, ma qualche giorno dopo si presentò in via del Vantaggio in compagnia di un collega, detto “Il re del tarlo”. I due personaggi, che avevano intuito i profitti che avrebbero potuto ricavare, proposero al Dossena di eseguire per loro conto alcune statue in stile toscano. Tali opere, prelevate dallo studio dello scultore di notte, venivano poi cedute con cospicui guadagni a varie gallerie tedesche e americane.
Dossena, intanto, ignaro dei lucrosi traffici dei suoi “mecenati”, lavorava giorno e notte scolpendo busti e statue che all’esame degli intenditori apparivano come altrettanti capolavori. Addirittura insigni critici d’arte dell’epoca erano rimasti estatici ed avevano espresso giudizi positivi sulla loro autenticità.
Alceo Dossena era sicuramente un artista di talento eccezionale; non si limitava a copiare le opere dei grandi maestri rinascimentali, ma ne imitava lo stile ricreando nuove immagini da lui concepite.
Aveva anche scoperto il segreto per rendere antiche le sue statue con un processo che chiamava di “arcaicizzazione”, che dava loro la patina del tempo. Aveva fatto scavare nel suo laboratorio una fossa profonda un paio di metri, interamente rivestita di cemento: immergeva in questa fossa le sue statue per impregnarsi di sostanze chimiche e rivestirsi di una patina cosparsa qua e là di qualche incrostazione calcarea che dava loro un aspetto secolare.
Quando si trattò di immergere nella vasca una “Minerva” alta un metro e settanta centimetri, del peso di circa sei quintali, dovette ricorrere a una gru e ripetere le immersioni una quarantina di volte finchè non ottenne una soddisfacente “tintarella”, come la chiamava.
Una volta terminata l’opera di Dossena cominciava quella dei mercanti, degli esperti, dei critici, con l’arrivo di grossi assegni coi quali le gallerie di Berlino, di New York, di Cleveland, potevano arricchire le loro sale di quelle opere “rare”.
Gli affari andavano a gonfie vele per i due antiquari, che pare abbiano combinato vendite per circa trentotto milioni (negli anni ’20!), quando negli Stati Uniti cominciarono a sorgere dubbi circa l’autenticità di alcune statue provenienti dall’Italia, e la Galleria Frik di New York inviò addirittura due detective privati nel nostro Paese per appurare la vera provenienza di alcuni reperti acquistati come appartenenti al Duomo di Siena. Le indagini, naturalmente, diedero esito negativo, così i contratti vennero rescissi e le statue restituite.
Il crollo degli affari fece ovviamente cessare le ordinazioni, e i due ex-mecenati fecero inoltre delle dichiarazioni che ferirono il suo amor proprio: dicevano che Dossena era invecchiato e che le sue opere non trovavano più acquirenti.
Si dice che i due antiquari, per liberarsi dello scultore divenuto per loro pericoloso, gli commissionarono dei ritratti di personaggi del momento, e mentre lavorava a un ritratto di Mussolini lo denunciassero come antifascista, dicendo che nello scolpire il busto lo scultore imprecava contro il dittatore.
È certo comunque che Dossena aveva delle buone ragioni per indignarsi; i due antiquari avevano fatto enormi guadagni, sfruttando vergognosamente il suo lavoro, perciò adì le vie legali chiedendo di essere risarcito dei danni e il suo avvocato espose tutta la storia delle sue falsificazioni e dei traffici.
La rivelazione fece scoppiare uno scandalo e nell’ottobre del 1928 la United Press diramò la notizia in tutto il mondo gettando lo sgomento tra gli acquirenti di statue antiche provenienti dall’Italia. Il grande antiquario Jacob Hirsch, che aveva acquistato per 30 milioni la famosa Minerva, per poco non ne morì, e la stessa sorte stava per capitare al famoso esperto d’arte John Marshall che aveva fatto ingenti acquisti per conto del Metropolitan di New York.
Dagli Stati Uniti partirono vive proteste per il tramite di ambasciatori e consoli, mentre il nome di Alceo Dossena diventava celebre. Al clamoroso scandalo seguirono processi e polemiche a non più finire, tuttavia ne derivarono anche dei vantaggi a Dossena, il quale si vide piovere le ordinazioni da tutte le parti.
Lo scultore lavorò così fino alla morte, che lo colse a Roma nel 1937.
Alceo Dossena, il “Cagliostro della scultura”
Nell'Italia del primo '900 uno scultore imitava così bene le opere medioevali da riuscire a venderle per autentiche ai musei di tutto il mondo
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