Dopo la morte nera del 1348 in Italia, lo scrittore Giovanni Boccaccio scrisse una raccolta di 100 novelle intitolata “Il decamerone“. Queste storie, sebbene immaginarie, ci danno una finestra sulla vita nel medio evo durante la Morte Nera e su come, anche allora, ci fu un netto divario nel modus vivendi tra ricchi e poveri. Gli storici oggi vedono “Il Decamerone” come una preziosa fonte di informazioni sulla vita quotidiana nell’Italia del XIV secolo.
Boccaccio nacque nel 1313 come figlio illegittimo di un banchiere fiorentino. Questo si riflesse nella sua opera principale, Nel “Decamerone”, infatti, scrisse storie di mercanti e servi. Questo era insolito per il suo tempo, poiché la letteratura medievale tendeva a concentrarsi sulle vite della nobiltà.
“Il Decamerone” inizia con una descrizione avvincente e grafica della Morte Nera, che fu una pestilenza così virulenta che chi la contraeva moriva entro entro 4-7 giorni. Tra il 1347 e il 1351, uccise tra il 40% e il 50% della popolazione europea. Morirono anche alcuni membri della stessa famiglia Boccaccio.
Nella sezione di apertura, Boccaccio descrive il ricco isolamento in casa, dove si godono vini e prodotti di qualità, musica e altri divertimenti. I più ricchi – che il Boccaccio descrive come “spietati” – abbandonarono del tutto i loro quartieri, ritirandosi nelle tenute di campagna, “come se la peste fosse destinata a tormentare solo coloro che rimanevano all’interno delle mura delle città“.
Nel frattempo, la classe media e i poveri, costretti a rimanere nelle loro case in città, “contraevano la peste a migliaia proprio lì, nel loro quartiere, giorno dopo giorno” morendo rapidamente. I servitori prestarono un’assistenza diligente ai malati delle famiglie benestanti, spesso soccombendo alla malattia stessa. Molti, incapaci di lasciare Firenze e convinti della loro imminente morte, decisero semplicemente di bere e festeggiare i loro ultimi giorni in una baldoria nichilista, mentre nelle zone rurali i lavoratori morivano “come bestie brutali piuttosto che come esseri umani; giorno e notte, senza mai avere l’assistenza di un medico”.
Dopo la desolante descrizione della peste, Boccaccio passa alle 100 storie. Sono narrati da 10 nobili fuggiti dal pallore della morte incombente su Firenze per crogiolarsi in dimore di campagna ampiamente rifornite di cibo e bevande. Da lì raccontano le loro storie.
Una questione chiave nel “Decamerone” è come la ricchezza e il vantaggio possono compromettere le capacità delle persone di entrare in empatia con le difficoltà degli altri. Boccaccio inizia attaccando con il proverbio, “È intrinsecamente umano mostrare pietà a coloro che sono afflitti“. Eppure, in molte storie presenta personaggi evidentemente indifferenti al dolore degli altri, accecati dalle proprie pulsioni e ambizioni.
In una storia, ogni venerdì un uomo morto ritorna dall’inferno e massaggia ritualmente la stessa donna che lo aveva respinto quando era in vita. In un altro, una vedova respinge un prete inducendolo a dormire con la sua domestica. In un terzo, il narratore elogia un personaggio per la sua immortale lealtà nei confronti del suo amico quando, in effetti, ha profondamente tradito quell’amico per molti anni.
Gli umani, sembra dire Boccaccio, possono pensare a sé stessi come retti e morali – ma inconsapevolmente, possono mostrare indifferenza verso gli altri. Lo vediamo nei 10 narratori stessi: fanno un patto per vivere virtuosamente nei loro ritiri ben forniti. Eppure, mentre si coccolano, si abbandonano ad alcune storie che illustrano brutalità, tradimento e sfruttamento.
Boccaccio voleva sfidare i suoi lettori e farli riflettere sulle loro responsabilità verso gli altri. “Il Decamerone” pone le domande: in che modo i ricchi si relazionano con i poveri durante i periodi di sofferenza diffusa? Qual è il valore di una vita?
L’attuale pandemia di nuovo coronavirus, la COVID-19, nonostante che palesemente non guardi in faccia a nessuno e colpisca senza badare al censo, ci propone lo stesso schema; lo vediamo, fatte le dovute proporzioni, negli atti e nelle dichiarazioni dei ricchi e dei politici che, sentendosi al sicuro nei propri rifugi blindati, prima sollecitavano a non fermarsi e a continuare a lavorare per non danneggiare l’economia, e lo facevano invitando la gente a partecipare a gaudenti aperitivi o abbondanti cene, poi, dopo un breve periodo di dilenzio durante il quale si sono adattati ed aggiustati le loro sicurezze, hanno cominciato ad invitare gli a riaprire, a tornare al lavoro.
Anche tante persone normali e poco abbienti oggi invitano a riaprire a tornare al lavoro, ma i primi lo fanno per mantenere le loro ricchezze ed il loro modello di vita che vogliono salvaguardare dalla recessione in arrivo, i secondi lo fanno perché, constatato che aiuti statali o pubblici non arriveranno se non in modo simbolico, hanno bisogno di tornare a lavorare, a vivere, per non morire di fame.
Intanto, la malattia continua a mietere vittime ed è sorprendente, nonostante la lezione del passato, la mancanza di empatia e di effettiva condivisione per i problemi altrui che avviene a livello dei palazzi del potere e delle torri d’avorio dell’opulenza.