Per buona parte del Ventesimo Secolo i virus sono rimasti un mistero sfuggente ed insondabile. Le conseguenze, spesso nefaste, della loro esistenza erano ben visibili ma invece questi organismi sfuggivano ad ogni studio o rilevazione, persino a quelli condotti da Pasteur e Kock nella seconda metà del diciannovesimo secolo.
Nel 1902 William G. Gorgas riuscì a eradicare la febbre gialla da Cuba sterminando tutte le zanzare senza però venire a capo dell’agente patogeno veicolato da questi insetti. La grande pandemia del 1918-19, chiamata comunemente la “spagnola” che fece 50 milioni di vittime in tutto il mondo, rimase un angoscioso mistero. L’agente responsabile di questa strage era del tutto invisibile ai microscopi ottici dell’epoca.
Oltre a risultare invisibili, i virus non si coltivavano in laboratorio e non si catturavano, come i batteri, utilizzando speciali filtri di porcellana. La loro esistenza era meramente deduttiva. Perché sono così sfuggenti? Si tratta di anomalie biologiche, estremamente piccole, gli scienziati non sono neppure del tutto sicuro che si tratti di organismi viventi. Nel caso non lo fossero sarebbero però un’eccellente imitazione.
Sono subdoli parassiti che si moltiplicano e sopravvivono attraverso raffinate strategie modellate sulla selezione naturale darwiniana. Il termine virus deriva dal latino e significa “melma, fetore, veleno”. Il suo utilizzo come parola che definisce un agente che causa una malattia infettiva, sia pure in un’accezione generica è del 1728 e si trova in un documento inglese.
Ancora negli anni Quaranta dello scorso secolo si utilizzava il termine virus per indicare anche malattie causate da batteri, organismi conosciuti e studiati da oltre mezzo secolo. Gli effetti del virus erano ben noti prima della loro scoperta. Vaiolo, morbillo, rabbia erano ben noti da moltissimi secoli anche se nessuno sapeva cosa provocasse queste malattie.
Le epidemie erano spiegate con una molteplicità di suggestioni fantasiose ed a volte pure esoteriche: miasmi, vapori, effluvi, materia in decomposizione, sporcizia, volontà divina e persino magia nera. La scoperta dei microbi come agenti patogeni è relativamente recente. Nel 1840 il patologo tedesco Jacob Henle in un importante articolo intitolato “Von den Miasmen und Kontagien” sviluppò infatti i concetti di contagium vivum e contagium animatum, riallacciandosi ai lavori di Girolamo Fracastoro (1478-1553) e Agostino Bassi (1773-1856). Henle ipotizzò l’esistenza di particelle nocive, vive o inerti, impossibili da vedere, in grado di provocare molte malattie.
Nel 1846 il medico danese Peter Panum osservando un epidemia di morbillo sulle isole Faroe fece delle brillanti deduzioni riguardo al tempo intercorrente tra il contatto con l’infezione ed i sintomi. Questo lasso di tempo è quello che oggi chiamiamo “periodo di incubazione”. Gli studi di Robert Kock, studente di Henle, di Pasteur, di Lister e di altri rivoluzionarono il concetto di malattia infettiva, facendo piazza pulita delle fantasiose cause scatenanti fin li adombrate. I microorganismi individuati da questi ricercatori erano però tutti batteri.
I batteri non erano così sfuggenti e diabolici come i virus. Innanzi tutto si potevano coltivare in vitro con una normale capsula di Petri. Erano visibili al microscopio ottico. Erano più grandi e più facili da catturare dei virus. Un passo decisivo verso la comprensione degli agenti patogeni virali avvenne non in campo medico bensì, in quello agroalimentare.
Nel 1890 a San Pietroburgo Dimitrij Ivanovskij fece importanti ricerche sul “mosaico del tabacco” una malattia che infestava le piantagioni di tabacco dell’impero russo. La malattia era altamente contagiosa e passava da pianta a pianta. Ivanovskij prese la linfa di una pianta infetta e prima di trasferirla su una pianta malata, la passò attraverso un filtro Chamberland utilizzato allora per purificare l’acqua dai batteri. Il russo si accorse che anche il liquido filtrato era in grado di provocare l’infezione.
Qualche tempo dopo l’olandese Martinus Willem Beijerinck ( 1851-1931) fece un ulteriore passo in avanti, diluì con acqua la linfa filtrata e constatò come l’infettività rimaneva praticamente inalterata. Era un indizio che il microbo si riproduceva nei tessuti della pianta infetta. Grazie a queste ricerche collettive si era delineato un primo quadro d’insieme di un virus: un organismo troppo piccolo per essere visibile con un microscopio ottico, capace di moltiplicarsi all’interno delle cellule viventi ma non altrove.
Beijerinck ipotizzò che si trattasse di un liquido e lo battezzò contagium vivum fluidum. La scoperta del microscopio elettronico avvenuta negli anni Trenta del ventesimo secolo smentì questa teoria: un virus è formato da minuscole particelle solide. Il primo virus animale scoperto fu quello dell’afta epizootica un altro grave problema per l’agricoltura, mentre la prima infezione virale riconosciuta che affliggeva l’essere umano fu la febbre gialla nel 1901.
Già nel 1934 in uno dei testi fondamentali di microbiologia “Rats, lice and History” Hans Zinsser, medico americano, era consapevole della possibilità che i virus fossero prodotti dalla zoonosi e che dopo il “salto di specie” erano in grado di provocare seri danni alla salute umana.
Il nemico invisibile
Breve storia di un nemico invisibile che costituisce una delle più gravi minacce per l'umanità
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